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Gli orbini di Bologna

XVI sec. | XX sec.

Schede

Non tocca a me parlare delle ragioni fisiologiche per le quali in chi ha avuto la disgrazia di nascere privo della vista si manifestano più acuti gli altri sensi, particolarmente l’udito. I dotti, manco a dirlo, non si trovano d’accordo nello spiegare tali ragioni: la più verosimile è forse perché, procurandoci la vista i piaceri più complessi e più intellettuali, chi non può provarli è compensato in un certo qual modo dall’intensità dei piaceri procurati dagli altri sensi. Si direbbe che l’udito è il senso del cuore, la vista il senso della mente. E’ un fatto ch’io non saprei davvero spiegare scientificamente, ma che si capisce subito pensando alla diversità di sensazione che produce il vedere o l’udire una persona cara. Indiscutibilmente i ciechi nati, hanno l’udito sensibilissimo, perché questo senso si perfeziona nell’oscurità, la quale permette che l’attenzione si localizzi su le impressioni auditive. E poiché la cecità fa ostacolo all’attività del corpo più che a quella dell’intelletto, ne viene che per conseguenza che i ciechi, quando hanno bisogno di fare qualche cosa per vivere, si dedicano generalmente ad una professione intellettuale, per essere in condizione meno svantaggiosa di fronte ai veggenti. La professione del musicista conviene ad essi più di qualunque altra; sia che venga loro insegnata con metodo razionale, e possa condurli a diventare alla lor volta maestri e compositori; sia che sia imparata ed esercitata alla meglio, senza alcuna seria istruzione, ma con la sola guida dell’orecchio e del buon gusto musicale. In Francia gli organisti di molte cattedrali sono ciechi nati; altri frequentano i corsi del Conservatorio di Parigi, dal quale sono usciti parecchi laureati. Anche in Italia, negli istituti fondati per l’istruzione dei chiechi, l’insegnamento della musica tiene il posto principale nei programmi; ed il mestiere di accordatore di pianoforti, intermediario fra la professione del musicista ed i mestieri manuali, è molto vantaggioso per i ciechi, preferiti generalmente per l’attenzione e la coscienza con la quale fanno il loro lavoro, e per la modestia delle loro pretese.

Non è il caso di soffermarsi neppure ad indagare se il numero dei ciechi nati è maggiore o minore in un paese o nell’altro, nell’una o nell’altra provincia. Nell’Europa centrale se ne contano, stando alle statistiche, uno sopra 1000 o 1100 abitanti: la proporzione aumenta notevolmente dove, come pur troppo accade in alcune provincie d’Italia, sono meno favorevoli le condizioni di clima e d’igiene delle abitazioni; poiché, se veramente è raro il caso di nati assolutamente privi della vista, è pur troppo molto frequente quello di bambini che la perdono poco dopo nati, per oftalmia purulenta, diffusissima dove essi sono mal curati e le abitazioni malsane. Le statistiche ufficiali da me consultate danno approssimativamente una cifra di 29,000 ciechi in tutto il regno d’Italia, poco più di 3,000 in tutta l’Emilia; vale a dire proporzionatamente alla popolazione, un minor numero in questa che in altre regioni d’Italia. Ciò non impedisce di credere a chi viene a Bologna per la prima volta, che i ciechi vi siano molto numerosi, vedendosene sulle porte di tutte le chiese, ed anche sotto i portici, nelle strade meno centrali. Quelli che elemosinano sulle porte delle chiese, coperti da un gran gabbanone di panno rosso scarlatto – il povero Luigi Serra ne fece soggetto di un quadro, e di bellissimi studii esposti all’ultima Mostra internazionale di Venezia – fanno delle buone giornate e si possono pagare anche il lusso di dare quattro soldi al giorno a chi li accompagna da casa alla chiesa e dalla chiesa a casa.

Ma per le strade di Bologna si incontra un’altra classe di ciechi, chiamati dialettamente i urbein – gli orbini – dei quali appunto voglio occuparmi, appartenendo essi, nella loro qualità di suonatori girovaghi, alla grande famiglia dei musicisti. Parecchi anni sono, quando i regolamenti municipali non esistevano ancora, od erano molto rudimentali, gli orbini bolognesi si spargevano strimpellando per la città, e continuavano dalla mattina alla sera a lacerar le non malnate orecchie con le stonature dei loro violini. Ma, né allora, né adesso, chi li vede, e si diverte ad ascoltarli, oppure li manda a quel paese, con poca compassione per la loro disgrazia, ha pensato e pensa che i urbein hanno formato un tempo una corporazione secolare: anzi addirittura una istituzione, come dicono alla Camera, e dice il Sindaco di Gorgonzola nella Statoa del sur inciosa. Fino dal medio evo, in tutta l’Europa, i ciechi suonatori, cantanti, o che pur s’ingegnano a campare divertendo il pubblico in qualche altro modo, erano fra loro uniti in corporazione: nel XIII secolo, San Luigi re dei francesi, fondò a Parigi l’ospizio dei Trecento (Quinze-Vingts) per raccogliere quelli infelici ràpsodi della plebe, quando non erano più buoni a guadagnarsi la vita. Non v’è da meravigliarsi che una di tale corporazioni esistesse ab immemorabili anche a Bologna, dove la passione per la musica è molto antica, tanto che Nicolò V, nel 1440, fra le varie riforme da introdursi nello Studio Bolognese, propose anche di fondarvi una cattedra musicale. Da qualche tempo esisteva allora una “Compagnia dei ciechi” con statuti proprii e con residenza nella chiesa di San Bartolomeo a Porta Ravegnana. Il cardinale Alfonso Paleotti, arcivescovo di Bologna, che, in questa chiesa riedificata nel 1516 dal Formigine a spese di un Gozzadini, stabilì nel 1599 i chierici Teatini, riformò, alcuni anni dopo, anche gli statuti della Compagnia de’ ciechi, dei quali alcuni capitoli furono pubblicati dal signor Alberto Finzi, nel Giornale di erudizione di Firenze, nel novembre 1894. Da tali statuti si rileva come fosse uso comune delle famiglie Bolognesi di pagare un tanto alla Compagnia de’ ciechi – oggi si direbbe fare un abbuonamento – perché una volta la settimana, in giorno stabilito, un drappello di loro andasse a cantare alcune orazioni, con accompagnamento strumentale, sotto le finestre degli abbuonati: e molto probabilmente erano ciechi iscritti alla Compagnia quei “musicisti” che l’Achillini cita nel suo Viridario, dicendo: Di musici è dotata questa terra / Che cantano improvvisi ogni bel punto. I ciechi della Compagnia erano obbligati dagli statuti a non cantare “sorte veruna d’oratione, capitoli, prose, rime o madrigali” non approvati dalla Chiesa e dai suoi ministri, né “cose profane sospette”. Alla Compagnia potevano appartenere i soli ciechi nati in Bologna e nel contado; ed essa si opponeva nel modo più energico, difendendo i suoi privilegi come tutte le corporazioni di arti e mestieri di quel tempo, a che i ciechi forestieri potessero cantare alle case e nelle botteghe, né elemosinare in altro modo; giustificando tale esclusivismo punto altruistico col dire che le altre città non ammettono i poveri ciechi bolognesi “anzi gli esplodono subito – lo statuto evidentemente vuol dire espellono – e li cacciano fuori”. In tempi più moderni i ciechi “forestieri” ebbero qualche volta il permesso di suonare in alcune località, ma dovettero chiederlo alla Compagnia; la quale protestò vivacemente davanti alle autorità costituite, quando comparvero a Bologna i primi organetti. La Compagnia eleggeva fra i suoi componenti un capo, detto massaro, come i capi di altre corporazioni d’arti e mestieri; eleggeva altresì i così detti “uomini del numero”, ognuno dei quali era come il capo e la guida di uno dei piccoli gruppi nei quali la Compagnia si ripartiva per esercitare la propria arte, se così vogliamo chiamarla. Il massaro e gli “uomini del numero”, tutti eletti pro tempore, erano gli amministratori della Compagnia, la quale si adunava altresì in determinati giorni dell’anno in seduta plenaria, per discutere le faccende sociali e constatare la cifra del patrimonio comune.

Questo patrimonio subì, come tanti altri, le peripezie del periodo Napolenico, e nel 1814, considerato come patrimonio d’Opera pia, fu concentrato per legge nell’Opera dei vergognosi, la più ricca di tutta Bologna. Tale concentramento fu confermato con R. Decreto del 28 agosto 1864, con il quale la cifra totale del patrimonio della Compagnia dei ciechi fu fissata in L. 38,637 e 75 centesimi. I frutti di questo capitale sono distribuiti dall’Opera dei Vergognosi, nelle principali solennità dell’anno, agli iscritti alla Compagnia dei ciechi, che non possono essere più di quaranta fra uomini e donne, ammettendosi un nuovo socio quando un altro viene a mancare. - Ma, per quanto mi è riuscito di sapere dalle indagini fatte, i ciechi che godono i frutti delle 38,600 lire, con i quali quaranta persone non vivono certamente di rendita, sono privi della vista ma non suonatori. Per lo meno i urbein ora esistenti a Bologna non sono tutti sovvenuti con i frutti del piccolo patrimonio e s’industriano alla meglio con i loro strumenti.

Quantunque i regolamenti municipali non permettano più di cantare e suonare in luoghi centrali, e nessuno prenda più l’abbuonamento per strimpellare delle orazioni: quantunque non usi più, come una volta, cantare le storie dei briganti e le zerudele, con un gran cartellone illustrativo disteso in terra, sul quale il buon pubblico buttava baiocchi in abbondanza – come faceva, per anni ed anni, il famoso “orbino di piazza” cantando la storia del Mastrigli sull’angolo del palazzo dei Notari; - quantunque il pubblico sia diventato più scettico e più esigente, i poveri ciechi se la cavano ancora alla meglio, e vedendoli all’osteria v’è da crederli rassegnati alla loro sventura. Hanno ormai rinunziato generalmente alla musica vocale, alle canzonette e alle zerudele: solo due o tre vecchie donne deliziano alcune strade remote cantando in chiave di gatto scorticato vecchie canzoni di Piedigrotta, ed anche ariette di operetta, in tal modo da renderle irriconoscibili anche ai maestri compositori che le hanno scritte. E’ forse un delicato riguardo verso quei maestri, perché non si possa dir loro che sono autori di roba da strada. Nella musica strumentale alcuni “orbini” anche in tempi recentissimi, hanno bensì raggiunto un grado di “virtuosità” al di sopra dell’ordinario, particolarmente fra i suonatori di violino. Si ricorda ancora Pietro Faccioli, detto Pira, morto nel 1855. Vincenzo Mei e Jusfein – Giuseppino – Rossi, sono morti, il primo quindici anni orsono, il secondo verso il 1890; e Napoleone Bassi, conosciuto da tutta Bologna col nome di Napuleunzein, è morto ancora giovane nel 1892. Napuleunzein era uno stranissimo tipo di musicomane. Cieco fin dalla nascita, aveva anche la disgrazia di essere epilettico, e forse a causa della malattia, talvolta la sensibilità musicale – mi sia permessa questa frase scientificamente poco ortodossa – si acuiva in lui fino al punto da farlo parere un ossesso, quantunque d’indole naturalmente mite e gentile. Suonatore di violino di merito non comune, gli era permesso di suonare anche in molti luoghi dove non entrano gli altri suonatori ambulanti. Ai tempi ne’ quali il non meno celebre Ottone Hoffmeister era proprietario della birreria in via Farini, sull’angolo di via del Cane, proprio dirimpetto all’ingresso posteriore di San Petronio, dove durante l’estate si riunivano tutte le persone della più scelta società rimaste, per una ragione o per l’altra, a Bologna, Napuleunzein, accompagnato con la chitarra dalla “Carola”, sua inseparabile compagna, dava dei veri concerti, dondolandosi talvolta come un orso bianco, contorcendo la bocca, la faccia e tutta la persona, accompagnando la cadenza della musica con il movimento d’una gamba o d’un piede, e commuovendosi talvolta fino alle lagrime per il motivo che egli stava interpretando con grande espressione. Un giorno Napuleunzein, assistendo ad uno dei concerti orchestrali popolari diretti da Gigi Mancinelli al teatro Brunetti, ora Duse, fu preso da tale commozione, che incominciò a fare dei veri muggiti, e si dovette allontanarlo, pian piano e con bel garbo, per impedire che a furia di scontorcersi ed agitarsi non andasse a finire dal loggione in platea. Pareva generalmente che nelle sensazioni dell’udito il Bassi trovasse un compenso alla mancanza di sensazioni della vista: ma quando, o dalla voce, o da alcun altro indizio, poteva accorgersi della presenza di qualche signora, da lui sempre supposta per giovine e bella, le sue smanie aumentavano, e la sua ammirazione… se pure si ammette che chi non vede possa ammirare, diventava compromettente. Egli è stato, diciamolo pure, l’ultimo “orbino” che avesse vero sentimento di artista, e la sua scomparsa ha lasciato un vuoto nelle abitudini musicali bolognesi. La “Carola” ha trovato un altro “orbino” da accompagnare; ma egli non vale davvero Napuleunzein e non lo ha punto sostituito nelle simpatie del pubblico.

Mi avevano fatto credere che gli orbini ancora esistenti in Bologna fossero sempre inscritti alla “Compagnia de’ ciechi” e vivessero uniti fra loro, in una specie di falanstero. Anzi, mi avevano anche indicato la strada dove abitavano. Quando vi sono andato, ho trovato che in quella strada – via Tintinaga – le case non hanno porte, perché vi rispondono le sole facciate posteriori delle case di Piazza Malpighi da una parte e di via Gombruti dall’altra. Questo primo cattivo esito delle mie indagini non mi fece perdere il desiderio di continuarle. Un cameriere del caffè del Commercio mi messe sulla buona strada, indicandomi che il capo riconosciuto degli orbini ora dimoranti ed esercenti la loro professione in Bologna, abita poco distante da quel caffè, al n.7 in via Belvedere, insieme con un compagno. Questo capo si chiama Alberto Brandoli, bolognese, suona il violino, ed è conosciuto con il lusinghiero nome di Mancinelli. Oltre che dalla abilità nel suonare il violino, la sua autorità gli viene dal non essere assolutamente cieco, il che gli permette di poter badare agli affari dei suoi compagni, meglio dei quali egli si può trovare in relazione diretta col mondo esteriore. Il compagno di casa del Mancinelli si chiama Oreste Gamberini, bolognese, chitarrista. Sono ambedue giovani; il Brandoli ha 32 anni, il Gamberini 36: forma squadra con loro il violinista Fortunato Belluzzi, di 37 anni, abitante in via Pugliole di San Bernardino, una delle strade più eccentriche e più remote della città. Questa prima squadra gode il privilegio di essere ammessa a suonare in alcuni caffè e trattorie cittadine: le altre battono le piazze e le strade fuori del centro, e nell’estate i cafè e le trattorie del suburbio.

I principali componenti delle altre squadre sono Augusto Zardini, d’anni 29, violinista; ed Armando Piana, di 25 anni, chitarrista; ed Augusto Bisi di 54 anni, violinista, che vanno generalmente uniti e sono assolutamente ciechi; i primi due bolognesi, il terzo nato a Galliera nella provincia di Bologna. Vanno accoppiati il violinista Antenore Grimaldi, d’anni 45, con il coetaneo chitarrista Cesare Bicocchi, ambedue ciechi e bolognesi; ed il ventiduenne violinista Giuseppe Gamberini, con il settantenne Romeo Bazzigotti, chitarrista. In alcune solennità, o quando si trova a Bologna qualche illustre personaggio, le squadre si riuniscono per fargli una serenata, dividendo fra loro il guadagno. Il duca di Montpensier, e poi suo figlio, don Antonio d’Orléans, hanno sempre fatto agli “orbini” generose elargizioni. Abitualmente ogni squadra lavora per conto proprio, ed i suoi componenti ripartiscono fra loro gli utili della giornata, variabili secondo le stagioni, secondo l’abilità dei suonatori, secondo molte altre circostanze che non si possono valutare con precisione. La squadra migliore, quella diretta dal Mancinelli, fa maggiori guadagni perché frequenta luoghi dove è più facile trovare gente pronta a mettere le mani in tasca; quantunque, anche nelle osterie, non vi sia popolano bolognese che lasci andare via gli “orbini” a mani vuote. La prima squadra può fare assegnamento sopra un incasso minimo d’una diecina di lire al giorno, che spesso aumenta considerevolmente: sicché in media un “orbino” fa una giornata dalle 3 lire alle 3,50 al giorno, ben inteso in circostanze ordinarie.

La vita degli orbini è regolata da norme fisse; ma, nell’insieme, non è delle più monotone che possa fare chi ha bisogno di guadagnarsi il pane. Non si levano all’alba, e perché occorre distribuire il lavoro della piazza fra le squadre, queste si riuniscono tutte insieme in un luogo prestabilito, e di lì partono per le località designate a ciascuno dal Mancinelli, con una specie di turno. A mezzogiorno, secondo le stagioni, ciascuno va a mangiare a casa propria, oppure le squadre si riuniscono nuovamente là dove sono partite, e mangiano tutte insieme. Nell’estate gli “orbini” riposano durante le ore calde, nelle quali sarebbe inutile affannarsi a suonare. Riposano dormendo, anche perché in quella stagione sono frequenti le occasioni di andare a letto molto tardi, per suonare a chi prende il fresco della notte; oppure riunendosi all’ombra nell’orto di qualche osteria suburbana, e divertendosi a giuocare. E’ curioso vederli tutti attenti a giuocare una partita a domino, guardando, dirò così, le pedine col tatto: ma è anche più curioso il vederli giuocare una partita alla mòra, tenendosi le mani gli uni con gli altri per sentire a tasto quante sono le dita aperte a ogni colpo. Uno dei luoghi di ritrovo da loro preferiti è una osteria fuor della porta Sant’Isaia, dove sono andato a trovarli con il dilettante fotografo Ulderico David, autore delle fotografie che illustrano questo articolo; e dove le squadre riunite, sotto la direzione del Mancinelli, hanno eseguito in nostro onore una Marcia, camminando a distanza, a passo cadenzato, con l’accompagnamento dei loro strumenti. Il signor David ha potuto cogliere anche qualche altro episodio della vita artistica quotidiana degli “orbini” ed ha ottenuto che qualcuno di loro posasse davanti all’obiettivo della sua Goëz Anschutz. Qualcuno troverà inutile una tale fatica e domanderà a quale scopo mi sia venuto in mente d’illustrare questi sventurati musicisti privi della vista. Rispondo subito che, prima di tutto, quantunque la loro abilità artistica lasci adesso a desiderare, pure gli “orbini” hanno contribuito, e contribuiscono forse ancora, a mantenere viva la passione della musica anche in quel ceto della popolazione che frequenta meno i concerti e le rappresentazioni teatrali e non è mai stato al Quartetto; per ciò che essi avevano qualche diritto a figurare in una rivista la quale si occupa di tutto quanto si riferisce ed ha relazione con la musica e i musicisti. Dopo questa ragione d’ordine generale, un’altra più particolare mi ha suggerito l’idea di dedicare queste poche pagine agli urbein di Bologna, già ricordati da molti chiarissimi autori, come dal Lippi nel Malmantile riacquistato e dal Tassoni ne La secchia rapita, ed ai quali Cesare Cavara ha dedicato una delle sue poesie, edite a Firenze dal Le Monnier nel 1859, ed a Bologna dal Monti nel 1863.

I ciechi suonatori ambulanti sono destinati, preso o tardi, a sparire. La pietà e la carità hanno preso modernamente forme e manifestazioni più intelligenti, e negli Istituti dei ciechi che esistono dovunque – uno prospero e diretto con intelletto d’amore esiste da parecchi anni a Bologna – si cerca di profittare della naturale tendenza alla musica dei disgraziati ricoverati, in modo più razionale e che permetta loro di guadagnarsi la vita senza peregrinare eternamente da bettola in bettola. Già si veggono i resultati di questo nuovo sistema di educazione musicale, e dall’Istituto dei Ciechi di Bologna – del quale mi propongo scrivere un giorno, considerandolo dal punto di vista musicale – sono già usciti dei buonissimi accordatori, dei buoni pianisti ed anche qualche compositore. Che qualcuno pensi ad istruirli e ad avviarli all’esercizio d’una professione decorosa è una vera fortuna per i poveri ciechi. Per il loro bene si può rassegnarsi volentieri anche a perdere una nota di “colore locale”: ma non è mal fatto il conservarne memoria. Bologna, maggio 1904.

Ugo Pesci.

Testo tratto dal periodico "Musica e musicisti - periodico della città di Milano", Ricordi, Milano, 1904. Trascrizione di Roberto Martorelli.