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La scoperta del "muro del Reno"

13 Ottobre 1894

Schede

Gli ultimi giorni di ottobre del 1845, a 130 metri da Pontelungo di Borgo Panigale, quasi sulla riva destra del Reno, vennero alla luce decine di blocchi di pietra. Quell’evento, al quale non si diede troppa importanza, altro non era che il prodromo di quella che, cinquant’anni dopo, sarebbe stata una delle grandi scoperte archeologiche della città.

Nell’ottobre del 1894, un anno dopo una catastrofica alluvione del Reno, alcuni operai cavatori trovarono in mezzo alle ghiaie spostate dalla forza della piena una struttura in pietra molto tenace, impossibile da scalzare. Avvertiti del ritrovamento, Edoardo Brizio, direttore della sezione archeologica del Museo Civico di Bologna, e i suoi collaboratori cominciarono a documentare quanto andava emergendo dal greto del fiume, che fin da subito si dimostrò essere di importanza eccezionale a causa del particolare materiale da costruzione che era stato scelto. Si trattava di un grande numero di lastre e blocchi, legati tra loro con grappe metalliche e cementizio, che fin da un primo sguardo apparivano "reimpiegate", ovvero prodotte più anticamente per un altro scopo e solo in seguito riutilizzate come materiale edile. 

La struttura, che venne scavata a più riprese negli anni 1896, 1897, 1910 e 1912, venne inizialmente interpretata come “muro repellente”, ovvero destinata a contenere e contrastare la violenza del fiume nei pressi di un attraversamento, forse a protezione del ponte romano che doveva trovarsi poco più a valle. Alcuni studi recenti, che prendono in considerazione anche aspetti geomorfologici del territorio, propongono una diversa spiegazione: potrebbe infatti trattarsi di una sorta di guado, costruito sopra la sede originale della via Emilia, in seguito all’innalzamento del livello dell’acqua. In entrambi i casi l’urgenza della necessità spiegherebbe la scelta di utilizzare come materiale da costruzione nientemeno che le lapidi funerarie e le pietre dei monumenti della vicina necropoli romana, che si estendeva lungo il tracciato della via Aemilia in direzione Mutina, e che era in quel momento, intorno al IV secolo d.C., ormai caduta in disuso.

Nel corso delle diverse campagne di scavo vennero alla luce un centinaio di epigrafi e numerosi frammenti lapidei ed elementi architettonici, sotto gli occhi attenti di studiosi e curiosi, accorsi da tutta Italia. La notizia del ritrovamento ebbe infatti una eco enorme, giustificata dalla quantità assolutamente eccezionale di nuove iscrizioni che andarono a raddoppiare il patrimonio epigrafico della città. Grazie a questo “fiume di pietre” che confluì nel lapidario costituendo una sorta di anagrafe cittadina, è stato possibile ampliare notevolmente la base di dati per studiare la società e la demografia della Bologna romana ed è possibile oggi, passeggiando nel cortile del lapidario, mantenere in vita la memoria degli abitanti di Bononia.