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LA PIAZÂTTA - La Piazzetta

1945 | 1955

Schede

PUTÉ SRÉ I-ÓCC, UN MUMÈNT SOL,
E PUTÉ ARVDÉ LA MI CÀ,
E MI BAB E LA MI MAMA INSÈMM,
LÒ CHE PÈLA I PASAROTT
CUN AL SCHÈRPI ANCORA SPORCHI ‘D NEVA,
ASDÉ IN T’É CANTÒN DE CAMÈN,
LI A LÈ DA CANT
CH’L ARZIRA LA PULENTA IN T’E PAROL…
…ARSINTIR E CALOR DE FUGH
CH’L’È PU E CALOR DE COR...

(…Poter chiudere gli occhi, un momento solo / e potere rivedere la mia casa, / il mio babbo e la mia mamma insieme, / lui che spenna i passerotti / con le scarpe ancora sporche di neve, / seduto nel cantone del camino, / lei lì accanto / che rimesta la polenta nel paiolo… / …risentire il calore del focolare / che è poi il calore del cuore...)

Come sembra lontano il tempo in cui la nostra vita si svolgeva praticamente all’interno del nostro piccolo paese. Oggi tanti si sentono “cittadini del mondo”, ma allora … E anche all’interno della piccola Medicina, le vere “cittadinanze” alle quali si apparteneva intimamente erano quelle dei rioni, i quali costituivano dei veri e propri “microcosmi” con una spiccata identità rispetto ad altri consimili e distanti soltanto poche decine di metri. E non si creda che fossero differenze da poco. Erano origini diverse che avevano portato a vivere in certi quartieri piuttosto che in altri. Io abitavo in Via Mazzini, distante dal campanile della chiesa parrocchiale forse trecento metri, ma per andare in piazza si diceva “A vag a Migina”! Noi eravamo “i fuori dal castello”, quelli del borgo inferiore, operai agricoli o comunque lavoratori poveri, “gente da basto e da galera”, come si diceva. Ancora nel secondo dopoguerra il paese si può considerare diviso in sei “quartieri”, come si direbbe oggi: “Migina” (comprendente la piazza e le strade del centro, quello che era stato il vecchio castello), “l’Usarvènza”, la parte sud, verso l’ospedale, “al Starlén” , fuori centro, verso Bologna, “al Chè Lunghi”, lato sud-est, verso San Martino, “al Züg Balân”, a ridosso delle mura, fra il centro e le Case Lunghe, e finalmente “al Baurg”, la parte nord, fuori delle mura. Un po’ discoste dal paese c’erano due borgate: “La Barlàtta” (sulla San Vitale, dirimpetto a Via Mazzini), e “La P’sarina”, verso est, in fondo a Via XVI Aprile. E mentre “L’Usarvènza”, per esempio, era sempre stata considerata il quartiere un po’ più dei signorotti, per intenderci, “éd qui chi girévan in t’al pôrtgh éd saura”; al Baurgh era il luogo dei diseredati che aveva il suo vero e proprio ghetto in “Buci stronzi”. È evidente come già queste sei borgate dovessero essere spazialmente molto limitate, ma nonostante ciò possiamo identificare, all’interno di esse, delle “sottodivisioni”. Restiamo nel Borgo, che è quello che ci interessa.

Possiamo distinguere per esempio “Al Mazèl vècc”, assurto a dignità di borgata da quando nel 1925 fu costruito fuori del paese il Macello Nuovo e il vecchio, posto dietro al casamento denominato “Case Nuove”, di cui dirò successivamente, con una spesa di L. 98.000, fu trasformato in abitazioni popolari. Anche “Al Chè Nôvi” costituivano un’altra entità separata: erano un grande casamento a forma di ferro di cavallo costruite nel 1910-1911 nel terreno antistante il Macello e delimitato da Via Mazzini a est. Il Comune si era trovato nella necessità di alloggiare diverse famiglie bisognose ed abitanti in tuguri pericolanti e malsani oltre ad un certo numero di sfrattati di Portonovo. Ben 36 famiglie furono sistemate nella nuova costruzione anche se ogni nucleo familiare, per quanto numeroso, disponeva soltanto di una camera e di una cucina. I servizi “igienici” erano al centro del cortile, in comunione: quattro gabinetti e due lavanderie. Succedevano spesso liti fra le famiglie, perché i servizi erano veramente pochi, rispetto alle necessità. Si faceva la fila “p’r andèr a vudér l’urinèri” e per lavare la biancheria. Dimenticavo: a Medicina quando uno fa qualche grossa corbelleria, si usa dire in tono ironico: “Ohi, c’sa vut tör la mèn a l’inzgnir dal Chè Nôvi?”. Si dice infatti che l’ingegnere progettista, pressato dalla necessità di cavar fuori più alloggi possibile, nel progetto dimenticasse di considerare lo spazio per le scale e così al momento di realizzare la costruzione si dovettero rimpicciolire i vani. E pâ u-ïra la Piazâtta. Era un’entità “autonoma”, c’era tutto, negozi, artigiani, chiesa. Gravitavano attorno alla Piazzetta, oltre ovviamente ai caseggiati che si affacciano sulla piazza stessa (già Piazzetta del Borgo Inferiore, ex Piazza Giordani di anteguerra, l’odierna Piazza Cuppini), la Via Mazzini, fino all’inizio delle Case Nuove, Via X Settembre, e anche parte del portico nord di Piazza A. Costa, che non ha mai costituito una borgata. Dicevo, c’era di tutto: Piruccio e la Venusta avevano un negozio di casalinghi con anche un po’ di drogheria; il latte lo prendevamo da Rôsa, sotto il portico della strada di mezzo; sotto il portico di via Mazzini c’era anche un “granadlèr” , poi due stagnini, Morini e Luciano; Luciano faceva anche “al duzèr”; il forno era quello di Bassani, l’Argentona sotto il portico aveva una specie di “camerone” dove vendeva un po’ di frutta e qualche focaccia, Martlân vendeva le granaglie, dopo che ebbe rilevato l’esercizio di Colubriali; fra loro due c’era il barbiere, Giuvanân, al pèdar èd Tajagola; più tardi venne Lucio a fare il sarto e quando chiuse l’Argentona, Mino aprì la bottega da elettricista. Tempo dopo, al posto dal “granadlèr” venne Piruccio, che dopo la morte della Venusta si era risposato con la Iolanda, ch’la vgneva da Purnér, e trasferì qui la sua bottega. Dall’altra parte della strada, a fianco di Luciano al lantarnèr, venne Renato, ex dipendente Coop, con la macelleria. In fondo al portico, lato sud, di Via Mazzini, la Stèlla gestiva un bar gelateria. Le biciclette ricevevano riparazioni e “deposito” da Santén (Totti) e da Mentore (Brini), che si affacciavano proprio sulla piazzetta, e da Lino, cugino di mia nonna Lina, un po’ più lontano, sulla piazza Costa.

Grandi quantità di velocipedi venivano ammassate la sera e specialmente nei giorni di festa, anche attorno alla fontana. I primi ciclomotori ricevevano timidi interventi di riparazione da Santén, ad opera dei figli, o da Mentore, specialista il figlio minore Primén; mancavano sia la preparazione tecnica sia l’esperienza, ma, tènt, se al “mosquito” un va brisa, o l’è la curènt o l’è al “giglèr”, e così ci si limitava ad una spazzolata alla candela o ad una soffiata al vaporizzatore, inteso che, se il problema non si fosse risolto, bisognava rivolgersi “altrove”. Una vôlta, quènt ch’us’adruvéva al caväl, avévan ènch al fradaur, propri in t’la piazâtta; l’ultum al fô Zampina. E al dapmèzdé, quènt ch’ u gnira brisa di cliint, o a la sira d’estèd dapmagnè, a sédar asvén a la fnèstra, sô in ché su, al s’ésércitéva a sunèr al clarén, parché l’ira un bandèsta. I Malèndar, una numerosa famiglia di origine romagnola, avevano un magazzino di frutta e verdura; poco lontano, ma dall’altra parte, c’era l’osteria di Bèca e nello spazio a fianco della chiesa addirittura un teatro dove si proiettavano film e si teneva qualche rappresentazione: al teatar ed Ciaparoni. La nostra cisa l’ira qualla di fré e il medico era, una volta, Andalò che abitava alla Barletta. In via X Settembre c’era perfino una “fabbrica” di “grisu” e di sporte ed “pavira”, in t’al camarân di Péli. Via Mazzini l’avéva dè ènch un prit: al fiôl ‘d Colubriali. Quale magnifico esempio di piccola comunità! Inutile dire che i bambini costituivano una “banda” con forti legami fra i suoi membri: “qui d’la Piazâtta”. Difficile che qualche “forestiero” fosse ammesso, ricordo alcuni casi di temporanee provenienze dal “Züg Balân” (i fiü d’Armàndo, Gastone e Luigi, par esèmpi), ma erano una eccezione. I nostri rapporti con le altre bande erano ben definiti: alleanza con quelli dal Chè Nôvi, e così pure con quelli dal Baurg (anche se rispetto a quelli eravamo in una posizione un po’ subordinata), tolleranza cun qui dal Züg Balân, semibelligeranza con le Case Lunghe, inimicizia dichiarata con l’Usarvènza, guerra aperta ad oltranza cun qui dal prït. La “guerra con quelli del prete” assumeva a volte aspetti pericolosi. Si andava oltre i soliti scontri a sassate o agli “assalti” ai luoghi, “nel cortile dei preti”, dove costruivano le capanne che facevano loro da accampamento. Fu durante una di queste incursioni nel loro “territorio” che subimmo una sonora batosta. Avevano costruito il loro rifugio, novelli Tarzan, su di un albero. Qui con delle assi sapientemente collocate avevano formato, ben alto da terra, una specie di pavimento attorno al quale avevano eretto delle vere e proprie pareti. Questo era il loro nuovo rifugio. Una botola nella parte inferiore e un sistema di pioli e di corde permetteva loro di rifugiarsi velocemente entro questo fortilizio praticamente imprendibile. E dall’alto loro potevano “sparare” sugli attaccanti. Fu esattamente quello che capitò a noi. Dopo un lungo appostamento li avevamo sorpresi allo scoperto, ma quando ci lanciammo all’attacco, quelli come lampi sparirono sull’albero e noi, che non avevamo ancora visto quell’ultima invenzione, restammo sotto a guardare. A questo punto ci cadde addosso di tutto: acqua, polvere, erba, sassate… e a noi non restò altro da fare che ritirarci vergognosamente meditando vendetta. E la vendetta venne, puntualmente, alcune sere dopo. Di nascosto, usando un tubicino di gomma e aspirando con la bocca, avevamo tolto un po’ di benzina da alcune moto ferme davanti al Bar Sport. Avevamo riempito un paio di bottigliette e con quelle cospargemmo un bel po’ d’erba secca che avevamo ammassato sotto l’albero del “fortino” dopo che avevamo constatato che “il nemico” si era lassù ritirato a complottare. Il fiammifero, la benzina, l’erba secca di stagione, la legge fisica per cui il calore sale verso l’alto, ogni cosa fece il proprio dovere e l’imprendibile fortino si trasformò in una trappola. Urla pazzesche: dalla canonica uscì Don Vancini urlando anche lui e, brandendo una scopa, si mise a correre verso di noi. Di nuovo vergognosa fuga, mentre non avevamo ancora capito se Monsignore, con la scopa, voleva colpire noi o voleva cercare di spegnere il fuoco.

Al centro della piazzetta c’è una fontana, ora Fontana dei balenotteri, dopo che per iniziativa di un gruppo di affezionati fra i quali Bruno éd Santén e Bruno éd Patalôcc, al barbir, sono stati rimessi al loro posto alcuni bronzi, una volta asportati e sistemati nel giardino dell’ospedale. Proprio vicinissimo alla fontana c’era un pilone di ferro che reggeva un lampione che illuminava appunto la zona circostante. Sul retro del pilone, un piccolo sportello per il quale si accedeva ad una cavità dove erano collegati i fili elettrici che portavano, in alto, alla lampadina. Lo sportello doveva essere chiuso a chiave, ma non so per quale ragione, era sempre stato aperto. E noi, maledetti, ne avevamo escogitata una delle nostre: avevamo scoperto il filo di “ritorno” della corrente e lo avevamo appoggiato all’armatura di ferro. Il risultato era che, quando la luce era accesa, se toccavi il pilone, ti sentivi una leggera scossa elettrica che risultava molto amplificata se tenevi i piedi nel bagnato, cosa normale nelle immediate vicinanze di una fontana. La prova di abilità stava nel gettare un bussolotto d’acqua contro il pilone senza prendere la “scossa”. Era facile: bisognava gettare l’acqua di scatto e con forza, tirando nello stesso tempo indietro la mano, proprio come si fa nel gioco delle bocce, o del biliardo, per dare “effetto” alla palla. In questo modo, quando il fiotto d’acqua raggiungeva il pilone, aveva già lasciato il barattolo, e quindi la mano, e non si chiudeva il circuito. Se il lancio era lento, l’acqua veniva a contatto con il palo mentre ancora era in parte nel bussolotto e tu sentivi “il tirone”. Non era poi tanto pericoloso né tanto doloroso: si trattava di un attimo, poi il circuito si interrompeva. La cosa cambiò quando alcuni di noi, ad uno della “banda del prete”, dissero una sera: “Mè ‘ï scumèt che t’an t’atènt brisa a pisér cantr’al palân d’la lus d’la funtèna!” U-s’atinté! Negli assolati pomeriggi d’estate, i gradini della casa dove abitavo restavano all’ombra dell’edificio ed erano il ritrovo delle donne delle case vicine. All’ombra della casa nascevano lavori a maglia, si eseguivano rammendi e riparazioni varie agli abiti, si facevano tante chiacchiere. Le persone che passavano, o si fermavano o, per lo meno, mandavano una frase di saluto, ci si conosceva tutti. Ed erano sempre le stesse parole. “Oh, ti bèla alè?” “Cum stala tu mèdra?” Semplici domande alle quali bastavano altrettanto semplici risposte poiché trattavano di argomenti ben noti. Alla stagione giusta ogni tanto il grido della “Mâlla” che faceva il giro con la carriola (simile a quelle che si usavano in campagna per portare il letame) a vendere fette di zucca cotta al forno. Da lontano si sentiva la sua voce “V’gni a la zôcca!” e “Gigén Malla”, suo aiutante e portatore della carriola, un po’ “semplice”, ripeteva “…la zôcca!”. Mi piacevano quelle dolci fette di zucca, gialla e dolce come il miele. Uno dei sapori di allora, dei semplici sapori oggi diremmo “biologici”, come quello della fava di cui tanti miei amici erano ghiotti, ma che a me non piaceva, o dei “rusticani” ancor verdi ed aspri presi senza il consenso del padrone dell’albero (forse per questo parevano così buoni!).

Le donne ed i bambini più piccoli restavano lì, a sedere sui gradini, quasi sempre fino a quando gli uomini tornavano, in bicicletta, da lavorare. “Alaura, quènt gabanén aviv tajè incu?” Non c’era gente solo sui nostri gradini; di étar ruglètt erano alle Case Nuove, nella Piazzetta sui gradini di Carlina, o sui gradini ed Margarètta; sotto il portico invece l’Argentona all’inizio e Martlân prima dei gradini di Morini stavano seduti su una sedia fuori della loro bottega in attesa dei clienti o di un passante per fare due chiacchiere. Insomma tutta la strada era un gran macinare di notizie e di passa parola, altro che televisione! Qui la notizia era sempre in diretta. La vicinanza poi ai “depositi” di biciclette fuori delle botteghe dei meccanici, garantiva il capillare controllo dell’arrivo in paese di quanti venivano dalla campagna. La sera, specie al sabato o alla domenica, qualche bicicletta restava fino a tardi; allora i vigilanti del “deposito” si imbacuccavano con scialli o si infagottavano in coperte perché, tranne che in piena estate, veniva freddo. In quei momenti si facevano mille congetture sulla ragione del tirar tardi del possessore della bicicletta. Varie erano le ipotesi, ma alla fine si concludeva sempre nell’addebitare la prolungata permanenza in paese ad una relazione amorosa più o meno clandestina. A quei tempi, il vero santuario dei “biasanôt” era “Montecitorio”, come venivano chiamati i gradini della chiesa dei frati (del Crocifisso, n.d.r.), fuori della nostra zona, anche se molto vicino. La passeggiata andava da qui fino allo Sterlino (per i più giovani ed ardimentosi fino da Raggi) e ci si sedeva a riposare o a cercare un po’ di sollievo, qui tirava sempre un po’ d’aria, alla calura delle notti estive. Quanti altri ricordi per i quali occorrerebbero pagine e pagine di racconto, si affollano e si accavallano alla memoria. Sopra tutti aleggia però un comune denominatore, la “miséria”, intesa come scarsa disponibilità di soldi, ed il conseguente modo di vita, le acrobazie delle nostre donne per arrivare alla fine della settimana, quando si riscuoteva il magro salario del lavoro in campagna, quando c’era. Ricordo la mamma che mandava me o mia sorella da Renato a comperare delle fettine di carne: “Quatar bistichin: taili stili, ch’a fèn dal cutulâtt!”. Non ci credeva nessuno, ma si cercava di darsi un tono. In effetti poi quelle “bistecchine” spesso diventavano veramente delle cotolette, non per far un ricercato piatto, ma per farle aumentare un po’ di volume bagnandole nell’uovo sbattuto (le uova sono sempre state, almeno in casa mia, quelle che non sono mai mancate) e passandole nel pan grattato. E la “forma”? Non era sempre necessaria…, erano buone anche solo col pane!

In questo mondo non poteva mancare un po’ di superstizione, la speranza di un miglioramento futuro, che spesso si ricercava in una “smazzata” da Lucia, qualla dal chèrt, la nostra “chiromante” che abitava in fondo alla Via XVI aprile, alla P’sarina. È da ricordare che a la P’sarina c’era un quadrivio, un “incraus” come si dice in dialetto e proprio in un quadrivio, la notte della vigilia di Natale chi aveva il “dono” di saper leggere le carte o di “segnare” qualche malanno, poteva trasmetterlo ad un’altra persona. Si diceva anche che nelle notti di plenilunio mettendosi proprio in mezzo al quadrivio con un “forchetto” di legno appoggiato contro il collo si vedevano le streghe. Ma torniamo alle carte. Con il cuore in gola si seguiva la “stesa”: si tremava all’apparire delle carte che sapevamo già essere cattive: al tradiment, l’ingan, la mort…, ma per fortuna in ultimo appariva sempre “al fiurimènt”! Io andavo spesso con mia madre e mia nonna Lina da Lucia, erano molto amiche e così ci andavano forse qualche volta “in più della media”! Ma dalla Piazzetta vengono anche ricordi amari. Figlio degli anni della guerra, avevo spesso sentito parlare di morte e di morti nei racconti che inevitabilmente per molto tempo riempivano i discorsi di chi aveva passato quella bufera. Ma avevo una idea del tutto eterea della morte, non avevo mai visto dei “morti”. È vero, avevo visto la “Biânda”, la nostra vicina, ma era un’altra cosa: era morta di vecchiaia e pensando a lei mi veniva agli occhi una visione di pace, rivedevo il volto della persona morta quasi sorridente, come se fossa partita contenta, niente che somigliasse al racconto di dolore e di paura che avevo pur intuito quando si parlava di morte. Ebbi qui nella Piazzetta il primo incontro con la morte vera, quella non voluta, dolorosa, terribile. Avrò avuto forse cinque anni quando un giorno, un pomeriggio piovoso di fine estate, successe una disgrazia nella bottega di Bérto, al frab. Stavano lavorando alla costruzione di un carretto e, sempre per colpa della maledetta miseria, utilizzavano pezzi di ferro residuati bellici. Per fare i manici del carretto stavano saldando due tubi. Erano, come tante volte, due tubi di panzerfaust, i “bazooka” dell’esercito tedesco. Una volta che erano state sparate le testate restavano due semplici tubi, dritti e robusti che servivano ottimamente per mille impieghi. Quella volta mancava la testata, ma il tubo era ancora pieno del dirompente esplosivo: surriscaldato dalla saldatura il tubo scoppiò con una violenza inaudita scaraventando schegge tutt’intorno e colpendo le persone che lavoravano lì vicino. Bérto, il padrone della bottega, ebbe alcuni pezzi di ferro conficcati nel braccio e nella spalla, ma Martelli, il suo giovane “fattorino”, che era quello che stava saldando, fu colpito in pieno dall’esplosione. La violenza della deflagrazione lo buttò fuori dell’officina, in mezzo alla strada dove rimase immobile, morto sul colpo. L’esplosione fu fortissima, inequivocabile per chi aveva sentito, così poco tempo prima, innumerevoli di quegli scoppi, e in breve tutti furono alla finestra o in strada per vedere cosa fosse successo. La bottega di Bérto era forse a cinquanta metri da casa mia e anch’io e mia madre corremmo a vedere. Ricordo quel ragazzo, steso in terra, con il sangue che gli si raccoglieva intorno, con la pioggia che gli cadeva addosso. Il solito, l’onnipresente “Cadinèla”, la guardia comunale, lo coprì con un pezzo di telone, quasi per proteggerlo dalla pioggia più che per sottrarlo alla vista della gente. Era ancora un regalo della guerra, che si aggiungeva a quelli che avevano provocato numerosi altri feriti e morti, anche fra i bambini che maneggiavano imprudentemente ordigni che non conoscevano, ma che erano curiosi di tenere fra le mani.

Ricordo che per diversi anni ancora a scuola, nelle aule, avevamo appesi grandi manifesti colorati con la raffigurazione delle più comuni bombe ed ordigni esplosivi con una grande scritta: pericolo, non toccare. Nelle botteghe dei fabbri e dei meccanici avvenivano le nostre prime esperienze con gli utensili da lavoro, non solo martelli e seghe, che più o meno avevamo anche in casa, ma con morse, trapani, saldatrici. Erano quegli strumenti che, sotto la vigile assistenza dei “grandi” ci permettevano di costruire qualche “giocattolo” diverso dal solito pezzo di legno intagliato. Ero ancora molto giovane quando nella bottega del meccanico costruii la prima rudimentale carabina che “spruzzava” un pizzicotto di pallini da caccia spinti dalla carica di una minuscola cartuccia “Flobèrt” 6 mm. Ancora nella piazzetta, anche se ormai avevamo vent’anni, i primi lutti fra i nostri coetanei, quando in quella maledetta sera a Castel San Pietro in un incidente automobilistico morirono Marco, Guido e Silvano. Poco dopo toccò a Massimo, quando con la macchina finirono contro la colonna della chiesina di Poggio Piccolo. Poi, con gli anni, pian piano anche la piazzetta si dissolse, proprio come un mucchio di sabbia al vento. Sono tornati i balenotteri al loro posto, attorno alla fontana, ma sono “quelli della piazzetta” che mancano. Cosa mi resta oggi della piazzetta di allora? Qualche immagine: una foto sbiadita della madre di Mentore, il meccanico da biciclette, uno scorcio di via Mazzini… Nel cuore una montagna di ricordi belli, ma che sanno talvolta essere dolorosi quando si ripensa troppo a lungo a ciò e a chi è per sempre perduto.

Luciano Trerè

Testo tratto da "MEDICINA NEL CUORE... LA PIAZÂTTA" in "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 6, dicembre 2008.