Schede
La Restaurazione del dominio pontificio e il ristabilimento dei confini politici a pochi chilometri da Bologna, in seguito all’emanazione delle disposizioni di Pio VII nel luglio 1815, costituiscono un grave impedimento alle attività economiche e commerciali della città, e lasciano insoddisfatta la maggioranza della popolazione, riluttante a ricollocarsi in un sistema economico chiuso che inevitabilmente interrompe il processo di inserimento nel più fiorente mercato del Nord Italia. L’economia bolognese nel periodo della Restaurazione appare caratterizzata da un sostanziale immobilismo, in cui alla crisi di alcune manifatture di grande tradizione, come la seta, si affianca il potenziamento della produzione agricola che rende in ogni caso Bologna una città privilegiata, se paragonata alle restanti province dello Stato pontificio.
Il settore agricolo infatti continua a giovarsi delle trasformazioni avviate in epoca napoleonica e registra una certa crescita nella produzione di cereali, del vino, della canapa, del foraggio, dovuta in molti casi alla tendenza dei proprietari a dare un assetto più moderno e razionale alle tecniche di coltivazione. Non è da trascurare il rilancio degli studi di agronomia condotti da Luigi Valeriani, docente di Economia politica dal 1802 fino alla soppressione della cattedra, avvenuta nel 1824 su ordine di Leone XII, e dalla Società Agraria, fondata anch’essa nel 1802 e sopravvissuta, sebbene con difficoltà, dopo la Restaurazione. Nelle campagne bolognesi la rotazione canapa – grano costituisce l’avvicendamento più praticato, soprattutto a causa dell’assenza di fonti d’acqua utilizzabili per l’irrigazione. Nel corso della prima metà del XIX secolo si attua il passaggio da una conduzione puramente amministrativa dell’azienda da parte dei proprietari a una direzione maggiormente impegnata sul piano della produzione e delle tecniche colturali; in generale è da segnalare una più intensa mobilità della proprietà terriera, effetto della dissoluzione di molti patrimoni ecclesiastici e della vendita dei beni durante il periodo francese, che vanno ad accrescere i possedimenti di nobili e borghesi. Se le condizioni economiche del territorio non sono insostenibili, permane tuttavia l’avversione degli operatori di molti settori nei confronti di un governo che osteggia ogni libera iniziativa e ogni novità, come dimostrano le notevoli restrizioni cui viene sottoposta la pratica della risicoltura, che annovera Antonio Aldini fra i suoi più accesi sostenitori ed è considerata nello studio di Dal Pane come una delle prime vie di penetrazione del capitalismo nelle campagne. L’agricoltura e il commercio dei prodotti agricoli (canapa, bozzoli, riso) si trovano così ad essere il centro di un nuovo equilibrio volto a compensare la crisi inarrestabile delle industrie della seta e della canapa, irrimediabilmente compromesse dalle guerre napoleoniche e dalla concorrenza straniera. All’interno dei limiti territoriali dello Stato pontificio, Bologna è sottratta al prospero mercato della pianura padana; la legislazione finanziaria, insensibile alle nuove necessità produttive, impone tariffe doganali nettamente proibitive che rendono impraticabile la concorrenza con gli Stati in più rapida espansione industriale, e l’intensificarsi dei traffici marittimi e ferroviari taglia fuori la città dagli scambi commerciali.
I moti del 1831 sono accompagnati da un’intensa attività pubblicistica sulle difficoltà economiche del territorio: i numerosi tributi che colpiscono le proprietà, le imposte statali, le tasse di consumo contribuiscono ad aggravare le condizioni di vita della popolazione, già esasperate dalla carestia del 1816-17. Neppure l’istituzione nel 1837 della Cassa di Risparmio, fra i cui soci fondatori spiccano personalità in vista dell’economia e della politica bolognese come i fratelli Pizzardi e Marco Minghetti, sebbene miri alla rinascita dell’attività industriale e commerciale, sembra essere adeguata allo scopo: l’istituto limita la sua sfera d’azione alla sola città, trascurando i bisogni agricoli, e si rivolge ad una clientela composta per la maggior parte dai ceti possidenti. È ormai diffusa nella classe dirigente la consapevolezza della grave stasi economica, acuita dalla stretta repressiva del 1849, e dell’arretratezza della città nei confronti di un processo di industrializzazione già decisamente avviato in tutta Europa. L’iniziativa a questo punto è nelle mani dei gruppi di possidenti bolognesi, fra cui il già citato Minghetti, che cominciano ad incoraggiare dibattiti e progetti di sviluppo manifatturiero, promuovono Esposizioni agricolo – industriali e fondazioni di industrie, premono costantemente sul governo centrale perché avvii una politica di costruzione ferroviaria (in realtà l’inaugurazione del tratto Bologna – Piacenza avrà luogo solo nel 1859). Fra le iniziative di maggior rilievo è la fondazione nel 1844 delle Scuole Tecniche Bolognesi (attuale Istituto Tecnico Industriale Aldini–Valeriani), che ha l’obiettivo di formare una classe locale di artigiani – costruttori provvista di conoscenze tecniche e scientifiche. Nella fondazione di manifatture, tra il 1850 e il 1860, i possidenti bolognesi privilegiano lo sfruttamento di risorse minerarie, la trasformazione della canapa e della lana in semilavorati e la costruzione di macchine, fattore indispensabile alla competitività delle imprese. Il processo di ammodernamento degli impianti è favorito dai prestiti della Banca delle Quattro Legazioni, istituita nel 1855, e si rivolge in particolare ai settori tessile e meccanico, all’interno dei quali spiccano la Canonica, una moderna fabbrica per la filatura della canapa (i cui maggiori azionisti sono Marco Minghetti, Gaetano Zucchini e Raffaele Rizzoli), e l’officina meccanica con fonderia di Alessandro Calzoni. Tuttavia, fatta eccezione per i tentativi più riusciti, il quadro complessivo dell’industria bolognese del periodo mostra chiaramente una presenza predominante di unità artigianali anche nei settori più moderni, e lo sviluppo continua ad essere frenato dalla carenza di capitali, dalla rigidità delle strutture sociali e politiche e dalla mentalità largamente anti-industrialista diffusa fra i proprietari; tali condizioni tenderanno a permanere fino al compimento dell’Unità italiana, quando i primi afflussi di capitale esterno, uniti ad una maggiore apertura del mercato, costringeranno la città a confrontarsi con la concorrenza nazionale ed estera.
Mara Casale