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Luigi Silvagni

21 luglio 1864 - [?]

Scheda

Luigi Silvagni, da Davide e Luigia Cicognani; nato il 21 luglio 1864 a Livorno. Laureato in Medicina. Ordinario di Patologia all'università di Bologna. Figlio di un prefetto, trascorse la giovinezza nelle città in cui il padre era destinato. Studiò all'università di Bologna e si laureò nel 1889. Dopo un breve soggiorno nelle Marche, nel 1890 tornò a Bologna e vi si stabilì definitivamente. Fu uno dei principali collaboratori di Augusto Murri e raggiunse in breve grande fama professionale, grazie anche alle numerose opere scientifiche pubblicate. Ricoprì importanti cariche all'interno delle organizzazioni mediche e sanitarie, sia bolognesi sia nazionali. Aderì giovanissimo al Partito Radicale, del quale, all'inizio del secolo, fu nominato presidente della sezione bolognese.
Nel 1912 entrò a far parte della direzione nazionale. Eletto nel 1909 al consiglio comunale di Bologna, anche con il voto dei socialisti, si dimise nel 1912 perché - essendo favorevole alla guerra di Libia - riteneva di non godere più la fiducia di una parte dei suoi elettori. Si dimise anche per un'altra ragione: non condivideva il nuovo indirizzo rivoluzionario assunto dal PSI - il partito alleato - dopo il congresso nazionale di Reggio Emilia dello stesso anno. Nelle amministrative del 1914 fu capolista del Partito Radicale a Bologna, ma non venne eletto, mentre il PSI conquistò la maggioranza sconfiggendo il blocco clerico-moderato. Il contrasto con il PSI divenne insanabile con l'inizio della prima guerra mondiale. Non solo fu un accesso interventista, ma promosse - con altri esponenti della sinistra democratica e della destra politica - la costituzione della Pro Patria, della quale divenne presidente. Fu da questa associazione - della quale facevano parte tutti i partiti, meno quello socialista e i cattolici - che negli anni della guerra partirono tutte le offensive contro l'amministrazione comunale e le aggressioni, morali e materiali, contro i dirigenti socialisti.
Il 3 novembre 18, quando in città si sparse la notizia che la guerra era finita, messosi alla testa di un gruppo di interventisti forzò l'ingresso di Palazzo d'Accursio e invase la sede dell'amministrazione comunale. Nel comizio improvvisato, che tenne dal balcone dello stabile, chiese lo scioglimento dell'amministrazione socialista. Nel gennaio 1919 si dimise dal Partito Radicale perché il suo gruppo dirigente aveva rinunciato a rivendicare l'annessione all'Italia della Dalmazia. I
n quel periodo si spostò progressivamente su posizioni di destra. L'8 aprile 1920 - all'indomani dello sciopero generale proclamato a Bologna per l'eccidio di 10 lavoratori a Decima (S. Giovanni in Persiceto) - fu uno dei fondatori dell'Associazione di difesa sociale, finanziata da agrari, industriali e commercianti. Il 15 aprile guidò la delegazione che si recò a Roma per comunicare personalmente al presidente del consiglio dei ministri, F.S. Nitti, che l'Associazione aveva deciso di organizzare organismi di «autodifesa» contro l'azione delle organizzazioni sindacali e di sinistra. Nel settembre 1920, mentre erano in atto sia lo sciopero agrario che l'occupazione delle fabbriche, l'Associazione diede incarico al Fascio di combattimento di Bologna di organizzare un gruppo armato di 300 uomini. Contemporaneamente promosse un blocco elettorale di tutti i partiti antisocialisti - ma quello cattolico non aderì - per le amministrative previste per il 31 ottobre 1920. Il blocco di destra, denominato «Pace, libertà, lavoro», fu sconfitto, ma l'amministrazione socialista non potè insediarsi perché il 21 novembre le squadre fasciste, guidate da Leandro Arpinati, assalirono Palazzo d'Accursio provocando una strage. Nei giorni seguenti gli ordini professionali dei medici, dei farmacisti e degli avvocati - che, per statuto, sono organismi apolitici - presero dei gravissimi provvedimenti contro i consiglieri socialisti presenti alla seduta del 21 novembre. Nella sua qualità di presidente dell'Ordine dei medici, si oppose alla richiesta di alcuni medici, i quali postulavano gravi sanzioni a carico di Ettore Bidone*, un medico che era stato presente agli scontri nell'aula del consiglio comunale e che pure aveva prestato le prime sommarie cure ai feriti. Sostenne che sino a quando Bidone - che si trovava in carcere - non fosse stato in grado di comparire davanti all'Ordine per difendersi, lui non avrebbe tollerato l'adozione di provvedimenti punitivi. Messo in minoranza, si dimise e si appartò dalla vita politica. Dopo l'avvento del regime fascista si schierò apertamente contro la dittatura. Nel 1931, essendosi rifiutato di giurare fedeltà alla dittatura, lasciò la cattedra universitaria. Venne reintegrato nell'insegnamento nel 1945, dopo la Liberazione. [O]