Schede
Nel corso dell'Ottocento la Certosa di Bologna rimane per decenni l'unico complesso monumentale del genere in Italia, divenendo meta fissa del visitatore di Bologna, tanto che Lord Byron, Charles Dickens, Theodor Mommsen, Sigmund Freud - per citarne alcuni - hanno lasciato traccia scritta della loro visita. L’attenzione del bolognese o del forestiero non era però colpita solo dalla complessa struttura urbana ma anche dalle memorie - grandi, piccole e colossali - frutto della volontà dei vivi di eternare la memoria dei propri cari, descrivendo nelle epigrafi i caratteri distintivi del defunto e, attraverso pitture e sculture, eternarne le virtù e le sembianze. Oggi è per noi alieno il concetto di lasciare una traccia della propria esistenza attraverso la memoria funebre, eppure questo pensiero era assai comune fino a non più di cinquant’anni fa. Lo scultore Pasquale Rizzoli nel 1953 coglie questa trasformazione sottolineando con feroce ironia come al monumento venisse ormai preferita l’automobile, “una bara su quattro ruote”. Una passeggiata in Certosa consente di ripercorrere la storia degli ultimi due secoli e quindi è possibile comprenderne anche le vicende economiche, con tutti quei passaggi che hanno portato da un contesto tipicamente agricolo, all’attuale assetto industriale che vede la sua eccellenza produttiva nel comparto meccanico. Nella seconda metà dell'800 Bologna è nel pieno della restaurazione pontificia, in cui viene soffocata qualunque aspirazione economica ed industriale e che vede anche il definitivo tramonto delle manifatture tessili con la chiusura della Fabbrica di filati e tessuti in lana di Filippo Manservisi (1806-1886). Nel cimitero i parenti dell’imprenditore fanno incidere sulla tomba la seguente frase: “insigne nell’arte del tessere e della meccanica esercitata per ben 20 anni, nell’opificio che da lui ebbe nome e che sorto a vanto e decoro di Bologna, per dure ed avverse vicende venne distrutto”.
Chiusa ancora entro le mura medievali, ombrosa e severa tra vie ancora strette e sporche, è una città con una enorme fascia di popolazione indigente. L’università è in piena crisi, ridotta ad essere frequentata da poche centinai di studenti. L’aspirazione ad una ricerca della ricchezza attraverso le proprie capacità non è però scomparsa, e viene portata avanti dalla piccola e media borghesia che, insieme ad alcune famiglie nobiliari, hanno approfittato delle soppressioni napoleoniche per acquisire edifici urbani e terreni da riutilizzare quali sedi delle proprie attività economiche o per accrescere la rendita agraria introducendo nelle colture metodi razionali e scientifici. Esemplare in tal senso è il caso della famiglia Pizzardi, che grazie all’abile gestione economica dei terreni acquisiti ad inizio Ottocento accumula e fa fruttare enormi ricchezze, tanto da ricevere dal pontefice il titolo di marchesato. La rinascita economica riprende attraverso questa ed altre grandi famiglie nobiliari quali i Gabrinski, ma si deve soprattutto ai tanti bolognesi che con impegno intellettuale e capacità amministrative sanno inserire la città nella fase italiana della rivoluzione industriale della seconda metà del XIX secolo. Non deve essere una casualità il fatto che le tombe Pizzardi e Grabinski si trovino una di fronte all’altra in Certosa, ambedue arricchite con veri e propri capolavori marmorei. Mentre la famiglia di origine polacca ambisce a glorificare Giuseppe, il generale napoleonico che aveva contribuito ai moti del 1831 e nulla trapela delle attività agricole o di quelle legate al “dado da brodo Grabinski” prodotto dal nipote Stanislao; diversamente i Pizzardi commissionano una colossale divinità marmorea a Cincinnato Baruzzi, il più importante scultore bolognese dell’epoca. La raffinatissima figura femminile vuole eternare il concetto di industria, con una rara commistione di simboli classici che devono rimandare all’oculatezza nell’amministrazione e alla prosperità raggiunta attraverso le attività agricole.
In Certosa non è difficile individuare la piccola borghesia produttiva locale, in quanto i millenari emblemi legati a queste attività, il caduceo (commercio), l’ancora (speranza) e la cornucopia (abbondanza) si riscontrano con regolarità nelle steli medio-piccole realizzate tra gli anni ’30 e ’60 dell’Ottocento. Difficile che il visitatore del passato possa però comprendere appieno questi ricercati messaggi, ma ci troviamo in un momento in cui l’arte non ha trovato ancora un’iconografia adatta a rappresentare l’economia moderna, concetto del tutto nuovo nella storia dell’umanità. Tra i monumenti di questo periodo segnaliamo la stele Calzoni, dedicata alla famiglia fondatrice della più antica industria meccanica locale, che poi si specializzerà nella produzione di macchine agricole, motori e turbine. Altro esempio da ricordare è il raffinato monumento dedicato a Nicola Zanichelli (1819-1884), fondatore dell'omonima casa editrice. Alla base dell'arco oltre al mesto fanciullo (purtroppo trafugato nel passato) compaiono diversi libri e lo stemma in cui compare il mietitore, associato dall'azienda al motto “Laboravi fidenter”. Per trovare una convincente rappresentazione dell’industria bisogna attendere in Europa la fine del secolo, quando grandi e pesanti ruote dentate compaiono al fianco di uomini saldi e robusti, simbolo della meccanica, insomma del “fare” nuovo. Pasquale Rizzoli è chiamato a scolpire alcune emblematiche rappresentazioni di questo tipo all’inizio del Novecento. Al suo scalpello si deve l’Allegoria del fuoco per il produttore di fiammiferi Gaspare Pizzoli (1829-1869), il quale “sorse tra i primi in Italia a destare nell’umile officina la possente virtù del fosforo”, oppure per il più noto produttore di birra Camillo Ronzani (1830-1901), per cui esegue uno dei capolavori del liberty bolognese, e in cui campeggia alla base, forte e severo, l’Allegoria dell’industria. Quanto i Ronzani siano attenti ad esaltare le loro qualità economiche è evidente anche ammirando le sculture che ne ornano l’omonimo palazzo costruito ad angolo tra Piazza Re Enzo e Via Rizzoli, in cui, a coppie, compaiono a sinistra le allegorie del commercio (con il caduceo) e a destra dell’industria (con il bilancere).
Del tutto diverso è il cippo dedicato a Clemente Nobili, continuatore dell'attività paterna dedicata ad una fortunata produzione di carrozze ferroviarie e tramway, poi confluita nelle Officine Casaralta. Qui nulla viene dichiarato delle qualità pratiche del defunto, e solo la corona allude alle capacità che gli diedero fama eterna. Anche la grandiosa stele Benfenati rientra in quest'ambito. Solo leggendo la simbologia classica possiamo comprenderne le virtù commerciali che portarono Filippo Benfenati ad una discreta fama con la produzione di passamanerie, bottoni, distintivi, ma soprattutto con la sua macchina per saldatura a freddo delle scatole metalliche. È grazie alle necessità di queste manifatture legate all’agricoltura e alla piccola industria che si assiste allo sviluppo della meccanica, chiamata a risolvere, semplificare e velocizzare le varie fasi produttive e di inscatolamento dei prodotti di trasformazione alimentare. Nel contempo anche l’ambiente intellettuale riversa le proprie attenzioni alla scienza e all’applicazione pratica. Segnaliamo la stele dedicata a Sebastiano Zavaglia (1824-1876) che, come recita l’epigrafe sulla tomba, “insegnò scienze naturali nella scuola tecnica, valente meccanico fu Direttore del Gabinetto Aldini, a’ scritti e lavori di pregio massime all’ingegnoso barometro a bilancia da lui con nuovo artificio costrutto raccomandò la propria fama”. Il vero e proprio sviluppo economico cittadino avviene solo con la realizzazione della linea ferroviaria e soprattutto con l’adesione di Bologna allo Stato sabaudo nel 1860, concludendo la pluridecennale fase di depressione economica. Espressione della rinascita culturale ed economica cittadina è l’Esposizione Emiliana del 1888, che vede la presenza, tra i numerosi padiglioni, di quelli enormi dedicati all’Agricoltura e all’Industria. Negli anni a cavallo dei due secoli anche il cimitero diventa specchio di questi rapidi mutamenti sociali ed economici, e ai monumenti di gusto antichizzante dell’aristocrazia nobiliare si aggiungono, a decine, le memorie marmoree in cui l’emergente borghesia esalta se stessa, ritraendosi con gli abiti usati quotidianamente e contornandosi di simboli che rimandano chiaramente alle attività pratiche e non a quelle intellettuali.
Particolarmente ricca e inconsueta è la simbologia dedicata a Petronio Brunetti (1792-1870), “negoziante in droghe, vero tipo e specchio d’antica probità, schietto e cortese nei modi”. Assume un rilievo assoluto il ritratto del fabbro Gaetano Simoli, eternato dallo scultore Tullo Golfarelli con gli abiti da lavoro e nel pieno della forza fisica. Egli esprime l’orgoglio della classe operaia, diventa un simbolo che valica il mero concetto artistico, tanto che Giovanni Pascoli lo descrive come “un bel giovane fabbro, una mano sull’anca, l’altra sulla mazza appoggiata all’incudine: fiero, altero, severo, sereno” e divenendo emblema cosmologico quale “ideal figura di colui in cui ravvisiamo il grande artiere”. Si può essere orgogliosi della propria umile condizione, in quanto ciò che eleva la persona è la sua dignità e il suo contributo al progresso, tanto che l’espressione “il lavoro nobilita l’uomo” trova qui una convincente rappresentazione. A partire dall’inizio del Novecento compaiono sempre più spesso memorie in marmo e bronzo che esaltano, tra immagini veritiere ed allegorie, le attività economiche del defunto. Segnaliamo quali casi rappresentativi i monumenti dedicati al fornaio e produttore di pasta Paolo Atti (1849-1910) e a Clodoveo Franchini (1841-1920), ultimo rappresentante di una famiglia di orologiai, meccanici e costruttori di apparecchiature scientifiche. Una lapide del tutto anonima è invece dedicata alla famiglia Cevolani, in cui viene appena ricordato Edoardo (1866-1934), fondatore dell'omonima azienda di macchine utensili ed automatiche, ora confluita nella Paritel Holding. Lo sviluppo del comparto meccanico nel primo ventennio del XX secolo assume in città dimensioni ragguardevoli e non casualmente dopo gli anni ’30 vengono eseguiti nel cimitero significativi monumenti chiamati a ricordare i fondatori di tante aziende che ancora oggi danno lustro e fama a Bologna.
Ne ricordiamo alcune. L'arco Ricciotti Paioli, in cui riposa il fondatore della ditta produttrice di ammortizzatori e sospensioni per motocicli. La cella Barbieri, in cui riposa Gaetano, fondatore dell'A.C.M.A. (macchine automatiche). La cella Pizzirani è ornata da una bella allegoria dell'industria, ed infatti vi riposa il cavaliere del lavoro Carlo, tra i fondatori della Curtisa, specializzata nella realizzazione di infissi metallici. Immediatamente dopo la morte di Alfieri Maserati (1885-1932), lo scultore Mario Sarto è chiamato a realizzare il cippo che deve ricordare il “pioniere del motore e della velocità”. L’artista esalta l’industriale e lo sportivo, sia con una targa che ripropone il tema ormai consueto della mazza sull’incudine, sia con l’ottocentesco simbolo dell’eternità - le ali e il serpente Ouroboros - qui aggiornato con un inedito e mai più riproposto volante alato. Terminata la parentesi del regime fascista, allo scultore viene proposta l’esaltazione della pari dignità tra proprietario ed operaio, mostrando l’alto valore sociale e morale del lavoro. Un capolavoro assoluto dell’arte novecentesca bolognese è il monumento dedicato ad Edoardo Weber (1889-1945), scolpito da Venanzio Baccilieri: qui vengono rappresentati progettisti e operai l'uno affianco all'altro mentre discutono e controllano le varie fasi produttive del celebre carburatore. Con il medesimo spirito Baccilieri esegue anche il fregio dedicato a Torquato Vegetti, fondatore della 'Torvegg'. Ulteriore esempio di questo spirito elevato è quello realizzato da Romano Franchi, che commemora con il medesimo messaggio sociale il tipografo Giuseppe Capi (1892-1956), cui si aggiunge un’inconsueta presenza lavorativa femminile, molto rara da trovare in qualsiasi cimitero italiano. Lo stesso scultore esegue non casualmente un bellisimo bassorilievo dedicato a Giuseppe Minganti ed alla moglie Gilberta Gabrielli: al centro è ritratto Giuseppe, uno dei pionieri della produzione di macchine utensili, attorniato dai suoi operai con cui conversa serenamente, il tutto attorniato da alcune attrezzature industriali. Solo l'epigrafe ricorda la moglie, prima donna cavaliere del lavoro d'Italia. Gradevoli ma più consuete - diremmo 'cimiteriali' - i monumenti eseguiti in questo periodo per le famiglie Carpigiani (macchine per gelato), Cattabriga (macchine per gelato), Preci (macchine automatiche), Morini (motocicli), Morara (macchine utensili). Fuori dal registro comune è la piccola cripta per ceneri della famiglia Ducati. Il semplice monolito pare non indicare nulla sull’attività industriale. Al visitatore della Certosa, speriamo nel futuro sempre meno disattento rispetto al presente, non deve sfuggire la piccola cornice alla base, dove l’epigrafe suona come un monito morale valido ancora oggi: “onestà e lavoro costante siano lo stemma di famiglia come furono sempre”.
Tra le opere selezionate per questo percorso vi sono memorie dedicate a storie piccole e grandi, di avventure e disavventure, di famiglie divenute celebri ed altre ormai dimenticate.
Roberto Martorelli