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Arciere Scita della Certosa di Bologna

450-440 a.C.

Schede

Gli Etruschi furono dei grandi bronzisti. Ce lo attestano, con le fonti letterarie, i monumenti archeologici, numerosi, noti ed importanti. A Felsina poi la tradizione della metallotecnica era antichissima: dalla fase Benacci II della civiltà villanoviana il bronzo, tirato in lamine con abilità, era stato usato con molta frequenza per creare una serie vasta e varia di utensili, e la simpatia per questo materiale duttile, duraturo e scintillante si conservò, anzi si accentuò, durante tutta l'età etrusca con la completa padronanza anche della tecnica della fusione. Vicino alle delicate bicromie delle ceramiche attiche rallegrava il luccicare delle ciste, delle situle, degli attingitoi e dei colatoi e infine dei candelabri di bronzo. Di tutti questi materiali le necropoli felsinee hanno restituito una numerosa e pregevole messe; ci soffermeremo in questa sede su di un solo pezzo, fra i tanti ancora in attesa di pubblicazione o meritevoli di un nuovo esame: il candelabro della tomba n. 43 della necropoli della Certosa.

La perizia dell'artigiano curava, in questa serie di oggetti, con particolare amore, la bella fusione degli steli snelli, sorretti da un treppiede sinuoso solidamente piantato su zampe grifagne e recante in alto i bracci ricurvi dalle gentili terminazioni liliacee, ove il pistillo prolungato serviva a traffiggere e reggere la face. La grazia dell'ispirazione vegetale si conservava così presente in tutta la elegante struttura. Ma la raffinatezza andava oltre: il bell'oggetto si completava di un coronamento che o serbava nella foggia a bocciolo, a giglio, a tulipano stretta aderenza con l'origine fitomorfa del supporto o con la figuretta schiettamente simbolica del gallo puntualizzava il valore pratico dell'utensile, o, finalmente, si staccava da tutti questi legami, per dilettarsi di immagini umane in cui poteva applicare a suo modo naturalmente l'insegnamento sempre ammirato dell'arte greca. E il repertorio ellenico, noto soprattutto attraverso le ceramiche attiche, di così larga importazione, già ripreso, nell'Etruria propria, per decorare gli ipogei di pitture o le urne e i cippi di rilievi, e ripetuto, nella regione padana, seppure con una libertà ancora maggiore di interpretazione, nella serie monumentale delle pietre funerarie, ritorna in una rielaborazione più sommessa, ma non meno significativa, anche nei coronamenti dei candelabri. Atleti, offerenti, danzatrici, appaiono qui come nelle pitture di Tarquinia, nei rilievi chiusini e nelle stele felsinee: fra tutti la figuretta di cui vogliamo occuparci che palesa come e forse meglio di altre l'influsso presente della Grecia. Sul treppiede a branche ricurve desinenti in zampe artigliate e perlate sotto cui è un giro di astragali adorno in alto di un anello bacellato si drizza l'asta rastremata e strigilata. Essa regge, al di sopra di un disco convesso di lamina, la cima: un cilindretto a tre tori di cui quello centrale decorato con un giro di perline, i quattro bracci ricurvi che terminano nei portafiaccole a fiore di giglio stilizzato, una basetta a semplice disco modanato su cui posa il bronzetto terminale.

Rappresenta questo un arciere. Posa sul piede sinistro, mentre il destro, retratto, appoggia la sola punta, creando un senso di bilanciamento che desta l'impressione di una figura in movimento, impressione accentuata dal largo gesto delle braccia. La destra, infatti, è tesa in avanti e la mano impugna l'arco; la sinistra invece è ripiegata all'altezza del petto, contro la faretra, e la mano chiusa a pugno è in atto di tirare la corda. L'arciere veste una corta tunica ricoperta quasi interamente da una corazza ad ampi spallacci arrotondati, che termina inferiormente con le pteriges. Le gambe, per la loro rotondità e mancanza di qualsivoglia definizione di muscoli - consueta agli Etruschi nella trattazione degli arti inferiori - fanno pensare ad un rivestimento aderentissimo e abbastanza consistente da uniformare la superficie. Sotto il braccio sinistro è la faretra ornata di cerchielli a punzone così come la corazza; il copricapo appuntito, posteriormente diviso in due bande, è invece decorato a squame, sì da rendere l'idea di una pelle. Nel volto dai lineamenti segnati a larghi tratti spiccano enormi e contornati gli occhi. In questo bronzetto, uno dei più riprodotti del gruppo bolognese, già interpretato dal Dennis come “Paris, drawing his bow” e dal Martha come a Hercule armé de son arc, si può riconoscere con sicurezza, sulla base di probanti confronti, un arciere orientale. La mitra sul capo e le anaxyrides alle gambe sono infatti elementi tipici dell'abbigliamento dei famosi arcieri sciti o persiani, la cui tipologia in atto di saettare è abbastanza frequente nell'arte greca arcaica; il maggior esempio scultoreo è senza dubbio nel frontone di Egina, ove peraltro la figura è inginnocchiata. Ma è alla pittura, e alla pittura ceramica come si è detto, che dobbiamo rivolgerci per cercare i modelli accessibili agli artigiani etruschi.

Può parere strano questo processo, per cui il disegno si fa plastica, ma non lo è, se si pensa che la visione artistica degli Etruschi, e quindi la caratteristica forse più spiccata della loro produzione più genuina e uno dei segni distintivi "etruschi" di quella elenizzante, è il senso stereometrico, nato da una istintiva sensibilità per i valori spaziali. Anche il modello pittorico acquista presso di loro, assai facilmente, consistenza plastica: e il caso del nostro arciere non è neppure uno dei più vastamente documentati. Questa tipologia, infatti, pur piuttosto consueta alla ceramica attica a figure nere, non appare più così spesso nella fase arcaica della tecnica a figure rosse, cedendo man mano il posto alla rappresentazione, simile, delle figure di amazzoni, che diviene frequentissima nel periodo polignoteo. Di conseguenza gli etruschi, non riuscendo a giungere ad una stretta familiarità con questo tipo, più estraneo di altri alla loro mentalità, perchè difficilmente riconducibile al loro patrimonio mitico, non lo riprodussero con la frequenza consueta ai temi del tutto assimilati, seppure con inevitabili adattamenti, del kouros e della kore, delle menadi e dei sileni, di Ercole e degli atleti, di cui la ceramica continuò, in ogni periodo, a fornire copiosissimi modelli. L'arciere scita o persiano si era perso invece, quasi del tutto, nella tipo logia affine dell'Amazzone, e se la bella kylix attica a figure rosse dei primi decenni del secolo V a. C., firmata da Pheidippos, ci presenta ancora un arciere orientale in un atteggiamento analogo a quello del nostro, noi notiamo peraltro che l'abbigliamento nel bronzetto etrusco, ha subito delle varianti, si è contaminato con porzioni della panoplia greca, così come era successo in numerose scene di Amazzonomachia, presentate da vasi greci. L'armatura a spallacci, che compare frequente in figure di guerrieri sia nell'arte greca che, di conseguenza, in quella etrusca, si sovrappone al costume orientale, mostrando, nel rendimento accurato dei particolari interni decorativi, esteso anche al copricapo una minuzia in palese, e molto «etrusco», contrasto con la sommarietà dei tratti generali. Il miglior confronto per la testa è un'ambra del Museo Civico di Bologna, sempre da una tomba della Certosa, in cui, nel profilo inciso, ritroviamo con esattezza il particolare rendimento dei lineamenti marcati, dei grandissimi occhi contornati. Tuttavia a tale ambra andrebbe attribuita - sulla base del corredo della deposizione cui appartiene, ove figura una tarda lekythos a figure nere una data anteriore a quella del nostro bronzetto, che pur con persistenze di arcaismo, per lo schema movimentato, libero dalla gravitazione, va collocato non prima della metà del secolo V a. C., datazione avvalorata dall'unico pezzo che costituiva, con il candelabro - e con un cippo - il corredo di questa tomba: un bel cratere attico a campana a figure rosse, attribuito al Pittore di Monaco 2335 e perciò assegnabile al 450-440 a. C..

Il nostro bronzetto trova inoltre perfetto riscontro in un altro, sempre del Museo Civico di Bologna, già nelle collezioni Universitarie, di ignota provenienza, appena maggiore di altezza, mutilo dell'avambraccio sinistro scialbo. Vivacissima è invece, nel bronzetto della Certosa, l'espressione del movimento, nell'atteggiamento insieme di forza e di grazia, mentre l'accentuazione degli occhi e soprattutto la sproporzionata grandezza delle mani concentrano con immediatezza la nostra attenzione là dove l'artigiano ha istintivamente sentito e sottolineato il fulcro dell'azione; perchè, pure in questa piccola opera, forza dinamica ed espressionismo, risultano le caratteristiche che, con il nativo senso della spazialità, conferiscono, anche alle invenzioni tipologiche più squisitamente greche, l'inconfondibile sapore etrusco.

ROSANNA PINCELLI

Testo tratto da "L'Arciere Scita della Certosa", in "Strenna storica bolognese", 1957. In collaborazione con il Comitato per Bologna Storica e Artistica.