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Lucia Laura Musolesi, superstite dell'eccidio e partigiana della Stella Rossa

Schede

La mattina del 29/9/1944, verso le ore 7, osservai che un casolare, a circa mezzo chilometro da Casoni di Rio Moneta, era in fiamme. Poiché correva voce che i tedeschi stavano eseguendo rastrellamenti, raccogliemmo le nostre cose e ci portammo al rifugio antiaereo. Verso le 8, noi sentimmo un colpo di fucile verso il rifugio e una donna, di nome Giuseppina, che era accanto all'ingresso del rifugio, fu colpita al braccio sinistro e cadde a terra. Immediatamente dopo di ciò apparve un tedesco che fu seguito da altri 9 o 10.
Diciassette persone erano nel ricovero e fra queste c'erano due uomini (uno di 80 anni e un altro, nominato Burzi, di 48 anni), due bambini e il rimanente erano donne di varia età. Tra queste donne ce n'era una gravida.
I tedeschi ci ordinarono di uscire fuori dal ricovero e ci misero in fila, a circa 5 metri dal ricovero. Ricordo che l'ufficiale dava ordini a questi uomini tedeschi, ed essi chiesero orologi d'oro, sigarette e frugarono nelle nostre borse e nei nostri pacchi. Dopo circa tre quarti d'ora, un tedesco piazzò una mitragliatrice di fronte alla fila: questa (la mitragliatrice) aveva un caricatore a nastro ed io ricordo che la canna aveva dei buchi lungo la sua lunghezza. Questa mitragliatrice fu posta su un treppiedi, alla vista di ciò le due ragazze e le donne cominciarono a gridare; l'ufficiale disse: "Nicht kaput!"; vidi che l'ufficiale faceva l'occhiolino all'uomo che cominciò a sparare.
Ai primi colpi io scappai ed andai a nascondermi in un cespuglio spinoso. Nello stesso tempo sentii la mitragliatrice che continuava a sparare. Dopo io vidi un tedesco avvicinarsi e puntare la sua arma; egli sparò, ma mancò il colpo perché io cominciai a correre verso il piccolo bosco lontano circa 20 metri. Mentre scappavo il tedesco sparava ancora e mi colpì sul braccio destro e sulla spalla sinistra. Rimasi nel bosco fino alle 11 di sera del 29 settembre e così mi salvai. Posso affermare che nessuno di noi fu interrogato dai tedeschi e che non c'erano partigiani nella zona dei Casoni di Rio Moneta la mattina del 29.9.1944.
[SM]

Io sono una delle sorelle della medaglia d'oro Mario Musolesi, detto "Lupo", comandante della brigata "Stella Rossa". Ho vissuto in brigata anch'io, come partigiana.
Quando mio fratello fu mortalmente ferito, nella battaglia di Monte Sole, io mi trovavo con altri partigiani a Casone di Rio Moneta, nel versante di Marzabotto. Il 29 settembre, il giorno dell'inizio della strage, l'Ornella venne da me dicendo che i tedeschi avevano incendiato diverse case. Non ci credevo. Feci una corsa su un'altura e i miei occhi non videro altro che case e fienili in fiamme. Tutto ad un tratto sentii degli spari e dei lamenti. Scappai per avvertire la gente della casa dove abitavo di mettersi in salvo con la roba e il bestiame. Anch'io cercavo di portar via qualche cosa. Ma vidi i tedeschi a poca distanza. Allora corsi per nascondermi, con Bruno, che avevo con me. La signora Fanti mi mandò dietro sua figlia pregandomi di rimanere e allora tornai indietro con altre donne e bimbi e andai in rifugio. Eravamo diciotto. Il primo tedesco che spuntò dalla cantonata della casa diede una rivoltellata all'imbocco del rifugio, colpì una donna ad un braccio. Poi ne giunsero altri e il comandante la squadra dette l'ordine di prenderci fuori. Ci misero in gruppo di fianco al rifugio e ci portarono via tutto. Ci chiesero se avevamo dell'oro, ci strapparono la fede, ci presero gli orologi dal polso, frugarono nelle borsette, fracassarono le valigie, distrussero tutto quello che non avrebbero potuto portare con sé e bisticciarono persino per dei fiammiferi e sigarette. Intanto noi, in diciotto, eravamo da circa mezz'ora con la mitraglia puntata davanti, già pronto il nastro delle cartucce, in attesa di essere massacrati.
Un tenente delle SS tedesche girava avanti e indietro, impaziente, poi si avvicinò alla mitraglia. C'era con loro anche un italiano, un milite delle brigate nere, e il tenente gli parlò in tedesco. Io guardavo da tutte le parti dove potevo scappare, ma i miei occhi non vedevano che tedeschi armati. Mi sentivo la morte vicino, e una gran sete. Il tedesco ci fece cenno che stessimo più uniti: quello delle brigate nere era proprio contro la mitraglia. Dissi allora alla signora Fanti: "Ci ammazzano come cani". Le vidi la morte in volto, era colore della terra. Non capivo più nulla, solo sentivo i bambini piangere e gridare. "Non abbiamo fatto nulla…non vogliamo morire…". E si aggrappavano alla giacca del tenente che li respingeva. Anche le donne gridavano e pregavano di non ucciderle. Questo durò un poco, era straziante. Mi accorsi che anch'io urlavo forte: "Non voglio morire". Staccai dalla sottoveste una "benedizione" che avevo sempre avuto con me, mi feci il segno della croce dicendo: "Cristo salvami, ho un bambino che ha bisogno di me!". Allora il tenente fece cenno di abbassare la mitraglia e disse: "Kaput!".
Il milite lo guardò come per chiedergli se doveva sparare o no. Lui gli fece l'occhietto e mi bastò per capite tutto. La mitraglia cominciò a sparare, la prima pallottola fu per me, mi passò fra le gambe. Vidi Burzi abbattersi, Bruno pure. Lasciai il gruppo correndo come una pazza, mi buttai in mezzo a un groviglio di spini di more. Un tedesco mi vide, accennò ad un altro dove ero nascosta, questi mi trovò subito, io lo pregai di lasciarmi stare, ma lui mi rispose in tedesco e io capii che voleva dirmi che se erano morti gli altri dovevo morire anch'io. Però non gli riusciva di mettere in canna la pallottola. Appena poté, mi sparò nella testa, non mi colpì benché fossi molto vicina, io mi alzai lasciando la mia roba, corsi via alla disperata, tutti mi sparavano dietro. Feci una piccola salita, una fucilata mi prese al braccio destro, ma continuai a correre e mi fermai dietro un albero grosso, per vedere da che parte mi sparavano. Ma quando mi staccai dall'albero una pallottola di mitraglia mi colpì alla spalla e al braccio sinistro. Caddi in ginocchio, sentivo il sangue scorre per il corpo senza alcun male. Non avevo più forza nelle braccia. Feci altri cento metri di corsa per giungere alla tana di Sad (un prigioniero indiano), la trovai piena di gente, li pregai di prendermi dentro con loro, ma nessuno si mosse per paura di essere visti dai tedeschi.

Luciano Bergonzini, "La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti", vol. V, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna, 1980
[RB5]
Note
1