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Lucia Sabbioni, superstite dell'eccidio e partigiana della Stella Ross

Schede

Avevo appena 14 anni quando nel settembre 1944 fu attuato l'eccidio a Marzabotto. Vivevo con la mia famiglia in frazione Gardelletta. Eravamo undici, papà, mamma, due nonni e sette figli (cinque femmine e due maschi). Quando iniziò la strage non eravamo più a Gadelletta, perché la casa era stata danneggiata da un bombardamento, e ci eravamo trasferiti al Possatore, una casa di montagna, in frazione Casaglia.
La mattina del 29 settembre, verso le otto, ci accorgemmo che poco distante da noi vi erano delle case che stavano bruciando. A prima vista non riuscimmo a capire di che si trattasse poiché la giornata era molto brutta e c'era una nebbia fittissima. Però subito sospettammo, senza esserne certi, che si trattasse di una azione dei tedeschi, tenuto conto anche del fatto che tutt'attorno c'era una brigata partigiana, la "Stella Rossa", con la quale i tedeschi avevano già avuto degli scontri.
Poi ci accorgemmo che moltissimi tedeschi armati, con cartucce a tracolla, e molti mitragliatori, stavano salendo verso la nostra casa. Dentro eravamo più di trenta persone. Visto il pericolo ci trovammo tutte d'accordo di abbandonare la casa per rifugiarci nella chiesa di Casaglia che era già tutta piena. Evidentemente altri sfollati e contadini dei dintorni avevano avuto la stessa idea. Il parroco di Casaglia, Don Ubaldo Marchioni, era sull'altare e stava officiando la Messa del mattino. Giunti in chiesa ci sentimmo più sollevati: non potevamo sospettare che i nazisti compissero una strage dentro un luogo religioso. Seguimmo tutta la messa, attendendo ciò che sarebbe accaduto. Dalle finestre della sagrestia notai, insieme ad altri, che le colonne tedesche si stavano avvicinando; poco dopo i tedeschi entrarono nella chiesa e ci dissero subito di uscire tutti sul sagrato. Noi uscimmo, ma nella chiesa restarono il parroco e una giovane donna paralitica, Vittoria Nanni. La paralitica non poteva muoversi e i tedeschi allora la picchiarono coi calci di fucili e poi le spararono e la uccisero in chiesa. Il parroco fu ucciso sull'altare e decapitato: a fianco della sua testa misero un cartello con la scritta: "Ribelli, ecco la vostra fine".
Fuori, nel sagrato, noi attendevamo, accerchiati dai tedeschi con le armi in pugno. Poco dopo ci sospinsero verso il cimitero, che era poco distante dalla chiesa, con l'intenzione di farci entrare. Il cancello del cimitero era chiuso, allora lo abbatterono e ci fecero entrare tutti. Io, che fino a quel momento speravo che ci avessero rastrellati per inviarci in campo di concentramento, perdetti allora ogni speranza ed ero ormai convinta che ci avrebbero massacrati. Infatti, appena dentro, misero a fianco della porta due mitragliatici, una pesante e una leggera, e poi cominciarono ad aprire il fuoco, lanciando anche bombe a mano. Noi ci schiacciammo tutti attorno alla cappella nell'illusione di un'ultima difesa. In pochi minuti cademmo tutti. Io caddi con Irene in braccio, già uccisa, e mi accorsi di essere ancora viva quando più non capivo niente. Sopra di me era caduta Cleofe, la moglie del calzolaio, e io vidi che aveva tutta la faccia sanguinante. La mamma la vidi con la testa spaccata in due assieme alla mia sorellina Bruna, di due anni, morta. Otto dei miei familiari erano nel mucchio dei morti. Finita la sparatoria, che durò assai a lungo, i tedeschi vennero dentro al recinto per controllare se qualcuno di noi fosse ancora vivo. Li vidi tanto vicini che mi sembrava che mi toccassero e temevo che facessero fare una fossa comune per buttarci dentro tutti. Invece, dopo un po', se ne andarono ed io sentii la voce di un bambino di circa otto anni, Tonelli, la cui famiglia era stata tutta massacrata. Diceva: "Io sono vivo, vi sono dei vivi qui attorno?". Io mi feci sentire e anche altre che erano riuscite miracolosamente a salvarsi. Il bimbo uscì dicendo che andava a vedere se c'erano ancora i tedeschi, poi tornò e ci disse che se ne erano andati. Allora, insieme ad altre cinque donne, mi alzai per uscire e solo allora mi accorsi che ero ferita. Avevo una pallottola al fianco sinistro e delle schegge nelle gambe. Usciva molto sangue e capii che non potevo muovermi. Alcune donne mi fasciarono, mi caricarono in spalla e così riuscii a nascondermi nel bosco, dove rimasi due giorni e due notti senza mangiare né bere, e urlando dal dolore. Poi, finalmente, vennero da noi alcuni partigiani, fra cui il padre del piccolo Tonelli, che rimasero con noi la terza notte e poi il mattino seguente se ne andarono. Mi avevano lasciato un bastone da sostegno e con quello riuscii ad arrivare fino a Pian Vallese, oltre il fiume Setta, ed entrai in una casa di contadini. Mi lavarono e mi curarono un po', poi venne un fascista a prendere la madre per portarla a Bologna e mi prese con sé. Però a Sasso Marconi cademmo dentro a un bombardamento aereo e allora il fascista mi lasciò e fu il medico di Marzabotto, di passaggio per caso, che mi caricò sulla canna della bicicletta fino al rifugio di Casalecchio e di qui fui trasportata nell'ospedale di Via Laura Bassi, a Bologna, dove mi operarono.
Nel cimitero di Casaglia erano morti 147 fra uomini, donne e bambini. Le donne che erano con me nel bosco, cui devo la vita, furono trucidate pochi giorni dopo nel rifugio di Ca' Beguzzi. Il bimbo Tonelli morì anch'egli colpito da una granata tedesca sotto monte Sole, poco distante dal cimitero di Casaglia.

Luciano Bergonzini, "La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti", vol. V, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna, 1980
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Note
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