Schede
Alla morte di Raffaele Belluzzi, nel 1903, il Museo del Risorgimento acquisisce tre voluminosi album di fotografie, raccolte dal compianto direttore. I primi due documentano L’Arte Bolognese / nella seconda metà del secolo decimonono: il primo o Parte I - Pittura, contiene, 174 immagini, tutte riproduzioni fotografiche di dipinti; il secondo o Parte II, invece, 97 immagini di Architettura - Scultura, ecc., in buona parte stampe su carta all’albumina, come le precedenti; anche solo quantitativamente si tratta di una pregievole collezione di riproduzioni artistiche, come risulta dall’inventario, minuziosamente redatto da Otello Sangiorgi, attuale responsabile del Museo. Il terzo volume, infine, è intitolato Bologna nella seconda metà del secolo XIX. Parti I Monumenti, II Avvenimenti, III Festeggiamenti, e contiene 152 fotografie; a quest’ultima parte della raccolta fotografica Belluzzi è dedicato questo lavoro di studio e ricerca.
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E’ interessante notare che i tre pesanti volumi in cui il professore ordinò la sua raccolta presentano le stesse caratteristiche fisiche e che la soluzione adottata nel fissare le immagini alle pagine è la stessa nei tre distinti casi; rinvio in nota alla Descrizione fisica della raccolta che precede qui il catalogo della stessai. Sembra a me necessario evidenziare un’altra caratteristica comune: il tipo di legatura che è abbastanza modesta, ma resistente, e non porta nessuna firma; molto probabilmente fu eseguita all’interno del museo o in economia o ad hoc, essendo (altro fatto curioso ed unico nelle collezioni fotografiche di Bologna) ogni supporto in cartone, sul quale tradizionalmente il fotografo incollava l’immagine, fissato alle grandi pagine (in cartone) dell’album stesso. Sicchè il peso di ogni singolo album è notevole. Si tratta complessivamente di 423 fotografie di diverso formato, ognuna delle quali su cartone di spessore differente, collocate a due o tre per pagina (di cartone di medio spessore), e suddivise in tre tomi dai pesanti coperchi spessi e rigidi, rivestiti di carta verde scura, con un’unica raffinatezza: i fogli di guardia in carta marmorina di distinto colore. La prima domanda che i tre album pongono è: qual è il modello preesistente a cui questa tipologia-album si riferisce? La storia delle forme della edizione della fotografia, e del collezionismo che ne consegue, ha come referenti: libri, e loro legature; incisioni e litografie, e loro legature, anche se l’oggetto “album fotografico familiare” è forse preceduto da quello di viaggio, con disegni, acquerelli, diari e annotazioni pittoresche; purtroppo sono pochissimi gli studi e le informazioni a cui accedere e le ricerche all’interno delle collezioni fotografiche pubbliche sono modeste. Quei pochi, inoltre, che possono studiare a tempo pieno la fotografia sottovalutano l’importanza della questione, perdendo di vista che la storia della fotografia, della sua edizione e distribuzione è una storia anche di produzione di oggetti materiali semplici o complessi, come sono appunto gli album, che pongono, fra le altre cose, problemi di conservazione (a tutt’oggi irrisolti), sia ai privati che alle istituzioni che li conservano. I nostri album Belluzzi, dunque, sono sì un unicum nel panorama delle raccolte fotografiche bolognesi, ma hanno come antecedenti e coevi quei pesanti volumi sui quali nella pubblica amministrazione hanno passato la vita fra Ottocento e metà Novecento centinaia di impiegati-scrivani a redigere ad inchiostro e in bellissima grafia inventari millimetrici del patrimonio comunale o atti di diversa natura o elenchi di contribuenti, ecc. che Bologna, come altre città, ora conserva nel suo Archivio storico comunale. A mio parere Belluzzi stesso o qualche suo aiutante trovarono che questa tipologia-registro amministrativo poteva essere funzionale all’ordinamento delle fotografie che nel tempo erano state raccolte e che ad un certo punto fu necessario cominciare a collocare, cercando una soluzione che potesse garantire alla collezione un guscio protettivo resistente all’ignavia dei posteri così da preservarla da ogni possibile dispersione, come poi fortunatamente è avvenuto.
In questa scelta operativa forse Belluzzi ebbe come suggeritore o consigliere il fotografo Luigi Lanzoni, con cui intrattenne a lungo relazioni di piccole committenzeii anche se l’album del 1895, donato ai Reali, era di confezione modesta, e la copia bolognese più ordinaria. I due esemplari erano chiaramente stati prodotti senza ricorrere a professionisti legatori come a Bologna si potevano permettere: il Municipio, che nel 1873 fece confezionare l’album da inviare a Vienna dalla Carteria al Palombo o la Deputazione provinciale che si affidò a Cicotti e Montebugnoli quando commissionò nel 1896 a Cassarini le foto dell’Istituto Ortopedico Rizzoli per farne dono a Roma nel 1897 al principe ereditario che sposava la principessa del Montenegro. Fra i fotografi dilettanti forse solo Alessandro Cassarini e Giuseppe Michelini potevano commissionare “preziose” legature per i lavori fotografici che decidevano di donare. E’ solo con l’introduzione in fotografia delle piccole e maneggevoli macchine Kodak che la stessa casa produttrice metterà in vendita, oltre alla camera da ripresa e alla pellicola, deliziosi album di produzione standardizzata e di medio-piccole dimensioni, per la collezione delle stampe. E’ altresì vero, però, che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo il ricorso alla fotografia anche a fini illustrativi portò in qualche singolare caso a produrre oggetti giganteschi, non definibili come semplici album né qualificabili semplicemente come libri; è il caso dell’enorme pubblicazione, illustrata con testi e fotografie - inquadrate a loro volta da deliziosi acquerelli - che nel 1906 la Famiglia Baragiola presentò all’Esposizione di Milano, per illustrare l’attività educativa svolta in Canton Ticino, nel prestigioso Collegio privato da loro organizzato, dove i rampolli della ricca borghesia milanese potevano studiare assieme ai figli di alcuni aristocratici signori, e che oggi è conservato in Cineteca. Ma la domanda più immediata che pone l’album terzo è: cosa racconta della città e della sua vita sociale nell’Ottocento che non potessimo sapere da altre fonti o da altre raccolte fotografiche bolognesi?
Una prima parziale risposta la fornì il segretario economo Leonildo Rocchi quando nel 1916, dovendo il Museo del Risorgimento acconsentire alla richiesta avanzata attraverso il Municipio di esporre questo album alla locale Mostra di Bologna che fu, si trovò a dover redarre l’«Elenco delle fotografie riproducenti vecchi edifici, ricordi di avvenimenti e di feste bolognesi […]»iv. L’operazione richiese pazienza e bella calligrafia e comportò la trascrizione su più fogli delle note manoscritte - presenti sui supporti di ogni singola fotografia - nella colonna «soggetti» e in quella parallela «annotazioni» l’elenco dei donatori. Con questo ricco corredo di immagini e parole il volume andò in mostra, come risulta nel catalogo a stampa che accompagnò l’esposizionev, e successivamente tornò al Museo del Risorgimento, dove numerosi cultori di storia locale o fotografica poterono e possono consultarlo, avere in riproduzione le immagini che a loro interessano, e magari ora citarne con precisione la provenienza. Il menzionato prezioso elenco del 1916, però, può raccontare molto, ma non esaurisce le domande che pur contribuisce a sollevare. Di qui il bisogno di riesaminare per qualche strada la raccolta del volume terzo e, subito dopo, mettere in relazione queste immagini con altre di proprietà comunale o pubblica o privata, collazione che spero possa realizzarsi in tempi stretti, grazie anche al contributo di tutti gli studi qui pubblicati. In primo luogo vi è da dire che il riesame comporta l’adozione di uno o altro criterio, a libera scelta del lettore o studioso appassionato. Il singolare viaggio “a piè fermo”, infatti, nella Bologna che fu può realizzarsi, a parer mio, o seguendo la numerazione originale delle singole immagini, come si trova nelle ricche e dettagliate schede che in questo libro ne accompagnano la riproduzione, o riordinando le immagini secondo la data certa o attribuita di stampa. E’ questo secondo il criterio che più intimamente tocca le corde della ricostruzione della intera vicenda fotografica a Bologna, intesa come storia di fotografi, tecniche, forme di edizione e distribuzione. La fotografia più antica, donata a Belluzzi, è la numero 42, «una delle prime … eseguite in Bologna dal Sig. Angelo Gasperini- Dono del Sig. Gaspare Gasperini» ed è relativa all’«Arco trionfale fuori Porta Maggiore (Mazzini) nel luglio del 1857 eretto in onore di Pio IX allorchè visitò le Legazioni». La più recente è la numero 48, via Indipendenza sotto la neve, il 17 aprile 1903, così come appariva all’economo comunale Giuseppe Cavazza dall’unica finestra che al secondo piano di palazzo d’Accursio ancora oggi permette di inquadrare frontalmente la stessa strada. Fra l’una e l’altra è racchiusa non solo la storia della città, ma anche quella della sua rappresentazione ottocentesca in fotografia, dalla scoperta del nuovo mezzo (1839) fino alla produzione di istantanee (post 1888). E’ noto, infatti, che l’ingegner Angelo Gasperini si appassionò da prima alla dagherrotipia, ebbe studio in Mercato di Mezzo 56, e successivamente nel 1857 fu in grado di immortalare l’arco trionfale; mentre l’eclettico economo Cavazza inaugura l’età dell’istantanea, come lui stesso ebbe a dichiarare quando eseguì con abilità e velocemente fotografie delle mura e porte di Bologna, ormai prossime all’abbattimento (1902).
Fra gli estremi temporali di queste due immagini, non casualmente presenti nella raccolta Belluzzi, si inseriscono anche le scelte collezionistiche del professore che è vero riceveva le immagini in dono, ma sicuramente ricercava quei soggetti che più relazioni avevano con le sue vicende di vita e di impegno intellettuale. A tale ricerca non erano estranei i contatti che egli riusciva facilmente a stabilire con persone di differente formazione e professione, proprio in virtù del suo doppio incarico all’interno dell’amministrazione comunale come ispettore scolastico (dal 1869) e direttore del Museo del Risorgimento (dal 1893). Un’ultima considerazione: non è casuale la presenza del terzo volume della Collezione Belluzzi fra gli oggetti esposti alla Mostra di Bologna che fu, tenutasi a palazzo Bonora nel 1916, su iniziativa del Comitato per Bologna storico-artistica e a beneficio della Croce Rossa. E’ questa la sola occasione in cui l’impegno profuso da Belluzzi nel raccogliere immagini della città riceve nel Novecento un riconoscimento pubblico di una qualche ufficialità e autorevolezza, forse per interessamento di Albano Sorbelli, in veste di direttore della biblioteca dell’Archiginnasio (che ne autorizza probabilmente il prestito), ma anche del giovane architetto Guido Zucchini che aveva appreso da Alfonso Rubbiani i rudimenti e la passione per il mestiere. Morto Rubbiani, nel 1916 si continuava ad alimentarne lo spirito, per via di un desiderio mai sopito di evocare e dare nuova forma alla “pretesa” identità profonda di Bologna proprio mentre un nuovo volto della città (1902-1919) si profilava all’orizzonte su cumuli di macerie (abbattimento delle mura e gran parte delle porte, sventramenti nell’area del palazzo Podestà-Re Enzo, via Mercato di Mezzo-Orefici, con apertura di via Rizzoli, abbattimento delle torri Artemisi, Guidozagni e Riccadonna). Si ricava dal catalogo a stampa, curato da Guido Zucchini e Oreste Trebbi, che il fine di Bologna che fu era quello di illustrare - attraverso divise, costumi, incisioni, litografie, xilografie, disegni all’acquerello, tempere e quadri ad olio, modelli in gesso, statue lignee e fotografie - la storia di Bologna fra i secoli XVI e XIX ca., facendo ricorso a numerosi prestiti temporanei di nobili famiglie, professionisti, “eminenze culturali” e istituzioni quali il Municipio di Bologna, il Museo del Risorgimento, la Biblioteca dell’Archiginnasio e quella Arcivescovile, la Reale Pinacoteca, il Reale Archivio di Stato, l’Ospizio degli Esposti ed Asilo di Maternità, il Reale Ricovero di Mendicità, il Circolo della Caccia. In realtà, il Comitato per Bologna storico-artistica si era dato un obiettivo ben più ambizioso, come aveva chiarito nella circolare che aveva preceduto la raccolta: dar prova che si potesse creare a Bologna «[…] un museo topo-iconografico, il quale desse come in un quadro il lungo vario e glorioso cammino percorso dalla città nei passati secoli innanzi di giungere all’aspetto odierno […]», assecondando anche «[…] il desiderio manifestato da enti di cultura e da cospicui cittadini […]». A tale scopo tutta la città venne effettivamente chiamata a prendere parte a questa che doveva essere «[…] la rappresentazione biografica di lei medesima […]».
L’adesione fu tale da raccogliere 458 “pezzi” che in mostra furono ordinati in sei sezioni (I-VI): Atrio; Piante e vedute; Piazza Maggiore e adiacenze; Piazze e vie - Porte e mura - Canal di Reno - Palazzi e Chiese - Suburbio; Vita e Costumanze; Vetrina; mentre Fuori della vetrina si incontravano con i numeri:
«457. Varia. Album di fotografie, alcune delle quali importanti e rare, di ricordi vari della vita bolognese del 1868 in avanti. Questa raccolta si deve al prof. R. Belluzzi. (Biblioteca dell’Archiginnasio).
458. Porte e Mura. N. 2 albums di fotografie (G. Cavazza, 1902); raccolta assai importante, dacchè la bellissima cinta sta per scomparire del tutto. (Comitato per Bologna storico-artistica)».
L’esposizione di cui Corrado Ricci, direttore generale delle Belle Arti era stato nominato presidente onorario, aveva visto come presidenti il marchese Nerio Malvezzi, il conte Francesco Cavazza e nel comitato promotore alcuni fra gli uomini più noti in ambito culturale e professionale, come, oltre a Zucchini e Trebbi, Albano Sorbelli, Alfredo Testoni, Achille Casanova, Augusto Majani, ecc. Fra i tanti che collaborarono con prestiti all’esposizione vorrei menzionare Renzo Ambrosini, Arnaldo Romagnoli, Cesare Zanichelli, Oreste Trebbi, Luigi Crema, Giorgio Del Vecchio per l’attitudine individuale o familiare alla raccolta di “materiali” su Bologna e, in particolare, per l’attenzione alla fotografia della città, e soprattutto per le donazioni a collezioni bolognesi. Un “museo topo-iconografico” non venne mai inaugurato, neppure molto tempo dopo, ma nel giugno 1916 la mostra di Bologna che fu centrò appieno l’obiettivo: dare spazio, visibilità e coralità a un bisogno di conservazione che gli sventramenti alimentavano da anni, e ci riuscì evocando un “generalissimo” e glorioso passato, non, quindi, un passato necessariamente “merlato” o medioevale come quello che Alfonso Rubbiani e la sua “gilda” avevano “ricostruito” nel cuore di Bologna solo un attimo prima che se ne ridefinisse la fisionomia in senso “moderno”. Nella mostra del 1916, dunque, il volume Belluzzi fu collocato, perché conteneva una considerevole quantità di “vecchie” immagini bolognesi, fortemente evocative, ma non solo: l’emozione del visionarle, sfogliando le pesanti pagine dell’album, s’accompagnava alla constatazione del tempo passato e dei mutamenti intervenuti nel tessuto urbano e sociale. La raccolta Belluzzi e le fotografie dell’abbattimento delle mura eseguite dall’economo Cavazza costuivano in mostra due pietre miliari poste a conclusione della storia iconografica della città, per come ci era stata consegnata a fine Ottocento; anche da questi cumuli di visioni fotografiche, e, quindi, “seriali” la storia della rappresentazione urbana sarebbe proseguita nel Novecento trovando (e per la prima volta) in queste il suo termine di raffronto. A mio parere, dunque, la dedizione di Belluzzi alla raccolta di fonti, in specifico fotografiche, contribuisce ad alimentare l’idea e poi la prassi (che si consolida nel campo delle arti costruttive come negli studi di natura storica e artistica) che al passato si debba guardare per raffronti, confronti, fino ai foto-confronti.
Fra gli interpreti di questa “ginnastica visiva” a cui nella prima metà del Novecento la città verrà allenata si debbono menzionare - in tempi e ruoli distinti - Guido Zucchini e Corrado Riccix. Il loro contributo allo studio della città e dei suoi monumenti, alla conoscenza e alla conservazione di fotografie bolognesi, solo per limitarci ad un ambito ristretto della variegata attività da loro svolta, attende ancora oggi una ricostruzione minuziosa, ma questa è un’altra storia o meglio è la storia che ci porterebbe a capire meglio perché continua ad essere possibile studiare “vecchie fotografie” in tante collezioni e perché le istituzioni culturali sono tenute a promuovere la produzione di nuove immagini della città e ad acquisirne.
Angela Tromellini
Testo tratto da Cent'anni fa Bologna: angoli e ricordi della città nella raccolta fotografica Belluzzi, Bologna, Costa, 2000.