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La cacciata dell'imperatore Barbarossa da Alessandria

1848 | 1851

Schede

Carlo Arienti (1801 - 1873), con La cacciata dell'Imperatore Barbarossa da Alessandria, esegue il suo capolavoro. Commissionato da Carlo Alberto per il Palazzo Reale di Torino insieme ad un'altro dipinto di Francesco Hayez, era un chiaro messaggio antiaustriaco. La grandiosa tela di 310x540 cm. fu commissionata con lo scoppio delle prime Guerre d'Indipendenza e l'artista decise di ritrarsi nella parte dell'eroe Galiando Aulari, mentre raccoglie delle pietre da scagliare verso il Barbarossa. Se da una parte questo particolare richiamava esplicitamente l'adesione di Arienti ai valori patriottici, fu viceversa visto anche come un gesto antimonarchico, cosa che gli attirò alcune critiche. Compiuta l'opera Arienti venne pagato nel corso di due anni con 22,000 lire. Il dipinto dovette essere realizzato solo dopo una lunga serie di studi e bozzetti: in collezione privata è conservato un dipinto di 38x59 cm. che probabilmente è la copia che l'artista aveva eseguito per sè stesso, come ricordo o per esporlo in occasioni pubbliche. Rispetto al dipinto di Palazzo Reale non vi sono differenze significative e quindi non può trattarsi di un bozzetto preliminare o di studio.

La grandiosa scena storica fu considerata da C. Rovere 'uno dei più notevoli capolavori della moderna pittura che adornino la Reggia, ove gli amatori delle belle arti lodano l'ottimo buon gusto della composizione, la viva espressione e la naturale movenza delle figure, e l'eccellente forza del colorito'. (in Descrizione del Reale Palazzo di Torino, Torino 1858). Nel volume 'Canti e prose' di G. Regaldi (Torino, 1861), così viene ricordata la commissione di Carlo Alberto che: nel 1844 commise all’insigne pittore della Brianza, a Carlo Arienti, di ritrarre Federico Barbarossa respinto da Alessandria, eleggendo la pittura ad essere messaggera delle battaglie nazionali, ch’egli maturava nel segreto della sua mente. Questo fatto, ricordando il gran tribuno Cola di Rienzo, che cinque secoli innanzi nel palazzo del Campidoglio con allegoriche pitture aveva ammonito il popolo romano, e preparatolo ai politici rivolgimenti, questo fatto traeva a sé i plausi e le benedizioni di Cesare Balbo. In un esemplare del famoso libro: Le Speranze d’Italia, donato dall’illustre pubblicista al sommo dipintore, nel capo undecimo, sul margine della pagina, ove l’autore esorta e commettitori e artisti ad eleggere soggetti patrii, io lessi scritte di suo pugno queste memorabili parole - «Io qui desiderava, e non più! Il Re e l'Arienti lo fanno. E come. Chi di noi non plaudirebbe a quella tela istoriata dall’Arienti, che in Torino adorna un’ampia parete del regale palazzo? In essa è rappresentata nel mille cento e sessantaquattro la città d’Alessandria, che soltanto contava sei anni di vita, e, si giovane, già forte, come l’Ercole delle età eroiche, era formidabile ai nemici d’Italia. Vi si vedono effigiati al vivo sacerdoti, uomini e donne, tutto il popolo con ogni sorta di armi assalitore del combattente Barbarossa, che torreggia su bianco cavallo fra la moltitudine dei nemici, circondato dai suoi guerrieri, i quali gli proteggono la persona e la fuga. Invano sotto l’elmo coronato la faccia di Federico sfolgora di satanico sdegno; egli è respinto dalla città, benché munita di una sola fossa. In mezzo a così terribile tumulto d'Italiani e di Tedeschi, l’Arienti sé medesimo ritrasse in un popolano dal berretto rosso, il quale colla mano sinistra ed al petto due pietre, e protendendo la destra a terra, dà di piglio ad una terza per iscagliarle contro il superbo Imperadore, a cui tien fisso lo sguardo pieno di nobile ira cittadina. L’artista segnò il suo nome in una di quelle pietre vendicatrici della patria, ond’egli si è fatto attore in quella gloriosa impresa, rinnovata ai di nostri più volte contro i nepoti di Federico, i quali dopo tante sconfitte, non ancora cessarono dall’oltraggiare alla nostra nazione. Ma la patria e l’arte compiranno il trionfo del nostro diritto.

Una descrizione dei personaggi che animano la tela è poi presente nel volume 'Orazione pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino' del 1849: si veggono e madri eccitanti i lor figli a ristorare il danno del genitore caduto; e spose accorrenti contra il tiranno per vendicar l'ucciso consorte: e mollaci, che sventolando la bandiera guelfa e confortando i feriti, si porgono religiosi e cittadini ad un tempo; e da quel viluppo di azioni, di affetti, di genti, ecco emergere, con felice pittoresca licenza, lo stesso imperador Barbarossa, che assiepato dagli scudi e dalle armi de' suoi fedeli, si apre a stento fra' nemici ferri una via e minaccia d'in sugli arcioni; minaccia, ma fugge.

Roberto Martorelli