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Carmelitani e comunità di Medicina

XVII - XIX secolo

Schede

La ricerca che ho condotto per la mia tesi di laurea è nata da una grande passione per la storia del mio paese. Avevo deciso: la mia tesi riguarderà un aspetto della complessa storia di Medicina ... ma quale dei tanti aspetti interessanti scegliere? La passione per la storia locale a quel punto si è intrecciata con l’interesse particolare per un periodo specifico della storia moderna: il Seicento.

Ad una analisi attenta della Cronistoria di Giuseppe Simoni si può ben cogliere che proprio tra Cinque e Seicento si collocano gli anni che videro interessanti e delicati mutamenti all’interno del castello medicinese. Attenzione, però, a non assimilare dal Simoni anche l’atteggiamento ‘medicinacentrico’: ciò che succede a Medicina ha un riscontro ben più ampio e si inserisce in un contesto vasto che ha le sue dinamiche complesse e che non nasce né finisce a Medicina. Tornando a noi... che cosa succede a Medicina negli ultimi decenni del Cinquecento? Quali sono le dinamiche che portano il ristretto gruppo di famiglie notabili medicinesi ad accentrare tutto il potere politico nelle loro mani e a permettere l’affermazione di un brillante gruppo di suoi figli ai gradini più alti di un Ordine Religioso? Quali le condizioni che hanno permesso alla Comunità di Medicina di vedere confermati dalle Rote Romane, nel corso di tutto il Seicento, gli importanti privilegi che la esentavano dalla sottomissione al Senato Bolognese? Sono stati un po’ questi gli interrogativi che mi hanno spinto a cercare la documentazione disponibile in grado di dare alcune spiegazioni. Ho così consultato tutte le carte disponibili presso l’Archivio di Stato di Bologna che riguardassero il convento dei Padri Carmelitani a Medicina, ho cercato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna possibili tracce di medicinesi con particolare attenzione verso i carmelitani. Inoltre ho cercato di capire quali fossero i legami di parentela tra le famiglie notabili ed i carmelitani ‘illustri’ che ebbero brillanti carriere; a questo scopo ho consultato l’Archivio Parrocchiale di Medicina dove, grazie alla disponibilità del Parroco Mons. Piazza, ho ricostruito gli alberi genealogici di alcune di queste famiglie.

Comunità e stato moderno nella seconda metà del ‘500 | Con il secolo XVI si assiste nell’Italia centro settentrionale all’affermarsi della struttura del cosiddetto Stato del Rinascimento. In particolare, sono tre gli aspetti che lo caratterizzano: la costituzione di eserciti permanenti, l’organizzazione di stabili strutture diplomatiche e una forte burocratizzazione centrale. La formazione degli Stati regionali è coincisa con una progressiva aggregazione di autonomie; spesso lo Stato riconosce autonomie tali che delega funzioni sue proprie nell’amministrazione della giustizia e fiscale. Al processo di rafforzamento del principe o della città dominante e alla creazione di strumenti di governo più forti ed incisivi ha corrisposto un continuo riconoscimento e legittimazione dei vecchi ordinamenti locali. Ecco perché quando si analizza l’affermarsi dello stato regionale si può ben parlare di una vittoria del contado: mentre prima i suoi privilegi erano continuamente messi in discussione, ora vengono confermati dal principe per ottenere l’appoggio politico. Questo fenomeno è particolarmente forte nelle zone di confine dei nuovi stati regionali, laddove poteva essere più difficile mantenere legate a sé delle realtà altrimenti insofferenti di un’autorità troppo forte. La scelta di conservare gli antichi privilegi era l’unica che potesse puntellare l’instabile autorità della stato regionale, che vedeva crearsi in sé una sorta di “dualismo”: da una parte il potere centrale del principe o della città dominante, e dall’altra una serie di realtà territoriali che avevano rinunciato alla loro indipendenza, ma non ai loro privilegi. Non si trattava di uno stato unitario, bensì di un sistema caratterizzato da una durevole frattura tra città dominante e territorio, tra ‘centro’ e ‘periferia’, solo apparentemente superata dall’alleanza tra il patriziato cittadino e le oligarchie delle città soggette. Attorno alla metà del XVI secolo la ricerca di una diversa base di consenso per il principe si persegue mediante un’ampia distribuzione di privilegi tra le popolazioni rurali, che non può certo essere definita ‘moderna’. La forza e la consistenza dei nuovi stati si basano essenzialmente sull’accordo e sulla divisione di ambiti e di competenze tra il principe ed i vecchi e nuovi nuclei di potere locale. L’affermarsi dello stato regionale è una continua conferma di antichi privilegi in cambio di una soggezione concordata col principe. All’interno del ‘nuovo’ stato trovano conferma antichi privilegi, sia quelli del feudo, anche se ridimensionato per le sue pretese di piena autonomia, che i privilegi dei borghi semi-urbani dell’Italia padana, a cui è riconosciuta una certa autonomia dalla città. Nella lunga fase di ridefinizione degli stati regionali molti borghi e terre hanno modo di organizzarsi con importanti iniziative politiche, e riescono a rivendicare e a farsi concedere una notevole autonomia, spesso definendosi immediate subjecte o alla Santa Sede o all’Impero, in modo da rendersi autonome dalle città a cui avrebbero dovuto sottomettersi. Le cariche degli ordinamenti locali si distribuiscono quasi dovunque all’interno di oligarchie ristrette, che a loro volta elaborano complicati meccanismi non solo per escludere i ceti ‘popolari’ dal governo, ma addirittura per controllare l’accesso alle cariche pubbliche ed impedire il più possibile il ricambio sociale. Sono questi gli anni delle ‘strette’ di quasi tutti i consigli o collegi cittadini o comunitativi che creano una ristretta classe politica capace di monopolizzare la gestione del potere con l’appoggio del principe o della città dominante.

Stato pontificio e carriere ecclesiastiche | Tra XV e XVII secolo il numero dei religiosi aumentò sensibilmente e in maniera costante in quanto si assisteva ad una clericalizzazione dell’apparato burocratico che coincise con l’invasione da parte dei Religiosi di tutti gli ambiti di gestione o amministrazione burocratica. Dalla metà del Cinquecento non fu più possibile ricoprire cariche importanti senza fare parte del clero. Si verifica un profondo intreccio tra carriere religiose e carriere secolari. Ciò ha comportato un dominio della gestione politica da parte di un’aristocrazia clericale. Per tutte le realtà che dovevano difendere delle prerogative di privilegio o comunque di interesse divenne necessario, quindi, intrattenere rapporti privilegiati con personalità del clero. Si era passati dall’uso delle armi come difesa delle prerogative, all’utilizzo dell’intermediazione di esponenti del clero sufficientemente autorevoli per difendere politicamente e diplomaticamente le questioni aperte. Anche le “quasi-città”, quei centri cioè che si riconoscevano autonomi dalla dominazione della città vicina, compresero che il riconoscimento della validità dei propri privilegi dipendeva da un’oculata difesa di questi presso gli organismi romani, compiuta da personalità che dovevano essere il più vicine possibile ai luoghi decisionali. La stessa politica intrapresa dal papato nel corso del Cinquecento non fu affatto contraria alle realtà di privilegio che esistevano sul territorio; essa mirava, invece, a fare in modo che queste realtà fossero controllate e gestite da una ristretta cerchia di famiglie in contatto o comunque in rapporto con la curia romana. Nella seconda metà del Cinquecento il fenomeno della creazione di oligarchie che gestiscono il potere locale si verifica anche nei piccoli centri del contado che, in maniera particolare nello Stato Pontificio, hanno conservato buona parte dei loro antichi privilegi. Queste immunità riconosciute ai piccoli centri, di solito situati in terra di confine, o comunque vicini a grandi città, sono di notevole sostegno al governo centrale per un controllo della sfera di influenza delle varie città. La curia romana spesso riconosceva il privilegio ad alcuni castelli o borghi di essere immediate subjecte alla Santa Sede, così da porre qualche difficoltà al dilagare delle pretese della città più grande, che magari a sua volta godeva di particolari autonomie rispetto alle istituzioni dello Stato. Si viene così a verificare una singolare alleanza tra centri minori e governo centrale che permette un ridimensionamento del potere dei ceti ricchi delle città. Con il fenomeno tutto cinquecentesco del rafforzamento delle oligarchie cittadine i rapporti di parentela venivano ad acquistare un’importanza ancora maggiore che negli altri secoli. Proprio nei secoli che a noi interessano, il XVI e il XVII, troviamo una nuova concezione della nobiltà, sempre più legata alla nascita e all’idea di appartenenza all’aristocrazia solo per legami di parentela, a scapito delle virtù militari che invece fino ai primi del Cinquecento conservavano la loro importanza. Il XVI secolo rappresenta un punto di svolta anche per la storia della famiglia: alla chiusura dei ceti oligarchici corrispose un modello di relazione di parentela verticale, definito dalla successione maschile. L’orgoglio di appartenenza al casato e la sua legittimazione alla gestione del potere si fondavano sull’antichità delle origini. Tuttavia, nella vita di tutti i giorni pare che i rapporti cognatizi fossero mantenuti vivi e considerati di una certa importanza. Grazie a recenti studi è stata rivista la rappresentazione della donna come passivamente sottomessa al dominio maschile, e si è notata una sua capacità di iniziativa nelle scelte familiari. In particolare per quanto riguarda il definirsi di una “aristocrazia ecclesiastica” nello Stato Pontificio il ruolo delle parentele sia paterne che materne risulta fondamentale; tutta la parentela è mobilitata per ottenere al giovane candidato designato a ricoprire importanti cariche il massimo prestigio possibile, che, se si otterrà, porterà vantaggi a tutti i componenti della famiglia. In particolare nella carriera ecclesiastica, accanto alla relazione tra padre e figlio, si sviluppa una linea di successione “obliqua”, tra zio e nipote. Ciò che la differenzia dalla filiazione diretta è che non privilegia necessariamente i nipoti patrilineari, ma è spesso attiva su entrambi i lati della parentela, per i figli dei fratelli e delle sorelle. Nello Stato Pontificio dagli ultimi decenni del Cinquecento in poi, la carriera ecclesiastica diviene necessaria per qualsiasi famiglia che voglia conservare i propri privilegi, ma anche nel caso in cui chi volesse difendere le proprie prerogative non fosse una famiglia, ma una comunità. Così come nelle famiglie ogni prelato trovava tra i suoi parenti il nipote che potesse succedergli, così all’interno dell’oligarchia delle comunità che godevano di particolari privilegi si cercava chi possedesse le capacità di ascendere all’interno di una struttura ecclesiastica (spesso un Ordine Religioso) per poter difendere e far valere in posizioni di maggior prestigio le proprie prerogative.

La Comunità di Medicina | È in questo contesto storico che si inserisce la vicenda della Comunità di Medicina in cui proprio negli anni a metà del XVI secolo, precisamente nel 1567, il gruppo di famiglie più ricche ed influenti compie la ‘stretta oligarchica’ del Consiglio che gestiva i beni della Partecipanza, definendo il titolo di consigliere vitalizio ed ereditario. La situazione di Medicina all’interno del contado bolognese e in relazione al rapporto tra Bologna e Roma rispecchia precisamente le caratteristiche che abbiamo sopra descritto. Negli anni tra la fine del Cinque e i primi decenni del Seicento si viene ad instaurare tra Medicina e la capitale dello Stato Pontificio un’alleanza particolare con lo scopo di controllare e limitare il potere di cui godeva la città egemone, in questo caso Bologna, grazie ai suoi secolari privilegi ed autonomie. Nella monarchia papale, infatti, Bologna godeva di uno status particolare e si comportava in modo politicamente conseguente; essa aveva con la Santa Sede un rapporto che si basava sull’idea di un “contratto” che vedeva nell’atto bilaterale dei Capitoli di Nicolò V la sua esemplificazione. In questi stessi anni Medicina, agevolata dalla favorevole situazione storica, andava riscoprendo quelle autonomie dalla città di Bologna che risalivano al XII secolo, e che fino a quel momento erano state quasi totalmente disattese. I ‘comunisti’ medicinesi componenti del Pubblico Consiglio hanno giocato bene le loro carte in questo contesto, comprendendo la necessità di avviare qualche giovane appartenente alle proprie famiglie alla carriera ecclesiastica, in modo da cercare una strada privilegiata di rapporti tra la Santa Sede, a cui Medicina si riteneva immediate subjecte, ed i membri della Comunità. Nell’individuare gli elementi che permisero di definire i rapporti tra potere centrale e potere locale, che assecondarono od ostacolarono l’affermazione dei privilegi, non si può non considerare la particolare presenza del potere del clero. Dal rapporto tra gruppo dirigente, ossia oligarchia di governo, e clero locale dipende la possibilità di questa comunità di fare conoscere i propri problemi e ottenere dal governo centrale la conferma dei propri privilegi e quindi delle proprie ricchezze. Nel Seicento in particolare gli Ordini religiosi diventano facilmente luoghi di potere all’interno delle comunità, e non solo per le ricchezze che riescono ad accumulare, ma perché si inseriscono meglio nelle strutture ecclesiastiche locali, condizionando spesso le scelte non solo del vescovo, ma anche di più alti prelati a seconda della capacità di influenza. Si può quindi affermare che la via della carriera ecclesiastica, in particolare interna agli ordini religiosi, era la via privilegiata per una comunità intenta ad ottenere influenza presso il governo locale e centrale. In alcuni casi i rapporti tra ordini religiosi e oligarchie della comunità non erano affatto positivi, in altri casi, invece, tra religiosi e famiglie ‘notabili’ c’era un legame strettissimo, non solo politico, ma anche di parentela. È il caso di Medicina, in cui vediamo tra gli anni ‘80 del Cinquecento e tutto il Seicento un fitto intrecciarsi tra famiglie ricche componenti l’oligarchia di governo e il locale Convento dei Carmelitani, voluto proprio nei primi anni ‘60 dal Consiglio della Comunità, con l’appoggio delle famiglie abbienti del castello. Da questa scelta strategica la Comunità, ed in specifico, le famiglie più ricche, ebbero presto dei vantaggi diretti: due priori generali dell’Ordine carmelitano nella prima metà del XVII secolo, e altri due nella seconda metà. Essi seguirono sempre con attenzione la vita e le vicende politiche della propria “patria”, collaborando in maniera fondamentale alla conservazione dei privilegi e delle libertà di cui la Comunità di Medicina godeva e per cui condusse lungo tutto il Seicento una lite giuridica con il Senato di Bologna presso i tribunali romani. Questo è precisamente ciò che avvenne a Medicina, in cui la Comunità, impegnata a difendere i propri secolari privilegi, sostenne ed agevolò i suoi figli carmelitani, in modo da vedere difese a Roma le proprie prerogative contro Bologna. Anche i frati si comportarono secondo l’atteggiamento che abbiamo visto imporsi nel XVI secolo: i padri che raggiungevano importanti gradi all’interno dell’ordine facevano il possibile per agevolare i giovani medicinesi, arrivando addirittura all’atto di “rinuncia”: Emilio Jacomelli, vicario generale dell’Ordine, nel 1680 rinunciò ad una probabile elezione a priore generale per facilitare l’elezione dell’altro medicinese Ferdinando Tartaglia.

Famiglie, parentele e carmelitani | Per verificare se effettivamente esistevano dei legami di parentela tra i carmelitani ‘illustri’ e le famiglie notabili medicinesi ho messo a confronto alcuni documenti: – il manoscritto di padre Angelo Maria Morelli Notizie spettanti al convento e padri carmelitani della Terra di Medicina in cui l’autore ha minuziosamente elencato tutti i nomi dei medicinesi che entrarono in convento dalla data di fondazione (1561) al 1792; – un altro manoscritto, questa volta del medicinese don Evangelista Gasperini, Series sive catalogus dominorum Patrum defunctorum Publici Consilii Medicinae, conservato nell’Archivio Parrocchiale, in cui sono raccolti i nomi e le date di morte dei componenti il Pubblico Consiglio dal 1600 al 1742; – infine ho consultato i libri dei Battesimi, dei Matrimoni e dei Morti, dell’Archivio Parrocchiale di Medicina. I Battesimi datano dal 1566, i Matrimoni dal 1582, mentre i Morti solo dal 1604. Consultando e comparando questi documenti ho potuto ricostruire gli alberi genealogici di sette famiglie che ho ritenuto più importanti per lo scopo della mia ricerca. Tramite la ricostruzione degli alberi genealogici delle famiglie: Jacomelli, Fontana, Bonfiglioli, Boschi, Carati, Dalla Valle ed Astorri, ho dimostrato come i carmelitani che raggiunsero i più alti gradini dell’Ordine fossero parenti tra loro in maniera assai stretta. Non solo, ma è emerso chiaramente che essi appartenevano alle famiglie che in quel periodo detenevano il potere politico a Medicina. In questa sede non è possibile, per motivi di spazio, riportare né gli alberi né tantomeno la loro descrizione che risulterebbe assai noiosa. Basti il fatto che ho ricostruito la parentela tra ben quindici padri carmelitani che nel corso del Seicento ricoprirono importanti incarichi all’interno dell’Ordine.

Ferdinando Tartaglia | Per dimostrare, invece, il ruolo effettivamente svolto dai carmelitani medicinesi a difesa delle prerogative medicinesi a Roma, ho analizzato ed approfondito lo studio della figuradell’ultimo dei quattro generali medicinesi dell’Ordine: padre Ferdinando Tartaglia (1626 - 1682). Sono assai numerosi i documenti che dimostrano il costante interesse del Tartaglia per le vicende del suo paese natale. Tra i documenti dell’Archivio del convento carmelitano c’è addirittura un cartone che titola: Diversi documenti manoscritti e a stampa riguardanti alla Comunità di Medicina per le pretensioni promosse da questo convento contro il Senato di Bologna, nonché alcune patenti e Bolle Pontificie. Dal titolo si deduce immediatamente la portata dei documenti conservati, la maggior parte di questi appartennero al Tartaglia, il quale dimostra di aver seguito con grande attenzione le vicende medicinesi, tanto che partecipa a numerose riunioni a Roma negli anni che vanno dal 1660 al 1680 con gli avvocati della causa medicinese e gli “agenti” medicinesi a Roma. Non solo, ma padre Tartaglia è il primo che verso la fine degli anni Settanta tenta una ricostruzione cronologica delle vicende politiche medicinesi. Egli scrisse un Memoriale della fondazione di Medicina in cui ricostruisce la storia di Medicina partendo dal Medio Evo, ma lasciandolo poi incompiuto per la morte sopraggiunta nel 1682. L’intenzione dichiarata del Tartaglia era quella di raccogliere la documentazione necessaria per facilitare il lavoro degli avvocati difensori la causa medicinese a Roma. Presso l’Archivio Parrocchiale è conservata una copia del memoriale manoscritta da Evangelista Gasperini nel 1723, che dichiara di averla ricopiata dall’originale in possesso del convento. Inoltre presso la Biblioteca dell’Archiginnasio sono conservati alcuni brani del memoriale scritto dal Tartaglia. Possiamo dire, quindi, che la prima cronistoria medicinese è stata scritta dal padre Tartaglia, con l’obiettivo principale di dimostrare l’origine e sostenere i diversi privilegi di cui godeva Medicina. Egli affrontò, infatti, i punti nevralgici della storia della Comunità, cioè quelli che vanno da Matilde di Canossa a Federico Barbarossa, con una brevissima parentesi sugli “Accordi del 1411” che furono il fondamento della battaglia per l’autonomia. Ad ulteriore conferma del frequente contatto tra il Tartaglia ed i medicinesi ho potuto studiare alcune lettere che il carmelitano spedì ai componenti del Pubblico Consiglio di Medicina conservate presso l’Archivio di Stato di Bologna; esse sono relazioni approfondite sulla situazione della causa medicinese oppure consigli su come sia più opportuno comportarsi delle diverse situazioni.

Mi rendo conto che in questo breve spazio forse non sono riuscito a spiegare come avrei voluto il contenuto di una ricerca che mi ha assai appassionato. Certo sarebbe molto interessante poter approfondire ulteriormente l’argomento che ho affrontato; in particolare la consultazione dei documenti conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Medicina, che a me non è stato possibile consultare, penso possano testimoniare importanti novità sul legame tra il Pubblico Consiglio e i carmelitani a Roma.

Enrico Caprara

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, marzo 2002.