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Libreria Veronese

1888 | 2012

Di rilevanza storica

Schede

La Libreria Veronese di Bologna fu avviata da Francesco Veronese nel 1888, in occasione dell'VIII Centenario dell'Università. Di parola facile e di aspetto simpatico, cattolico fervente, egli arrivò a Bologna, con la moglie e una valigia piena di bibbie, dalla "malinconica terra di Rovigo". Presto cominciò a comprare e rivendere libri vecchi, girando la città con un carretto, finché ottenne un posteggio fisso sotto il portico della Morte, "ove già un altro libraio aveva la sua tenda".

Davanti al suo banco cominciarono a sostare, in cerca di occasioni, i personaggi più interessanti della Bologna di fine '800: tra essi Severino Ferrari, Corrado Ricci, Augusto Majani e tanti professori, da Gandino, a Acri, da Puntoni a Pesci. Alla sera i libri invenduti erano riposti in un vicino magazzino di pompe funebri. Andò quindi ad abitare con la famiglia in piazza Calderini, in un grande seminterrato di fronte al "Resto del Carlino". Vi entrava spesso qualche giornalista e tra essi Alfredo Oriani, "sempre un pò brontolone contro tutti". Si sedeva su una piccola sedia, con le gambe ripiegate, e raccontava, in dialetto romagnolo, "di certi suoi amori disgraziati". Prima della grande guerra il negozio di Veronese era in fondo a via Indipendenza. I goliardi lo frequentavano giornalmente e tra essi si ritrovava a volte Dino Campana. La signora Eva, la figlia maggiore del proprietario, ha ricordato come egli entrasse "con una richiesta sulle labbra; ma dopo essersi parzialmente espresso si tacesse, distratto, assente". Il poeta conosceva anche la sorella minore di Eva: vedeva sul suo volto adolescente il sorriso enigmatico della Gioconda, forse un presagio della morte prematura. Nel 1918 la libreria antiquaria trovò sede stabile in via dé Foscherari, in ideale triangolo con l'Archiginnasio e la Zanichelli. I Veronese, padre e figlia, cominciarono ad impegnarsi nel "travaglio del libro scolastico". Frequentavano il negozio studenti squattrinati in cerca di testi usati, ma anche studiosi come l'archeologo Edoardo Brizio o il direttore della "Gazzetta dell'Emilia" Ugo Pesci. Col tempo si specializzò nella vendita di libri rari e di pregio e di stampe antiche.

Dal 12 marzo 1922 la Federazione Acheonica Universale tenne, presso questa libreria, la direzione e redazione del suo giornale, "Il Gigante acheo". La Società degli Achei fu un sodalizio goliardico fondato dal dottor Ezzelino Magli nel 1920 tra reduci di guerra, senza altro scopo che quello di "stare allegri alla maniera dei buoni petroniani antichi" attorno a una tavola imbandita. Raccolse molti personaggi del bel mondo e dell'intellighenzia bolognese, tra i quali Ermete Zacconi, Alfredo Testoni, Dino Grandi, Augusto Majani, Albano Sorbelli. Tra le bislacche iniziative degli Achei vi furono la Proclamazione di Bologna città di mare, con gita in barca al laghetto dei Giardini Margherita e l'"invinamento" con il lambrusco dell'acqua del Nettuno.

Parecchi anni dopo il suo soggiorno forzato a Bologna, confinato dai fascisti per ragioni politiche lontano dalla sua "casa rossa" fiorentina, Piero Jahier ripercorse, assieme all'amico Romeo Forni - anch'egli scrittore ed ex ferroviere - i luoghi dove era solito sostare durante il percorso tra casa e lavoro o andando a casa di amici, quali Nino Bertocchi o Alessandro Cervellati: uno dei preferiti era senz'altro la libreria Veronese. Jahier amava i libri, era geloso dei suoi libri "conquistati col lavoro e col sacrificio di tutta la vita". Li aveva salvati durante la guerra portandoli con il sacco in spalla da Bologna a San Pietro in Casale, il paese in cui era sfollata la sua famiglia, e sotterrandoli dentro alcune casse. Passando davanti alle librerie sentiva che i libri gli spettavano, affermava "di averne come un diritto naturale". Quel giorno con Forni entrò alla Veronese e la gerente riconobbe subito l'ex capo divisione delle ferrovie: "In cosa posso servirla avvocato!" e sorrise l'anziana donna minuta, mentre allungava la manina scarna. Jahier la guardò buono e rispose che: "di libri, ora ne ho troppi e mi vengono per niente. Volevo solo salutarla... ringraziarla per i pagamenti lunghi". Commissario di premi prestigiosi come il "Viareggio", Piero Jahier riceveva ora i volumi di centinaia di autori concorrenti. E li leggeva tutti, che fossero famosi o meno.

Massimo Dursi così descrive il cambio di gestione alla Libreria Veronese nel 1961: "Eva Veronese, la libraia di via Foscherari, cede le armi e i libri. Lascia cauta la sua bottega, svezza adagio, dice che l’abbandonerà del tutto, ma non ci credo. Non c’è un altro libraio che abbia fatto il callo al mestiere, a sostituirla, bensì una signorina fresca di studi e di entusiasmi e sdegnosa - si vede - di salotti. Un bel caso, con tutto male che si va dicendo della gioventù moderna da parte della gioventù antica, che fu quella dei malestri. Nella cavernetta in fondo a via Foscherari (ricordo male, o era di fronte l’antichissima ora scomparsa osteria «Dell'offesa di Dio»?) si rifugian da più di mezzo secolo i libri cacciati di casa dagli eredi illetterati di pazienti studiosi, o da quelli squattrinati di biblioteche patrizie; vi trovan l’affetto che si deve alle cose ingiustamente abbandonate. Vengono offerte senza calcoli esosi ad altri amatori, i quali a loro volta, appena avviati al camposanto saranno spogliati da figli e nipoti motociclisti o amanti più delle carte da gioco che della carta stampata. Il compito non è soltanto vantaggioso, ma pietoso. Non basta l’interesse ad avviare alla compra e vendita dei libri vecchi, occorre vocazione; e mente provveduta per ridonare a cose disperse ed umiliate il valore che meritano. Da quanti anni Eva Veronese fa la libraia, prima col padre, e poi col marito, e ancora di nuovo sola? Dice sessanta, e non par credibile guardando questa donnina che si muove rapida come un fuso fra le innumerevoli trame dei libri che ha letto prima ancor di vendere. Sfidando tempi immaturi alle iniziative femminili, volle metter su bottega specialmente per poter leggere. Ritrovo questa libreria in tutti i crocicchi delle mie inquietudini ed entusiasmi giovanili; anche degli entusiasmi colpevoli. Cominciai a frequentarla, dandovi appuntamenti con banditi celebri e ladri gentiluomini. Di allora anzi non rammento se non queste letture. La scuola era una nebbiosa abitudine di cui ignoravo il senso e smarrivo la memoria, appena uscito dall’aula. Andavo agli esami senza saper quali fossero, chè l’uno valeva l’altro, ma fui promosso in condotta e, mi pare, in ginnastica. Mi affascinava da uno scaffale «Pasquale Bruno il re della vendetta». Riuscii a racimolare cinque lire e la Veronese legò in due pacchi le centodieci dispense che portai a casa sotto il paltò buttato sulle spalle e a buio fatto per passarla liscia. Pasquale Bruno venne invece sorpreso da mia madre quella stessa sera, appena riaccesi il lume, e credevo la casa addormentata. I centodieci fascicoli volarono per la stanza e forse anche dalla finestra. Per quanto mi affannassi a raccattarli piangendo al buio in ginocchio non riuscii più a rimetterli insieme. Ogni tanto, negli anni più saggi, ne ritrovavo qualcuno in strani luoghi e ve lo lasciavo con indifferenza crudele. Era passato poco tempo, ma gli anni per i ragazzi valgono lustri. Cercavo già altri libri su quegli scaffali. Mi aveva improvvisamente attirato la poesia e scrivevo sciagurati versi su cavalli bianchi e sestine satiriche. Poi la febbretta filosofica. Ogni sera alle sei, l’amico Renato ed io, urlavamo come ossessi per il Pavaglione, perchè le nostre idee non andavano d’accordo, ma anche solo per il piacere di discutere. Ci divideva il materialismo storico ma ci compravamo abiti gialli, cravatte gialle, scarpe gialle e calzoni a mezza gamba come cretini (Lire 49,90) perchè ci volevamo bene, e andavamo ad ingiuriarci nella biblioteca popolare sopra testi positivisti. Si finiva ancora dalla Veronese, a ronzare sui libri senza comprare. Si poteva farlo. La libraia aveva una pazienza intelligente, sapeva conoscere i clienti futuri che maturano le loro scelte in attesa che anche il borsellino lieviti. Non c’è nulla di più urtante di un libraio che appena si entra ti chieda: «Che cosa desidera?». Si cercano incontri fortunati, e imprevisti. Anzi è il gusto dell’imprevisto che ci attira sulle bancarelle. La «paghetta» di cinque lire - ma poi aumentarono fino a cinquanta - consentiva acquisti solo il sabato. Imparai ad aspettare con pazienza su quegli scaffali i libri che vedevo nelle vetrine del centro: sono piaceri negati ai ricchi. I libri usati - parlo di quelli che valgono - dà tenerezza portarseli a casa perchè si sa che furono amati, e quell’amore li accompagna anche quando chi li possedette dovè lasciarli per sempre. Non ho conosciuto ancora nessuno che nell’estremo bisogno abbia venduto prima i libri dei mobili di casa, se quei libri se li era «fatti» lui. So di avere molti spettri amici nel mio studio. La Veronese ne fu sempre circondata e da tempo ha imparato a corrispondere familiarmente con loro. I giorni di Pasquale Bruno erano lontani - ma i briganti non han smesso di interessarmi. Ora mia madre si preoccupava di vedermi troppo sui libri. Leggevo dunque ancora di nascosto infilando il braccio della lampadina sul letto dentro una manica della giacca e illuminando così solo la pagina. Tutte le scoperte che contano e che si fanno da giovani, le dovevo agli «sconti» della Veronese. Ma a quanti non è accaduto la stessa cosa? Non limitiamoci ingenerosamente alle scoperte che influirono sulla formazione intellettuale di gente «che firma». Hanno importanza pure quelle modeste, non insignificanti, che donano gioia o illusioni a gente senza ambizioni. «Usar arie di sufficienza con chi domanda libri mediocri è un voler umiliarlo» dice la Veronese. Non si trattano male i poveretti. C’è anche il rischio di offendere ricconi in incognito, come Augusto Righi che faceva qui ampie provviste di «Lord Lister», «Famtomas» e «Arsenio Lupin». La prima bottega della Veronese furono quattro assi su qualche cavalletto e molta tela juta in via d’Azeglio negli anni 1902-1907: libri a prezzi fissi da cinque, dieci, cinquanta centesimi ed altri a prezzi vari. Si risale dunque ai tempi favolosi dei centesimi e di Carducci e di Pascoli. Il pingue e mondano Panzacchi sfiorava gli scaffali con sguardo frettoloso, Olindo Guerrini con la barbetta. La Veronese trasmigrava in via Ugo Bassi, in via Indipendenza, in via Rizzoli e la seguiva «l’intelligenza» bolognese - che poi era in buona parte romagnola - irrequieta e bonaria nonostante i suoi Canti dell'Odio. Seguitò a darsi convegno nella tiepida cavernetta di via Foscherari indugiando fino a notte. Poi sono cominciate le emigrazioni, da quando la vita cittadina si è andata impoveren-do per l'impossibilità o l’incapacità di sostenere iniziative d’arte e di cultura che vanno a trapiantarsi o a smarrirsi altrove; per le seducenti promesse delle due Capitali che inaridiscono a poco a poco la provincia. Ma che a prender il posto di Eva Veronese sia venuta una ragazza dà conforto e fiducia”.

La Libreria Veronese di Bologna chiude nel 2012.

In collabotazione con Biblioteca Sala Borsa di Bologna.