Mostra del Circolo Artistico

Mostra del Circolo Artistico

1934

Scheda

Il 21 dicembre 1933 nella sala degli Anziani di palazzo d'Accursio si ricostituisce il Circolo Artistico Bolognese, organizzazione tra pittori, scultori, letterati, amatori, con l'intento di promuovere la cultura artistica, mantenendo in contatto l'attività artistica e il pubblico. Il Circolo, già attivo alla fine dell'Ottocento, rinasce su iniziativa di Italo Cinti, che ha promosso nel 1932 l'unione de "Gli amici dell'arte" del pittore Amleto Montevecchi con la "Famiglia artistica emiliana", presieduta da Giuseppe Badini. Presidente del nuovo sodalizio è nominato l'industriale Arturo Gazzoni. Il Circolo Artistico Bolognese affianca la sua attività promozionale (personali di Magnavacca, Tomba e altri, mostra dei cartoni di De Carolis in palazzo Pepoli, ecc.) a quella, più ufficiale, del Sindacato Fascista Belle Arti dell'Emilia Romagna, che dal 1929 propone esposizioni annuali di artisti locali. Negli anni successivi il Circolo cambierà più volte sede: sarà in via Zamboni, in via Oberdan, in una saletta angusta di Palazzo Pepoli in via Castiglione. Nel 1947 otterrà un locale in via Clavature n. 8, un tempo sala delle adunanze della Compagnia di Santa Maria della Vita. Saranno molte le mostre prestigiose organizzate dal sodalizio bolognese nel dopoguerra: da quelle sulle stampe di Goya e di Mitelli alle antologiche di Flavio Bertelli e Coriolano Vighi. Pittori e scultori bolognesi han ritrovata, per opera nobilissima di S. E. Manaresi, una loro amicizia fraterna, che ben s'addice al clima fascista, fertile d'ogni buona e grande opera, e hanno esposto insieme alla Casa dei Pepoli. 

Testo tratto da "Mostra del Circolo Artistico Bolognese", maggio 1934: "C'è con essi De-Carolis, presente tra i vivi, perché la sua opera non può essere dimenticata fra noi che possediamo il sogno più eroico della sua vita. Di lui sono raccolte centocinquanta opere, ci son due cartoni dei grandi cicli della volta del Podestà: il ciclo del Rinascimento e il ciclo dei Comuni, e così vicini, a pochi metri da terra, così nella determinata vigoria del disegno, abbiamo meglio compreso la grandezza di questo solitario. I cartoni di De-Carolis sono di un'importanza tale che ci piacerebbe cederli raccolti tutti qui a Bologna. C'è in essi una vastità classica di oceano: la spazialità che dà allo spirito la gioia dell'onnipresenza, è in De-Carolis corsa da raffiche musicali, popolata di nudi in un moto di ondate ritmiche, dove una grazia quasi di danze elleniche anima le forme che si lasciano come cullare, come blandire, come portare, come portare da sonorità dolcissime, che tuttavia non spengono una latente, profonda malinconia. De Carolis è il pittore della «linea», del «ghirigoro», si direbbe, che chiude però in una perfezioe nettissima il confine delle forme, staccandole dall'informe dello spazio. Al De Carolis si fa un'accusa di «calligrafico», e si fa da taluni novecentisti in cui sorgono esigenze di ritmo, di composizione, da gente che insegue esigenze particolaristiche. È bene precisare. Cos'è il calligrafismo? Tanto in letteratura, quanto in plastica viene indicata così la perfezione del frammento, la perfezione formalistica che non respira per una vita interiore. E allora confrontiamo la perfezione particolaristica della forma, considerata a sé, con l'imperfezione voluta, deformante, e anche quella presa a sé, come è presa in verità da talune correnti modernistiche. Tra la perfezione solo formale e l'imperfezione solo formale noi preferiamo la prima. Nella perfezione decarolisiana troviamo per giunta gli elementi moderni del ghirigoro sotto specie «linea», del musicalismo sotto specie armonia compositiva di masse, che è la grande partitura plastica, e rispondenze fugate di equilibri, moti, in una compenetrazione che supera l'elemento isolato, occupante tutta la ricerca di troppi mediocrissimi. Sicché nel particolarismo decarolisiano (e il «calligrafico» è appunto particolarismo) entrerebbe una pluralità tale di elementi da condurci troppo vicini al totalitario che è l'opposto del calligrafico. Se consideriamo poi la sceneggiatura ammirabile, da trageda, la collocazione dei personaggi infallibile, il gesto, il senso dell'azione, e della scelta del momento decisivo dell'azione, troveremo altri elementi da aggiungersi ai primi, e saremo ancora più lontani dal calligrafico. Le deficienze di De Carolis le abbiamo indicate nel nostro studio in questa rivista e son tutte da cercarsi nella insufficienza espressiva dei volti dei personaggi che compiono tutto dell'azione e hanno l'anima assente dall'azione, e nelle troppo deboli tonalità; ma nel «Resto del Carlino» abbiamo, a complemento di quello studio, osservato come una tragicità desolata s'insinui nella calma apparente, nell'incantesimo delle figure. Il loro moto non è proprio, le investe di fuori per raffiche misteriose, le raffiche ritmiche incalzanti, che vengono chissà di dove, cui oppongono una stanchezza mortale, una passività angosciata e il peso dei corpi. Questa tragicità profonda appare particolarmente dai cartoni dei freschi, dalle grandi xilografie, dai nudi che perciò non sono accademici, ma sembrano il loro segreto solo per chi non osa salire nelle solitudini delle grandi altezze spirituali. Lo avremmo desiderato forse più vicino a noi, De Carolis? Forse. È umano evitare i disagi; ma chi ama le ascese tenti di raggiungere in De Carolis le regioni delle altre malinconie, delle rassegnate bonaccie del dolore dove le reazioni cessano e tutto si piega e si adagia: è un'esperienza che giova. Michelangelo reagisce, strappa, lotta con la sua potenza titanica; De Carolis non lotta più, è come l'erba di sottacqua piegata dalla corrente di una tristezza che resterà immutabile, come immutabile è ogni suo volto. È una zona spirituale, da cui bisogna fuggire, ma andarvi significa agitare fino in fondo la nostra umanità, che appunto perché viva, vitalizzata di bisogni eroici dal fascismo, saprà vincere, superarsi, verso una speranza che non sarà più la speranza comune, oscura, di prima: ma una speranza di superiori letizie, perché anche il più terribile pessimismo, quando è vinto, è fonte di gioia, di una gioia di forti, liberata da ogni temperie. 

Ma contro la malinconia decarolisiana ecco la gioia ottimistica di «Rosa e Biondo» di Giovanni Romagnoli. Anche la gioia, però, ha le sue insidie, e l'uomo lo sa, che passa di tentativo in tentativo per fermare la sua chimera. Che tipo di gioia è il Romagnoli? È quella del colore, dello splendore aperto, come di fiori nell'attimo più teso e più vivo della loro esuberanza. Musicalità anche questa, se si vuole, ma meno astratta di quella di De-Carolis; musicalità di noto terrene o anche di primavere ideali, ma sognate come perfezione di quelle in cui viviamo, non col distacco delle spiritualità che si buttano nell'avventura dell'ascesa. Anche la gioia ha le sue insidie, ripetiamo, eppure in «Rosa e biondo», capolavoro autentico, non avvertiamo nessuna insidia. Da che questa intatta purezza? Questa possibilità di salvazione della gioia ch'è la più caduca creatura che vi sia?  In Romagnoli è un'istintiva, infallibile scelta, su dal groviglio caotico del vero, di alcunché di cristallino; egli sa trovare ciò che non si corrompe, e di ciò che non si corrompe sa scegliere il momento meridiano, intenso, della più prorompente turgidezza. È in questa viva spinta, come di succhi, di linfe che premono, in questa corrente che cerca attivamente un'uscita e la trova in scoppi di festa, in canti a gola piena di stoffe luminose e gonfie, di carni giovanili di donna nel tripudio più vibrante della loro giovinezza, è in questo «agire» perenne e trionfante del suo tipo di gioia, il motivo per cui le forze dissolvitrici non possono intaccare. Troppa forza di vita tiene lontana la morte. E perciò è vano accusare il nudo di Romagnoli come corrompitore: la vita salva, non corrompe, e se butta all'amore è amor di vita che non è mai colposo. Maiani, di una personalità coerentissima, rende di tutte le cose una loro poesia immanente. Maiani è pittore analogico, vede relazioni tra immagini lontane, e in quella che rappresenta versa il contenuto dell'altra in un connubio che accresce mistero e significato, ed è lirica, la sua pittura, che una lunga mediatezza vivifica sempre di più perché vi apporta nuove scoperte di nuove sintesi. È in questo senso tipica è di lui «Nuvole sulla spiaggia»: un levarsi bianco, dorato, della nuvolaglia che pare una grande ala, ed è anzi avvicinata per infrenabile simpatia analogica a una grande ala, si che par che la marina e il mondo si levino in un volo che sradichi le cose. È questo, dell'analogico, il procedere della fantasia, che sa perciò staccarsi dalla realtà comune e veristica.

Giacomelli ha un chiaro quadretto di bagnanti ignude in arie argentine. Protti allinea in diverse opere le possibilità sue magnifiche. Dal settecento all'impressionismo egli accoglie tutte le esperienze: magie di sfumato, sicurezza di frutta senza riprese, gusto aristocratico, senso penetrativo della psiche, preziosità cromatica, sordine di ombre d'alcova in cui s'intravvede col suo caldo una forma aggomitolata, respirante, e trilli di lumetti, per tutto offrire alla donna, tutto donarle in un omaggio che non è mai venuto meno. Protti non potrà mai muoversi per seguire una modernità fino a quando questa deforma. Deformare significa imbruttire, egli non può imbruttire la sua dea adorabile, di cui conosce tutti i misteri, i riti, con cui essa medesima officia dinanzi alla propria immagine. «Ricordo d'amore», «Sonnellino», «Maschietta», son pagine vive di questo suo intendere la femminilità. E Corsi rende le sue figure con l'inquietante mistero di quelle murali dei vecchi affreschi che pur tra mutilazioni e squame e muffe e salsedini rivelan tuttavia una loro presenza, che sembra come di persone un poco arretrate nell'ombra, ma pronte, ma vicine, e indaganti noi stessi che guardiamo. Rappresenta ciò a pastello, a volte misto a tempera, su vecchie carte spiegazzate, tali che dian le vesciche, i tagli, i cavi dell'intonachi rovinati. Boriani indirizza invece ai fiori, nella sua pittura, la preferenza che Protti ha per la donna; e ben di rado i fiori han trovato un amatore così delicato e assiduo; delicato specialmente in questo ultimo periodo in cui l'accordo tra ambiente e forma s'è schiarito in lui, armonizzato verso l'unità e la fusione più che verso il distacco e il risalto. Roberto Cacciari si dirige pure ai fiori, o alle miscellanee, ma usando l'acquarello, e anch'egli con grande distinzione. De Vincenzi ci va con robustezza impetuosa, sia di colore che di tono, Busani con signorile freschezza.

Tra i pittori in ricerca lodevole di nuove forme ne troveremo alcuni come Rossi Ilario, Vignoli Farpi, Cervellati Luigi, Gherlinzoni, Bianchi Luigi, Negroni, Gagliardi, Nardi, e si può notare come nessuno deformi, come il senso latino della misura abbia, tra questi giovani, una conferma che senza estraniarsi da bisogni ad altri comuni sa restar fedele alla stirpe per una sanità fondamentale. V'è in taluni ancora, qua e là, un residuo deformativo, ma passerà. Rossi Ilario si libera anzi dal frammento astrattistico dando significato alla sua opera: «Tela bianca» la figura dell'artista esprime bene un pensiero interiore e senza rinunciare a quella che può essere preziosità di pigmenti e di cromie e di toni. Vignoli ha due pastelli. C'è una levità pensierosa nella figura di «Flora», una bella vigoria in «Ritratto». E Nardi è teso a un'adeguazione moderna della sua personalità, della quale serba la natura essenziale, cioè bisogni espressivi di un contenuto animistico; e Cervellati Luigi ci dà invenzioni di colori, come di pietre preziose scavate chissà dove, specie in «Figna verde». Tra i paesisti di tendenza tradizionale troviamo Accursio Accorsi, Manaresi, Alberto Giacomazzi, Flavio Bertelli, Giovanni Secchi, Capri, Guglielmini, Sartini Antonio, Zanini, Volpini. Buono assai è di Accorsi «Controluce in montagna», di una sensibilità tonale vigorosa, di Manaresi la «Valle del Reno» su tela a gesso che rende i valori opachi, ma di una pasta nutrita, di una cromia calda e di una plasticità potente. Giacomazzi ci fa godere la trina di S. marco a Venezia dov'è un gusto di fatture minute, e ove la minuzia è trattata con un sapor di finitezza amorosa, e ci fa rammentar che la pazienza salva e l'impazienza perde; Bartelli Flavio ci torna con la sua nota di poesia serena, sempre tanto cara, Secchi coi bei monotipi «Casolari in Toscana» e «Tramonto autunnale», Capri festoso, e Guglielmini con grigie, armoniche case, Sartini brioso, Zanini sobrio e Volpini con accordi di vive colorazioni. Bonfiglioli in «Ritratto», ritmico Lambertini in «Figuretta».  Un'oasi tropicale ci apprestano i futuristi, di vegetazione lussuriose in boccia, e si va dall'impeto dinamitrado, a macchie esplosive, di Vitali, alla geometria ermetica di Fausto Giorno, agli accordi più contenuti di Caviglioni. Qui è la libertà di tutte le evasioni, di Vitali, alla geometria ermetica di Fausto Giorno, agli accordi più contenuti di Caviglioni. Qui è la libertà di tutte le evasioni, la gioia assoluta da parte dell'artista dello svincolo da ogni legge. È il giovane barbaro che si mette per terre di conquista e ha nella sua pupilla l'ombra di un sogno indeterminato e il fermento nel sangue di avventure audaci. Dove sboccherà? Egli non sa, ma va leggero, e ama la vita. Tra i bianconeristi ecco  Baldinelli e Giulio Ricci; Baldinelli che strizza e compone, Ricci che non ricusa la collocazione del «vero», ma di questo sceglie il punto di vista e ha nel suo tratto un piglio indemoniato dove l'arruffo delle cose lo comporta; castigato, preciso, dove occorre.

Gli scultori sono diversi e ci son Tomba e Drei, Montaguti e Boari, Giordani e Minguzzi e la Sangiorgi e Beghelli. Di Tomba, su questa rivista, abbiamo trattato anche nel numero scorso e rimandiamo a quello il lettore; qui espone una formella di vita agreste, «La vendemmia», e diciamo soltanto squisita. Montaguti va dal soggetto bozzettistico delle Spazzine, trattato con l'acuta verità sua propria, a un ritratto di bimba, in bronzo, di una malinconia dolorosa. Un momento, forse, ma triste, e reso con tanta profondità. Drei è un plasticatore forte, di una turgidezza vitalissima che sa contemperare in «Ritratto» le esigenze del vero con quelle dello stile. Boari è più spirituale, quasi toscano; Minguzzi di una modernità che accoglie nel ritratto di questa mostra simmetrie e caratterizzazioni quattrocentesche efficacissime, mentre la Sangiorgi non nasconde la propria anima femminile e perciò il carattere affettuoso della sua scultura è sincero, ed è sentita la dolcezza adorativa delle sue terrecotte. Beghelli e Giordani hanno ormai una maturazione ricca di possibilità, Mazzoli ha un torso di giovane ben modellato, e il successo della mostra è stato superiore alle previsioni, e il pubblico, il grande pubblico si è mosso; dove si vede che la fraternità non fallisce mai nel costruire e soltanto l'odio è sterile. 

Il 22 aprile S. M. il Re, dopo la visita al Teatro Comunale alla mostra dei bozzetti del concorso per la facciata della chiesa di S. Petronio, ha onorato di sua presenza la Mostra. Ricevuto dal presidente del Circolo avvocato Gazzoni e dal prof. Giuseppe Lipparini, il sovrano si è soffermato nel locale complimentando tutti gli artisti presenti. Prima di lasciare la Mostra ha voluto che gli fossero presentati la Vedova e il Figlio di Adolfo De Carolis."

ITALO CINTI, "Circolo Artistico Bolognese". Dalla rivita "Il Comune di Bologna", maggio 1934. Trascrizione di Zilo Brati. In collaborazione con 'Cronologia di Bologna' della Biblioteca Sala Borsa.

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