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Allegria goliardica bolognese

1888 | 1900

Schede

A onor del vero dobbiamo confessare agli amabili lettori, che quanto verremmo esponendo non è parto della nostra fantasia – non vorremmo infatti ricevere nel petto, passando tranquilli per il centro e zuffolando un'arietta nostrana, il tridente di Nettuno, del nostro fiero dio marino, e cadere esanimi sulla pubblica via – né tampoco plagio o epigonìa, o per dirla alla buona, copiatura o imitazione – la penna, che verga le cartelle, scapperebbe dalle nostre dita scivolando sui candidi fogli, macchiandoli e deturpandoli – si tratta invece di un manoscritto, vecchio manoscritto.

L'abbiamo scoperto ingiallito, sdrucito, sudicio nel solaio, si nel nostro granaio avito, pieno di ricordi, impregnato dell'odore di quel passato che non si rimpiange, ma si rammenta con un senso di pacata nostalgia, nel quale spesso ci si rifugia quando il presente appare irto duro aspro, non per viltà, ma per ritrarre dagli antichi una spinta, un aire a operare sempre meglio nel futuro. Tralasciando ulteriori elucubrazioni, eleviamo un ringraziamento al nostro magnanimo avo, che ci ha lasciato una fonte così genuina che ci ha permesso di tracciare dei bozzetti (vorremmo fossero scapigliati) che mettono in luce l'allegria goliardica dei nostri predecessori universitari della fine dell'ottocento. All'Ateneo bolognese, rinomatissimo nei secoli, è un convergere da tutto lo stivale di studenti che vengono a trascorrervi gli anni più spensierati già sbarazzini dongiovanneschi della loro giovinezza. Bologna li accoglie a braccia aperte, il suo volto è bonaccione e ridanciano, il suo cuore è lieto e palpitante. Vengono pure gli studenti all'ombra delle due torri: l'alta snella e svettante al bel cielo di cobalto Asinelli e la curva tozza cempennante (passi il toscanismo) Garisenda, lì riceveranno considerandoli buoni, se pur vivaci, figliuoli. Sfogliando le pagine del manoscritto ci capita sotto gli occhi un ritornello, che anche noi ben conosciamo: «Viva Bologna, città delle belle donne, noi siamo le colonne dell'università...» Anche allora si cantava e si innalzava alle iridescenti stelle la bellezza, la grazia, la civetteria delle ragazze petroniane. Quante avventure tra gentili studentesche e, più spesso, belle ragazze del popolo da una parte e studenti bolognesi, forestieri e intraprendenti dall'altra. Storielle umoristiche, allegre, ma anche tragiche, sì anche tragiche.

Ve ne vogliamo raccontare una, sì una storia d'amore un po' triste, un po' melanconica: l'idillio dell'aspirante medico Genunzio (il nome forse vi muoverà il riso, ma che volete, siamo alla fine del secolo XIX) con la vezzosa e amabile sartina Clara, indubbiamente una bella figliola. Non vi possiamo raccontare le belle giornate trascorse insieme, le passeggiate sui ridenti colli, i pomeriggi domenicali brumosi od assolati: il manoscritto sorvola. La conclusione dolorosa: il dottorino laureato ritorna al suo paese natio e la ragazza abbandonata, per il dolore, per l'acerbo duolo, salta dal quarto piano della sua casetta modesta sul selciato, con le conseguenze che vi potete immaginare. Non possiamo tacere neppure di quella Clotilde, che dopo aver amato tanto un goliardo, uno studente alle prese con le Pandette sacre e vulnerabili, lasciata improvvisamente dal neo-avvocatino, per nulla simile a Romeo, non volle più amare altri giovani chiudendosi in un convento. E desidereremo continuare ancora, ma lo spazio ce lo vieta, perché vogliamo caratterizzare l'ambiente, al quale – pur vivendo in regime demo-liberale – gli studenti hanno saputo dare un'interpretazione tutta nostra, italiana e soprattutto bolognese. La città delle mille torri, come premio della sua accogliente ospitalità, ha la soddisfazione che gli studenti si sentono ad essi attratti e finiscono per amarla e per piangere, se la devono lasciare. Il gran cuore della città pulsante e il piccolo cuoricino palpitante dello studentello, accomunati nel vortice inarrestabile della vita, si sentono attratti l'uno verso l'altro, si comprendono, si amano. Se nelle vacanze le vie, le piazze sono semi deserte, durante l'anno accademico la città pulsa più vigorosa di vita giovanile; nei portici vi è animazione, cicalecchio, crocchi che ristanno ridacchiando sghignazzando in certi angoli fissi e si odono innumerevoli dialetti, svariate voci, canti, fischiettii.

E i bolognesi tutti, dai benestanti ai popolani, fanno festa ai goliardi, fraternizzano con loro; alcuni di età ragguardevole si mescolano ad essi, ritornano studenti, fanno del chiasso, canticchiano i vecchi motivi mai dimenticati, rivivono anche per un solo istante la vita universitaria, così bella attraente, piena di sogni, di illusioni, di propositi, di melanconie, ma soprattutto piena di gioia buonumore allegria. Per questo i forestieri, quelli che partono per sempre, conseguita la laurea per gettarsi anelanti nel vortice della vita, nel lungo budello nero dell'esistenza quotidiana, piena di incognite, quando il treno si mette in moto assumono una brutta cera, melanconica, triste. Sono presi da mille ricordi. Una lacrima spunta sul ciglio e par che dalle labbra escano sommessi alcuni suoni: «Addio Bologna, addio cara città, dove passai gli anni più belli della mia vita».

Nino Gardini

Testo tratto da 'Allegria goliardica bolognese ottocentesca' in 'Il Comune di Bologna', marzo-aprile 1939. Trascrizione a cura di Zilo Brati.