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Gerghi bolognesi

1796 | 1900

Schede

Proprio sui banchi della scuola tecnica inferiore – per quanto ciò sia poco conforme alla sua ortodossia – noi apprendemmo, nei primi anni della adolescenza, parole di gergo bolognese, non per virtù dei pedagoghi, s’intende, ma come prodotto della convivenza. Alcuni di questi vocaboli si erano intrufolati nel nostro dabben parlare, ed erano stati accolti con ben altra cordialità di quelli che figuravano nel Petrocchi e nel Fanfani. Cosi slumma la cafiella (guarda la ragazzina); ho in berta il quaglio senza pilla (ho in tasca il portafogli senza soldi); hai il fungo, le bigonce e due fangose togose (hai il cappello, i calzoni e due scarpe belle); ho preso dei crafen dal grimmo (ho preso le botte dal babbo); ho ciffato le breme e il califfo al cia (ho rubato le carte da gioco e la pipa al contadino): ti ho visto scarpinare con una pivella lofia (ti ho visto passeggiare con una ragazza brutta); non fare il saraffo, tu hai smorfito il simone del pisto (non fare l’ingenuo, tu hai mangiato il gatto del prete); andiamo a cubbiare (andiamo a dormire); varie altre espressioni e parole di gergo, convenientemente italianizzate figuravano a profusione nel nostro eloquio.

Quando poi ci capitò per le mani un opuscolo in cui il ciarlatano Frizzi aveva aggiunto alle sue memorie un dizionarietto del gergo dei girovaghi, le nostre conoscenze in proposito si approfondirono in maniera cospicua. Questi ricordi affiorano alla nostra mente sfogliando l’ammirevole studio di Alberto Menarini sui Gerghi Bolognesi, edito dall’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Roma, che abbiamo sott’occhio. Opera scrupolosissima che onora il suo autore condotta con una severità d’indagine esemplare. Non si creda che una raccolta controllata di vocaboli di gergo sia cosa di facile verificazione; l’autore ci illumina in proposito: “Anzitutto per raccogliere un’abbondante messe di vocaboli, e per controllarli occorrono molti informatori. La scarsissima istruzione delle categorie di persone in causa fa sì che gli errori di significato ed anche di dizione siano frequentissimi. E trovare un certo numero di informatori è cosa difficilissima, specialmente fra i malviventi e gli ambulanti, che normalmente difendono la segretezza del gergo con ogni mezzo. I primi poi sospettano sempre di avere a che fare con qualcuno “che studia per diventare Delegato di P.S.” o simili, e non nascondono la loro invincibile antipatia”. Né il Menarini ha potuto usufruire di aiuti da precedenti opere: in materia di gergo bolognese non esisteva precedentemente che un libretto del capomastro Zironi, riguardante il gergo dei muratori, nonché una breve raccolta di voci gergali in uso nei luoghi di pena, però italianizzate, contenute nelle Mie Prigioni per una presa di cocò di Adolfo Sansoni. Il pregio particolare del lessico del Menarini risulta dal fatto che è ottenuto dalla viva voce di coloro che usano il gergo, cioè: muratori, ambulanti, mercanti di cavalli e ladri. Ognuno di questi gerghi ha un carattere particolare: quello dei muratori riguarda soprattutto il mestiere, il nutrimento e i contatti con le serve; quello dei ladri – il più importante dei gerghi locali – riguarda anch’esso il mestiere ed è così complesso che il Menarini è costretto a distinguerlo in tre branche: gergo dei ladri comuni, gergo carcerario e gergo dei borsaioli. In quanto al gergo degli ambulanti, dei girovaghi e dei mercanti di cavalli, aventi in generale una fisionomia non essenzialmente bolognese e di origine complessa, non può inserirsi come cosa genuina, nei gerghi del nostro dialetto.

Il gergo dei muratori va perdendo la sua spinta; originario della fine del settecento, il suo uso fu intensissimo fino ad una ventina di anni or sono; poi è deceduto anche per la scarsezza di attività dell’arte muraria, che ha affievolito i contatti. Questo gergo, essendo usato da gente di abitudini regolari ed oneste (generalmente campagnoli) spiega la semplicità e la malizia innocente delle voci gergali di cui daremo come esempio qualche vocabolo e qualche frase scelta a caso nel lessico in parola: Anèrchico barbanti o calvaris i fagioli; bavaròusi le uova; bianchèn il latte; barzoch il prosciutto; cuntènua o ganeffa la polenta; zurtènna o gebba o scarfuiòusa la cipolla; rundousa la mela; staffilòusi le tagliatelle. Questi sono termini di uso comune riguardo al tafièr (mangiare); ma il vocabolario culinario gergale è ben più ricco e non si finirebbe più con le citazioni; i man fat tafièr dal strisi, dal starèl e dal scabi slos (mi hanno dato da mangiare del pane del formaggio e del vino scadente). Gli attrezzi e i materiali del mestiere hanno tutti la loro denominazione: barsanèla (mattone), bat-bat (martello), borbsa (martellina), granèn (sabbione), pèla (cazzuola), pitòna (carriola) ecc. ecc. La cameriera o la serva prende il nome di bòsnia: am per che el gòrum ai piesa la bòsnia (mi pare che al padrone piaccia la serva). Nei termini dei venditori ambulanti la fantesca prende il nome di galoppa: che dou bell biganzi ch’là cla galoppa (che due belle gambe ha quella servetta). Passiamo ora al gergo dei ladri notando anzitutto con soddisfazione la povertà dei termini indicanti qualsiasi forma di violenza, rifuggendo la normale malavita bolognese dallo sparger sangue; e, dice il Menarini che “le poche espressioni violente di questo gergo sono per lo più importate, o usate per descrivere delitti avvenuti altrove, o per profferire minacce che raramente vengono mantenute”. Nel gergo adoperato nelle carceri – dove è di uso esclusivo – sono diffusissime le forme di turpiloquio gergale; viceversa fuori del carcere i ladri usano di una percentuale di frasi e parole del genere inferiore a quella inserita nel dialetto o nella lingua, avendo il gergo anzitutto necessità di aderire alla tecnica professionale.

Non è possibile qui dare un ragguaglio anche a caso, del linguaggio del togo (malavita bolognese), troppo complesso e che può essere illustrato solo dalla competenza del Menarini; ciò ci scaraventerebbe fuori di carreggiata; tanto più che chi lo pratica troverebbe in noi dei vincènz (stupidi) in fregola di apparire drett (furbi) sopra le colonne del ciacarèn o giornale che dir si voglia.

Alessandro Cervellati

Testo tratto da 'I gerghi perdono spinta', trascrizione a cura di Lorena Barchetti.