Scheda
In quella movimentata storia di Bologna storico-artistica, che cominciò ad appassionare, al tempo di Giuseppe Bacchelli e di Adolfo Rubbiani, la cittadinanza petroniana, nelle discussioni che non trascurarono neppure la incompleta facciata di San Petronio, cominciò a ricorrere, nel primo decennio del nostro secolo, il nome di Guido Zucchini, un gentiluomo presto affermatosi per serietà di studi, fermezza di concezioni e gusto sicuro.
Erano in corso i restauri che dovevano portare all’isolamento e al ripristino del Palazzo di Re Enzo, anni di pace dedicati a riconoscimenti e ricostruzioni minori, ovunque in questa vecchia città, così illustre e segnata da documenti architettonici, vetusti, pittoreschi, affiorassero resti di antiche costruzioni per lo più in rosso mattone della “fosca e turrita”. Più tardi Guido Zucchini, nato il 15 novembre 1882, da Cesare, benemerito cittadino, divenne popolare per una particolarità che i petroniani sottolinearono ogni qualvolta una facciata nuova ed antica, una casa che mostrasse le sue prime forme architettoniche, un restauro che si intonasse con la tinta della vecchia Bologna. Scoperto un recupero, affiorato fra costruzioni più tardive un tratto di mura, rimesso in luce un affresco, ricondotto alle linee prime un tempio come San Francesco, ogni volta che il cotto o una dipintura di quel tono si palesasse, i bolognesi dicevano, un poco sorridendo, ma con affetto ed anche orgoglio cittadino, che si trattava della “tinta Zucchini”. Con il passare degli anni quei restauri e ripristini prendevano colore di tempo, si fondevano coi secoli dai quali erano riaffiorati. E alle discussioni, ai dibattiti, alle polemiche che per anni ed anni avevano tenuto sempre vivo il problema, seguì un tempo di riconoscimenti che, per merito soprattutto dello Zucchini, andarono al benemerito Comitato per Bologna storico-artistica. Dal restauro del Palazzo Pepoli Vecchio, ad altre pagine di architettura viva e fedele, dalla sistemazione di Porta Galliera e a ripristini e recuperi minori, sempre meglio si affermava nei lenti, continui riconoscimenti la rinomanza di Guido Zucchini e la gratitudine per lui dei concittadini. Scompare pertanto con lui una delle figure più rappresentative di studioso e di storico di questo mezzo secolo. Di famiglia bolognese, fratello di altro compianto maestro insigne della Facoltà di agraria del nostro Ateneo e figlio di Cesare Zucchini, già presidente della Cassa di Risparmio che provvide con munificenza alla Università, fu allievo prediletto di Alfonso Rubbiani e prese parte alla restaurazione artistica della Bologna medievale e rinascimentale.
Dopo aver conseguito nel 1905 la laurea in ingegneria civile nell’allora Scuola di applicazione per gli ingegneri, ora Facoltà universitaria, aveva poi conseguito la libera docenza in architettura e arte del restauro. Insegnò per qualche tempo nel nostro Ateneo. Ma la sua fama è affidata anche a numerose e pregevoli memorie e pubblicazioni, che ammontano ad oltre quattrocento, se ai libri e gli opuscoli si uniscono le recensioni. Da ricordare l’arte nel palazzo universitario, La chiesa di Santa Maria del monte e numerosi studi e progetti per la rimessa in luce di monumenti sacri e profani di Bologna con altre dotte pubblicazioni di argomento storico artistico che testimoniano della sua passione per l’arte e per la storia della nostra città. Una sua monografia giustamente apprezzata è quella dedicata alla città natale, e pubblicata dall’Istituto di Arti grafiche di Bergamo. La perdita di Guido Zucchini è un grave lutto per il Comitato per Bologna storico-artistica al quale aveva dedicato assidua ed intelligente opera e di cui era apprezzato consulente. Il suo particolareggiato, efficace studio di due anni or sono sui restauri degli edifici di Bologna è dimostrazione evidente e indiscussa delle sue alte doti di studioso e di artista. Numerosissime, - come si è accennato – sono le memorie che Guido Zucchini ha dedicato con rara e geniale competenza alla Bologna nell’arte. Dopo quella dei Pepoli, altre opere da lui progettate con profonda passione di restauratore dicono quanto egli contribuì a riportare Bologna al suo splendore nel campo soprattutto dell’arte architettonica. Già incaricato per l’insegnamento del disegno nella Università, era presidente dell’Accademia Clementina, direttore del Museo industriale e del Museo Davia-Bargellini, delle collezioni comunali d’arte, della Galleria d’Arte moderna a Villa delle Rose, del Museo di San Petronio, socio di varie altre Accademie, fra le quali quella romana di San Luca, presidente della Commissione per la tutela delle bellezze naturali. Gli fu assegnata la medaglia d’argento per i benemeriti dell’arte e inoltre era l’unica medaglia d’oro fra i componenti del Comitato per Bologna storico-artistico di cui fu per anni consulente artistico. Competentissimo tecnico del restauro, era apprezzato per la accuratezza d’interpretazione storica e di applicazione tecnica.
La notizia della morte di Guido Zucchini ha suscitato vivo cordoglio in città e tra i primi a recarsi all’abitazione dell’estinto in Via Santo Stefano sono stati il Rettore dell’Università prof. Forni, il prof. Alessandro Ghigi ed altre personalità cittadine che hanno espresso ai famigliari le più profonde condoglianze (Trascrizione a cura di Lorena Barchetti). Muore nelle ultime ore del 14 maggio 1957 per disturbi cardiaci, nella sua abitazione di via Santo Stefano 36.
"Dopo Albano Sorbelli, dopo Arturo Palmieri, dopo Filippo de Bosdari, anche Guido Zucchini ci ha lasciati. Insieme con l'amico è scomparso ciò che ancora restava di una generazione di studiosi e di ricercatori che ha lasciata una traccia onorevolissima nella storiografia cittadina, sicché la tristezza per la perdita di lui è accompagnata dalla malinconia di vedere definitivamente reciso anche l'ultimo anello col quale rimanevamo ancora materialmente legati a un passato, che aveva forse esaurito il suo compito, ma che ci era consolante veder prolungato nel presente nella persona di uno dei suoi personaggi più significativi, a una tradizione che presuntuosamente crediamo di aver superato, ma della quale non dobbiamo né possiamo dimenticare di esserci nutriti. La generazione di Guido Zucchini era quella, fiorita nei primi venticinque o trent'anni del secolo, che, per quanto riguarda gli studi storici locali, continuava, affinandola, la tradizione positivista della precedente, ed anche quando, nei suoi rappresentanti più avvertiti, inclinava ad accettare l'indirizzo economico-giuridico iniziato, per vie diverse e in campi diversi, da Gioacchino Volpe, da Gaetano Salvemini e da Pietro Bonfante, non si riteneva tuttavia autorizzata a poter fare a meno di un oggetto ben distinto dal soggetto, né poteva pensare di scrivere storia se non sulla base di una ampia, solida, precisa documentazione: una generazione che popolava gli archivi e le biblioteche e che si faceva vanto dell'ampiezza e della profondità delle ricerche compiute. Anche a Bologna fu quello il periodo di massima fioritura degli studi sulle fonti storiche. Non ripeterò quello che ho avuto occasione di ricordare in un'altra recente, triste congiuntura; non ricorderò il Livi che, appartato nella sua stanza, cercava furiosamente (e cercò per anni) qualche traccia della presenza di Dante in Bologna, mentre nella vecchia sala di studio del palazzo Galvani l'archivista Orioli riceveva Pio Carlo Falletti, Giambattista Comelli, il conte Cavazza, Alfonso Rubbiani e per tutti aveva un'indicazione precisa, un consiglio, una scheda: anche, imparzialmente, tanto per Augusto Gaudenzi quanto per il canonico Breventani, i due eterni avversari della causa per le decime di Cento, che, seduti ai due capi di un gran tavolone, davanti a vecchi registri polverosi o pergamene corrose dal tempo, di tanto in tanto alzavano gli occhi per squadrarsi l'un l'altro. Non ricorderò tutto questo per non ripetermi, eppure dovrei, perché questo era l'ambiente in cui Guido Zucchini era stato introdotto da Alfonso Rubbiani, e qui egli si educò alla ricerca severa, paziente, minuziosa, che era alla base di tutti i suoi lavori, dal restauro degli edifici medievali alla redazione di una guida della sua città, alla compilazione di una bibliografia degli edifici bolognesi, all'edizione del regesto dei documenti relativi ai pittori e ai miniatori in Bologna nel Trecento. Anche per l'ideazione di un progetto di ricostruzione di un edificio o di un ambiente medievale, guastato e sopraffatto dalle strutture aggiuntevi dai secoli, egli come il suo maestro, faceva anzitutto parlare le pietre medesime, ma più, di lui e più scrupolosamente, interrogava manoscritti, carte, antiche memorie, libri. Perpetuamente avido di notizie, si può dire che poche cose egli non fosse capace di fare per ottenere una scheda con l'indicazione di un documento d'archivio, e, avutala, non era soddisfatto finché consultava l'originale; da questo poi, spesso, ricavava l'indizio per una nuova ricerca, alla quale si dedicava col medesimo entusiasmo pertinace, con la medesima ostinazione appassionata. Così la sua casa finì per essere ricettacolo di centinaia e migliaia di schede, la maggior parte redatte in base a sue ricerche personali e scritte con quella sua scrittura elegante e sicura che gli amici conoscevano così bene, ma moltissime anche di mano altrui: chi le conosceva ritrovava quelle del Livi, dell'Orioli, del Fornioni, del Giorgi, del Malaguzzi-Valeri, del Sorbelli, del Sighinolfi, del Filippini, del servita p. Giuseppe Albarelli, tanto infaticabile ricercatore quanto generoso dispensatore dei documenti trovati, di don Giuseppe Fornasini e di molti altri, non escluse le mie. Egli medesimo, poi, con l'immensa erudizione che aveva accumulata, aveva finito per diventare una specie di repertorio vivente della storia artistica bolognese, e di questa ampiezza di conoscenze, talvolta il suo temperamento caustico si lasciava indurre al gioco di chiedere a qualche amico illustre, ben noto per la sua altissima competenza bibliografica, qualche informazione peregrina, per il divertimento di vederlo cercare di arrampicarsi sugli specchi per non confessarsi incapace di rispondere.
Ricercatore esigente e abilissimo, pretendeva capacità e passione pari alla sua da coloro che, bibliotecari o archivisti, la ricerca devono esercitare per professione, ed essi, perciò, non sempre lo accoglievano col sorriso sulle labbra, nel dubbio che dalla sua cartella uscisse fuori una delle sue temutissime schede rebus, contenenti l'indicazione di un documento ricavato da uno spoglio eseguito trecento o trecentocinquant'anni or sono, recante la segnatura più assurda, oppure scritte da quel tale studioso che tutti conoscevano molto bene per la costantissima abitudine di leggere le carte molto a un dipresso e comunque sbagliar sempre, nei suoi appunti, o la data o la collocazione del materiale consultato. In questi casi, Zucchini era inesorabile: le ricerche dovevano continuare finché il documento non si fosse trovato, e quando proprio l'impresa era disperata, solo mezzo di convincerlo era farlo partecipare personalmente alla ricerca, portandolo davanti agli scaffali ad impolverarsi sacrosantamente anche lui mani e vestiti. Fu appunto questa somiglianza nell'amore della ricerca puntigliosa che ci avvicinò subito quando (saranno tra pochi giorni venticinque anni) venni a Bologna, archivista fresco fresco di nomina: lui più che cinquantenne, io meno che venticinquenne. Ci arrabattammo insieme su alcune delle sue schede più tremende e trovammo la strada per riuscire; io ammiravo la sua erudizione eccezionale, egli aveva la bontà di apprezzare la mia capacità di leggere i ghirigori delle pergamene più antiche dell'Archivio, non più consultate da decine di anni o consultate (cd, ahimè, alcune anche pubblicate) solo sulle trascrizioni lasciate dal canonico Breventani; in breve passammo dal cerimonioso «lei» al confidenziale «tu». A lungo c'incontrammo spesso, quasi ogni giorno, in Archivio, dove io andavo per dovere ed egli per piacere, o in biblioteca, dove andavamo ambedue per piacere, e sempre era o la lettura di una parola dubbia in qualche brutta scritturaccia del Tre o del Quattrocento, o un'informazione bibliografica, o uno scambio di notizie, o il racconto dello scherzo giocato al comune illustre amico: raro che non ci vedessimo e non ci parlassimo per un periodo più lungo di qualche giorno. Né la consuetudine venne meno quando lasciai l'Archivio, e assai spesso, fino a pochi mesi fa, alzando il ricevitore del telefono mi accadeva di sentire la sua voce annunziarsi col consueto «sono Guido» e continuare con la richiesta di una informazione, con l'esposizione di un dubbio, con l'annuncio di un ritrovamento. Ora la sua voce non mi chiamerà più e non ci romperemo più il capo insieme per immaginare donde Niccolò Pasquali Alidosi o Baldassarre Carrati abbiano tratto la notizia di un pagamento fatto a Iacopino Bavosi per l'esecuzione di un dipinto. L'amico non è più ed è scomparso l'ultimo della generazione che ci precedeva, lasciandoci l'amaro gusto di vedere che molti ci seguono nel tempo e nessuno più ci precede. Ora non ci è più possibile considerarci come la generazione dei «maturi», di coloro che, stando in mezzo, fanno da ponte fra i vecchi e i giovani. Cominciamo ad esser noi i vecchi che la baldanza dei giovani ormai pienamente formati pensa (e può darsi non a torto) di avere a sua volta superati. Poi, come Zucchini ha lasciato noi, noi lasceremo loro, sospinti da altri ancor più giovani: eterna vicenda delle genererazioni che, salendo l'una sulle spalle dell'altra, ciascuna spinge il suo sguardo un poco più lontano dell'altra. Possa la nostra lasciare ai nostri successori lo stesso rimpianto, la di probità e di onestà scientifica che i nostri predecessori hanno lasciato a noi. (Giorgio Cencetti, estratto da 'Guido Zucchini in archivio', in 'Strenna Storica Bolognese', 1957)
E' sepolto nella tomba di famiglia collocata nel portico del Chiostro I° d'Ingresso della Certosa di Bologna.