Schede
Il 26 maggio 1917 la Decima battaglia dell'Isonzo viveva i suoi ultimi sussulti, le truppe italiane della 3a Armata del Carso si erano fermate sulla linea Nad Logem, Volkovniak, Fajti Hrib, Castagnevizza, poi, verso il mare, la serie di quote insanguinate: la 31 nel vallone di Brestovizza, la 146, la 145 nord, la 135, le propaggini di San Giovanni di Duino con la quota 20 ed infine la foce acquitrinosa del Timavo. Dal 26 al 31 maggio le cosiddette azioni di consolidamento avevano richiesto altro sangue; era un risultato modesto per una battaglia che aveva coinvolto 16 divisioni. Senza contare che nella prima fase della battaglia altre 12 divisioni della Zona di Gorizia si erano battute da Plava al Vippacco, esaurendosi contro l'inespugnato Monte Santo.
Il Comando Supremo Italiano aveva messo in campo non meno di 700.000 soldati tuttavia, solo 250.000 costituivano le vere truppe d'assalto e fra queste le perdite complessive furono di 112.000 soldati. Gli Imperiali si erano difesi bene, con "solo" 70.000 uomini fuori combattimento. Le posizioni austriache essenziali per la protezione di Trieste erano ancora intatte, salvo l'Hermada o monte Querceto come lo chiamavano gli italiani, o quota 323 come veniva indicato negli ordini operativi che raggiungevano i battaglioni dei due eserciti. L'Hermada era il caposaldo della difesa di Trieste, lo sapeva bene il Maresciallo Boroeviç, comandante della Isonzo Armée; gli italiani erano a soli 2000 metri e tutte le linee di comunicazione ed i rifornimenti erano sotto il tiro dei loro cannoni. Terminata l'azione offensiva sul Carso, il Comando Supremo Italiano iniziò a disegnare i contorni di un'altra grande battaglia, questa volta in Trentino: l'Ortigara. Ordinò quindi alle armate 2a e 3a di passare sulla difensiva prelevando le divisioni in soprannumero. Dal Nad Logem al mare rimasero 10 divisioni. Gli Ungheresi avevano intanto ricevuto rinforzi dal fronte russo e macedone, Boroevic riuscì a mettere assieme 2 divisioni, la 28° e 35°, due brigate da montagna ed il 28° reggimento Praga. Boroeviç progettava un contrattacco che desse respiro all'Hermada, da effettuarsi con la tecnica utilizzata dai tedeschi sul fronte occidentale: grande pressione lungo direttrici di minor resistenza evitando di insistere sulle altre. La controffensiva austriaca iniziò il 3 giugno 1917 alle ore 21, con una azione diversiva verso Dosso Fajti che attrasse le riserve italiane; all'alba del 4 giugno, dopo una preparazione di artiglieria di soli 40 minuti, le fanterie austro ungariche, sostenute da sezioni di mitragliatrici mobili, attaccarono con una manovra a tenaglia dall'Hermada verso Flondar ed il Fajti. Le direttrici d'attacco avevano come obiettivo due punti particolarmente pericolosi: la giunzione tra la 16° e la 20° divisione a nord e tra la 20° e 45° a sud. Alle 6,20 due battaglioni del 71° reggimento furono accerchiati e costretti alla resa. Caddero così le quote 135 e 43, altre truppe italiane che si erano nascoste nella galleria ferroviaria presso Flondar, per sfuggire al bombardamento, dovettero arrendersi. Più a nord il 245° reggimento della Brigata Siracusa tenne duro, mentre il 246°, persa la quota 146, veniva sorpassato ed accerchiato. Un'altra colonna nemica operava lungo la strada adriatica da San Giovanni di Duino verso Monfalcone. Alle 8 del mattino i battaglioni dell'85° fanteria che erano in linea allo sbarramento stradale alle foci del Timavo si ritirarono combattendo, dopo aver lasciato morti, feriti e prigionieri lungo il percorso. Il VII° Corpo d'Armata italiano responsabile del settore investito dall'attacco reagì solo il giorno 5, ma gli Imperiali avevano già ripulito il terreno fino al Fajti.
La Brigata Arezzo lanciata al contrattacco, arrestò in parte la spinta austriaca, la Brigata Granatieri di Sardegna, insieme a truppe della Bari e Siena, svenandosi in una lotta alla baionetta, tamponarono la falla al centro, sul fianco sinistro operarono la controffensiva le Brigate Murge, Arezzo e Barletta. Il 6 giugno i combattimenti si spensero ovunque: la linea italiana si era ritirata di circa un chilometro di fronte all'Hermada; in 72 ore il contrattacco di Boroeviç aveva ripreso il paese di Flondar e buona parte delle zone conquistate sul basso Isonzo nella decima battaglia. Non solo, perché circa 22.000 soldati italiani erano stati messi fuori combattimento, di questi ben 10.000 erano i prigionieri. Il Comandante Supremo Italiano, Luigi Cadorna, sconvolto dall'alto numero di prigionieri, accusò di tradimento e diserzione i reggimenti delle Brigate Verona, Puglia e Ancona che, accerchiati o bloccati nelle gallerie ferroviarie, si erano arresi invece di farsi annientare. In una lettera inviata il 6 giugno al Presidente del Consiglio in carica, On. Boselli, Cadorna accusava: ".. Dalle informazioni che finora ho avuto dal comando della 3a Armata, risulterebbe che la massima parte dei catturati appartiene a tre reggimenti di fanteria, composti in prevalenza di siciliani…". Ancora la Sicilia, che nelle sue idee assieme a Toscana, Emilia, Romagna e Lombardia, erano un unico grande covo di socialisti sobillatori e propagatori di idee contro la guerra. Occorreva dunque che il Governo si facesse carico di "..Stroncare l'opera dei più pericolosi agitatori con misure energiche ed immediate alle sorgenti stesse da cui emana ". La terapia praticata dal Comando Supremo fu di inasprire le fucilazioni sommarie che, fra maggio e settembre del 1917, arrivarono a quasi un centinaio. Mancò quindi del tutto l'esame del perché poche truppe nemiche avessero ottenuto così grandi risultati; nessuna revisione fu fatta sui metodi di attacco delle truppe italiane, sullo schieramento a difesa del terreno conquistato, sullo scarso supporto della nostra artiglieria, che pur contava migliaia di cannoni. Nessuno dei nostri generali intuì che i nemici avevano applicato una nuova tecnica di combattimento. L'Hermada a giugno del 1917 fu una prima piccola Caporetto, purtroppo sottovalutata.
Paolo Antolini