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Il murale del 1948 | La Camera del lavoro di Medicina

1948

Schede

Il felice e doveroso, anche se tardivo, restauro del Ciclo pittorico murale del 1948 di Aldo Borgonzoni presso la Camera del Lavoro di Medicina, realizzato nel 1994, ha salvato, almeno parzialmente, e reso fruibile al pubblico quella che certamente è l’opera più importante a Medicina dell’intero Novecento e l’ormai unico ciclo murale del grande Maestro nostro concittadino. Esso è stato anche occasione per nuove riflessioni e per riletture di testi dell’epoca sulla singolarità dello stile scelto allora da Aldo Borgonzoni (il neocubismo) e sul rapporto dell’Artista con una committenza così particolare e nuova rispetto alle passate consuetudini: i lavoratori, gli operai, più in particolare le nostre mondine ed i braccianti, attraverso le loro Organizzazioni sindacali della Camera del Lavoro locale e della Federterra provinciale.

Da questi scritti, recenti ed antichi, esce, circa questo rapporto, un quadro positivo e rassicurante: dai racconti e dalle testimonianze si legge di un apprezzamento abbastanza immediato e istintivo dei dirigenti e degli operai che, a lavori da tempo avviati, vengono finalmente ammessi a guardare ed a dare un primo giudizio: una mondina lo traduce nella espressione, felicissima e divenuta famosa: “...c’è tutto il colore che va in rima!”. Nessun problema, quindi?! Per la verità Aldo stesso, nel suo racconto a caldo (luglio 1948) usa una frase significativa: “Qualcuno teme che farò qualche pazzia astrattista”. Davide Barbieri anche, non so quanto intenzionalmente, usa una espressione che allude a qualche esigenza di compromesso, quando scrive: “...Borgonzoni si mise all’opera riportando sui muri della Camera del Lavoro alla maniera cubista, ma mediata dal confronto con i committenti legati ad una iconografia tradizionale che aveva i suoi modelli nei dipinti delle grandi chiese di Medicina, dodici episodi legati ad eventi e passioni della storia medicinese contemporanea...”. Con questa mia nota, basata, come si vedrà, su ricordi e documenti che mi vengono dall’ambito della mia famiglia, intendo testimoniare di una realtà di allora che mi consta più problematica e forse contrastata, la quale accompagnò, forse in parte condizionò gli intensi tre mesi di lavoro di Aldo Borgonzoni.

Non mi riferisco qui alla polemica pubblica del P.C.I. di allora che sfociò nel famoso, infausto articolo di Palmiro Togliatti su “Rinascita” dell’ottobre 1948, ricordato nel suo saggio anche da Davide Barbieri, di dura condanna delle forme artistiche orientate all’informale ed all’astrattismo, che purtroppo allineò il Partito alla teoria sovietica di Zdanov contro l’arte “borghese e degenerata” e a favore del cosiddetto “realismo socialista”, che tanti drammi e rotture personali provocò in larga parte di artisti pur orientati a favore dei partiti della sinistra di allora. Intendo invece riferirmi al fatto, raccontatomi in più occasioni dai miei genitori, che mio padre Orlando (Dino) svolse un abbastanza esplicito ed intenso lavoro di raccordo e di mediazione fra il pittore, le sue intenzioni ed esigenze, ed i committenti, le loro attese, intesi questi in particolare nel segretario della Camera del Lavoro di Medicina Angelo Brini e nel segretario della Federterra di Bologna Enrico Bonazzi. Evidentemente quelle dell’uno e quelle degli altri non coincidevano né erano scontate, se è vero che, almeno per i primi quadri del ciclo pittorico, Aldo preparò dei bozzetti che sottopose a mio padre Orlando per raccoglierne un previo parere e che servirono a Dino probabilmente per tranquillizzare e convincere quei dubbiosi che, come dice Aldo, “...temono che farò qualche pazzia astrattista”, ma anche per difenderne e salvaguardarne l’autonomia artistica. A riprova di questi contatti, c’è una singolare, significativa fotografia dell’estate 1948 che mostra Aldo e Dino intenti a discutere con Enrico Bonazzi e altri due sindacalisti, probabilmente nella sede della Camera del Lavoro di Medicina. Curioso l’atteggiamento dei soggetti: ad un Bonazzi in posa un po’ statuaria che sembra discettare con serietà di alti argomenti, stanno di fronte, scamiciati, un giovane Aldo, forse un po’ perplesso, e un Dino che, più disteso, sorride divertito e un po’ sardonico.

Molto più significativa però la “prova” che tengo in casa mia: un Acquerello, firmato Borgonzoni, preparatorio della seconda delle dodici scene del ciclo (Lo sciopero delle mondine medicinesi del 1931), a lungo accuratamente conservato fra le carte di mio padre. Singolare e significativo il confronto fra l’Acquerello e la Tempera di Medicina; intanto alcuni personaggi sono diversi: al posto della madre china sul bambino (“...l’umanissimo bambino impaurito che le mondine in sciopero nella primavera del 1931 antepongono al proprio schieramento e che presentano ai Carabinieri perché questi, mossi a compassione, non scatenino la propria brutalità...”, sta una mondina in posa ieratica, classicheggiante, che volge le spalle alla scena del contrasto. Manca del tutto nell’Acquerello il ragazzo appoggiato al muro intento a mirare il profilo di Medicina. Altri particolari sono diversi: i vestiti e soprattutto i copricapo dei carabinieri, le fogge degli abiti delle mondine, il numero degli uni e delle altre sullo sfondo. Soprattutto però si nota nell’Acquerello una intonazione più realistica nei volti e nelle pose dei personaggi, mancano o sono più labili alcune caratteristiche precipue dello stile cubista: non c’è la scomposizione dei volumi e la deformazione delle proporzioni, né la violenza del colore steso a campiture larghe, uniformi e decise, né l’accostamento in superficie dei volti e l’esposizione dei corpi secondo il procedimento usato nell’arte dei primitivi, egizi in particolare, caratteristiche queste così presenti e pregnanti dello stile del Murale della Camera del Lavoro di Medicina. L’Acquerello è mosso, dotato di sfumature, più naturalistico nei gesti dei personaggi: insomma appare molto meno decisamente “cubista” di quanto non sia l’opera definitiva. E’ solo un caso?!? Qualche differenza di analoga matrice mi pare riscontrabile anche fra gli studi ed i bozzetti, pubblicati nel volume “La pittura di Aldo Borgonzoni a Medicina” Grafis 1995 (a pagg. 159-164) e le tempere del Ciclo. Certo che l’Acquerello di Aldo, da oltre un cinquantennio in casa mia e da sempre esposto nel locale di maggiore permanenza e frequentazione, è venuto assumendo un ruolo affettivo e simbolico per me molto forte, che Gli ho voluto testimoniare in occasione del suo 80° compleanno: “...In casa ho un tuo acquerello del ‘48, preparatorio degli affreschi della Camera del Lavoro: alcune mondine fiere, solenni ed eterne come eroi dell’antica arte greca o come i personaggi fuori dal tempo di Picasso, che forse il tuo giovane pennello richiamava, fronteggiano scuri scherani, torvi, impersonali e senza anima come le guardie assassine dello Zar nella scena della scalinata del “Potiomkin”. Piano piano, quasi inconsciamente, il quadro è diventato per me uno dei feticci (icone) quotidiani, una laica reliquia, l’immagine cui ricorri quando hai bisogno di ritrovare la sicurezza di alcuni valori di fondo, la ragione del tuo schierarti dalla parte che senti, nonostante tutto, essere stata ed essere ancora quella giusta, nei momenti di gioia o in quelli, più frequenti nei tempi recenti, di scoramento per l’apparente crollo dei riferimenti ideali. Quel feticcio (icona), quelle certezze sei tu, Aldo Borgonzoni, il pittore della mia terra e della mia gente, a darmeli e a farmeli ritrovare da tanti anni...”. A rendere credibili i racconti da me raccolti in ambito familiare sul ruolo avuto da mio padre nel raccordo fra Borgonzoni ed i committenti del Ciclo di Medicina vale, forse ancora più che la citata foto e l’Acquerello, il rapporto tutto particolare di amicizia, di stima e di solidarietà fra Dino ed Aldo, che il Maestro ha voluto testimoniare durante tutta la sua vita con commovente intensità e con frequente reiterazione. Ne intendo richiamare alcuni episodi, ricordati nel tempo dall’Artista, significativi anche, in qualche modo, per l’influenza su scelte artistiche e di vita non solo di Borgonzoni.

Scrive Giovanna Pascoli Piccinini nel 1981: “...Borgonzoni, gia nel 1938 aveva contatti diretti con Orlando Argentesi, operaio antifascista, condannato ad otto anni (in verità 50 mesi) di carcere e destinato ad essere il primo Sindaco della Liberazione, a Medicina. Con lui, da buon cospiratore, in dialoghi concitati e febbrili, la mente di Aldo si apriva alla politica ed alla vita. Si auspicava una maggiore giustizia, un minor sfruttamento dell’uomo. In definitiva: un nuovo umanesimo. Spulciando dal ricco florilegio di aneddoti di Borgonzoni, ci piace riportare che un giorno egli chiese ad Argentesi, con meraviglia, perché il Padiglione dell’Unione Sovietica alla Mostra di Venezia (la guerra era finita) esprimesse, nella forma e nei soggetti, la stessa retorica del fascismo. “Non ti so dire perché – rispose Argentesi –. Però penso che se io fossi vissuto nel Rinascimento avrei lodato Michelangelo e Raffaello, ma avrei gridato ugualmente alla giustizia”. Poi, leggendo Marx e Lenin, Aldo doveva scoprire che la trasformazione del linguaggio artistico non avviene di pari passo con la trasformazione delle strutture (quindi della società)...”. Aggiungo solo che nel 1938, quando cominciarono i contatti di Aldo con Dino, questi era da poco ritornato da Ponza nel Natale del 1936, dopo 50 mesi di carcere e confino, e a Medicina era trattato, dalle autorità fasciste e non solo, più o meno come un appestato: il solo frequentarlo poteva risultare molto rischioso e compromettente. Singolare del rapporto fra Aldo e Dino anche l’episodio, ricordato da Aldo più di recente, nel 1995, a proposito nel noto pittore Virgilio Guidi. “...Nel 1932 visitai a Roma la Mostra della Rivoluzione Fascista e rimasi impressionato dall’opera di Mario Sironi. La mia formazione artistica si sviluppò in quel periodo. Frequentavo i corsi serali dell’Istituto d’Arte di via Cartolerie, aprendomi alla vita culturale bolognese ed all’amicizia del critico Francesco Arcangeli, dello scultore Luciano Minguzzi e dei pittori Giorgio Morandi e Virgilio Guidi. A quest’ultimo, da me apprezzato anche se il luminismo che lo caratterizzava era lontano dalla mia sensibilità espressionista, commissionai il ritratto di mia moglie Alfonsina... Nel 1943, con la liberazione di Roma e lo sviluppo del movimento di opposizione, si riaccese la nostra speranza. In quell’anno, a causa dei bombardamenti alleati e della carestia che colpirono duramente Bologna, ritornai a Medicina con la famiglia, ritrovando lì il Maestro Guidi. L’artista per gli stessi motivi si era infatti trasferito in campagna, nella Villa dei Lenzi a Buda, una frazione del mio paese. Una mattina di settembre Orlando Argentesi che dirigeva il movimento partigiano della zona, mi comunicò che Guidi era stato condannato a morte, poiché aderente e acceso propagandista della Repubblica di Salò; mi opposi fermamente pregandolo di considerare che non aveva fatto nulla di irreparabile e che comunque doveva prevalere il giudizio ampio e positivo sulla sua opera. Dopo accese discussioni la sentenza fu convertita in espulsione da effettuare entro tre giorni, dal territorio. Si decise di andarsene verso il nord in bicicletta. Guidi non ci sapeva andare. Così dopo ripetute lezioni di equilibrio Guidi, io e la sua allieva accompagnata dal marito lasciammo Buda, raggiungendo a tarda sera Chioggia e quindi con un traghetto Venezia. Qui gli intellettuali legati alla Resistenza lo strapparono definitivamente alla persecuzione nonostante che il Maestro, frequentando lo storico caffè Florian, continuasse ad affermare che i tedeschi avrebbero rovesciato, con l’arma segreta, le sorti della guerra...”.

Dello stesso periodo è un’altra memoria che conservo gelosamente: un autoritratto-caricatura di Aldo Borgonzoni, a matita su carta, firmato “Borgonzoni A. 1944”, anche questo ritrovato fra le carte di mio padre. E’ un autoritratto scherzoso, ben diverso, più leggero, del famoso olio su tela (“Autoritratto” 1940) dipinto alcuni anni prima, singolare se si pensa al momento particolare in cui Aldo lo tratteggiò, quasi una pausa, un momento di distrazione e di riposo in uno dei periodi più cupi, angosciosi, drammatici della sua esperienza di uomo e di artista, che ha immortalato in alcune delle sue opere più tragiche e note di tutta la sua produzione: “Cristo percosso” (1944), “Miserie della guerra” (1944), ”Tragedia di Marzabotto”(1945). Al proposito mi scrisse Aldo nel giugno del 1994, forse con eccesso di sottovalutazione: “...La mia caricatura del 1944 esprime un’amara ironia, altro non è. La cosa più importante che riemerge e affiora, mette in luce un legame di profonda amicizia che ha lasciato i segni che determinarono notevolmente i miei ideali e la mia vita di uomo e di pittore. Tuo padre conservò per alcuni anni un mio autoritratto, poi qualche tempo dopo volle ridarmelo. Quel dipinto nel 1951 il Prof. Francesco Arcangeli lo acquistò ed è conservato nella Galleria d’Arte Moderna della nostra città unitamente ad altri 15 dipinti di vari periodi...”. E’ un rapporto che resta intenso anche negli anni successivi del dopoguerra quando Dino è totalmente immerso nel gravoso impegno di Sindaco della ricostruzione e Aldo, in tanti luoghi in Italia e all’estero, affronta la propria lunga avventura di pittore: lo testimoniano anche i cataloghi delle mostre di Aldo, anch’essi conservati da Dino fra le sue carte, anche le prime come quella di Roma, nel gennaio 1947, presso la Galleria d’Arte Contemporanea “Il cortile”. Al proposito annota Aldo nella lettera già richiamata: “...Il catalogo della mia mostra a Roma del 1947 fu importante perché mi permise di legarmi agli artisti più prestigiosi dell’arte italiana, e non a caso portai a tuo padre Orlando il documento del mio lavoro, mostrando gli articoli dei quotidiani che avevano in quel tempo recensito in maniera evidente un giovane di Medicina che s’affacciava nel panorama dell’arte del nostro tempo con l’ansia di lasciare un segno. I timbri (Bagni) sul catalogo significa che in quella domenica feci la doccia pubblica in casa Argentesi...”. Medicina, Medicina... sempre Medicina! Le sue case, le sue chiese, la sua gente, la sua storia antica e recente, l’epos dei personaggi del popolo, le mondine e i braccianti..... Aldo, come Dino, un altro innamorato di Medicina per la vita: quasi un’ossessione per il mitico luogo delle radici, quasi un centro del mondo, il paese dove egli non ha mai smesso e mai smetterà di ritornare.

Ecco, ad esempio, come ne parla Aldo nel 1982: “...Ho una radice antica che affonda nella mia memoria, è la radice della mia infanzia legata alle grandi chiese del mio paese, Medicina. Chiese del ‘700 che schiacciavano le nostre case. Vivevo in una di queste, poverissima, dove i miei erano braccianti; mamma era “zolfanaia”, cioè comprava e vendeva stracci. L’idea del Concilio è in questa radice, l’immagine della mia infanzia che mi ricollega come emozione a questi fatti molto lontani, alle mie chiese di Medicina, ai dipinti della cultura bolognese, alla grande architettura del Dotti, del Venturoli... Il mio periodo preconciliare ha matrice sempre di carattere popolare ed è strutturato sui grandi ricordi della civiltà del passato, come vuole la matrice di Medicina che è già una matrice romana, con una ricca storia medioevale. Ci sono Federico Barbarossa e queste grandi chiese; c’è l’umanità della povera gente, nata in antiche campagne poverissime. La mia esperienza parte da ricordi dei miei tra quella povera gente; tutta la mia pittura è piena di questa povera gente che, però, cerca speranza. La mia pittura si è riempita del dramma della resistenza; delle lotte esplose dentro la società italiana; delle giornate della speranza e, quindi, della pace; delle lotte del lavoro che mi trovarono di fianco ai braccianti ed alle mondine...”.

Mi sembra che colga bene, con finezza, la complessità e la crucialità del rapporto di Aldo con la “sua” Medicina, Adriano Baccilieri che nel 1982 scrive: “...nel clima del neo-realismo di quegli anni, i dipinti di Borgonzoni sembrano trovare una collocazione appropriata. Le immagini che ricorrono sono quelle di verità e vita vissuta nelle quali l’artista riconosce le sue radici; sono i paesaggi della sua terra, i visi della sua gente, mondine, braccianti, agricoltori, le espressioni care della madre, Medicina. Medicina e la sua realtà... Medicina e la sua cultura popolare istintiva, fatta di tradizioni e tramandi più che di testi scritti, antiintellettualistica e perciò realistica, espressiva (o espressionista) come i caratteri e i gesti dei lavoratori impegnati nella quotidiana fatica. Medicina terra dello Stato della Chiesa, di uno stato padrone; e perciò laica, anticlericale, terra di passione rossa (come i rossi tipici di Borgonzoni) e di spiriti liberi che alimentano segrete e tenaci resistenze al potere. Medicina centro anche di grande cultura, con splendidi complessi sei-settecenteschi purtroppo destinati ai potenti, simboli di una Chiesa che si propone come centro di potere e non come comunione di anime; e questa era la Medicina inaccessibile, quella parte del suo stesso paese che Borgonzoni poteva solo vagheggiare, un cuneo nella storia corale del popolo che l’aveva fondata e fatta crescere. Del resto la storia di questo popolo assume un valore simbolico: è un po’ la storia di tutti i popoli, una storia che si ripete...”. Tutto questo fino alla folgorazione, negli anni ‘60, del Concilio Vaticano Secondo, quando la Chiesa appare ad Aldo recuperare ecumenicità, vocazione alla pace e alla difesa degli oppressi, così che al suo simbolo e motore, Papa Giovanni XXIII, Borgonzoni attribuirà un’immagine che ricorda figura ed imponenza del bracciante medicinese da lui ritratto negli anni ‘50: ma qui comincia un’altra storia, già tante volte autorevolmente raccontata.

Giuseppe Argentesi

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 1, ottobre 2003.