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Il torso neroniano di Bologna

metà del I sec. d.C

Schede

Molteplici interessi d'ordine artistico e storico suggeriscono un nuovo studio del torso loricato da Piazza dei Celestini, conservato nel Museo Civico di Bologna e il presente articolo contiene, a grandi linee, la problematica che a tale scultura si riferisce. Intrinsecamente il pezzo rappresenta una variante non priva di interesse della ovvia tipologia del loricato, diffusa in numero rilevantissimo di esemplari durante l'impero, ma messa di moda, per effetto dell'influsso ellenistico, già nell'ultima età repubblicana. In età imperiale, dopo la complessa simbologia della corazza dell'Augusto da Prima Porta, la decorazione delle loriche da parata degli imperatori, principi e generali di cui possediamo le statue, si svolge per lo più in termini esclusivamente ornamentali e tale è anche la lorica del torso di Bologna, ma in essa le figure desunte dal tiaso marino per il loro forte rilievo e il modellato si staccano dalla casistica più comune e, sulla tradizione appunto della lorica dell'Augusto da Prima Porta, si rendono autonome rispetto alla funzionalità decorativa, per cui l'ornamentazione è subordinata alle forme del torso, riprodotte nell'armatura. La corazza "anatomica" impediva la dissociazione degli elementi formanti la statua, che si sarebbe verificata riproducendo la cilindrica corazza delle più antiche rappresentazioni di loricati. La struttura policletea dell'Augusto citato è rimasta canonica per la maggior parte delle statue del genere, sia per il fissarsi di termini tipologici costanti, sia perchè lo schema dell'Augusto conveniva alla rigidità propria della corazza a due valve, la quale non permetteva movimenti d'inclinazione o di torsione del busto.

Una delle poche eccezioni è appunto il torso di Bologna, che è realizzato secondo un chiasmo accentuato e in cui l'innalzarsi della spalla è vigorosamente esaltato dal viluppo del paludamento gettato proprio sulla spalla sinistra, non attorto intorno al braccio, come accade di solito, ma ricadente a piombo in un complesso di pieghe, il cui forte chiaroscuro serve da sfondo all'inflessione del fianco. Infatti al chiasmo delle spalle corrisponde un movimento di tutto il busto, rilevabile anche dall'andamento largamente sinuoso della linea alba e dell'infossatura fra gli estensori della spina dorsale. Il sostanziale disinteresse per l'anatomia, consueto alle sculture romane in genere, non si verifica in questo torso, dove anzi l'analisi dell' anatomia è spinta a tal segno da annullare la corporeità della corazza, sì che la decorazione di questa sembra applicata direttamente sul nudo, che è realizzato grandiosamente e con senso vivissimo dei rapporti e delle proporzioni. Ciò è evidente sopratutto nelle vedute di fianco e di dorso, dove l'ingombro della decorazione non oblitera, come sul davanti, il valore del modellato anatomico. La statua va integrata con il braccio destro abbassato, forse con un attributo nella mano e il sinistro alzato, con la mano che stringeva un'asta, in quanto la verticale di questa, in funzione di appoggio, è necessaria al ritmo della figura. La mancanza di tutta la base del collo rende impossibile dire con sicurezza da qual parte fosse girata la testa, ma l'elevazione del braccio sinistro permette di ritenere con buon margine di certezza che la testa doveva esser girata verso destra e in alto, con la torsione del collo tipica dell'iconografia lisippea di Alessandro e che ritorna anche in ambiente romano più volte, come elemento inconfondibile di particolari tendenze programmatiche. Il profilo della cresta iliaca, marcato dall'orlo inferiore della corazza, mostra che la gamba d'appoggio era la destra, mentre la sinistra era di scarico, con la coscia verticale e, quindi, la gamba portata all'indietro. Lo scultore ha esaltato, attraverso gli effetti luministici, il motivo della doppia serie di ptéryges, oggi peraltro male apprezzabile a causa della frammentazione. Nel quadro generale dell'arte romana dell'Italia settentrionale la statua di Bologna è importante perchè è una delle pochissime del genere di sicura provenienza locale. È nota la gravità del problema che riguarda i rapporti fra arte ufficiale e arte locale nell'ambiente culturale che si chiama comunemente «provinciale» ed al quale appartengono anche le regioni d'Italia al Nord dell'Appennino. Nello studio della genesi e del percorso del fenomeno artistico provinciale la presenza degli esemplari dell'arte ufficiale va tenuta in considerazione, perchè è questa presenza che riallaccia le manifestazioni periferiche al centro artistico dell'impero e in certo modo condiziona le manifestazioni periferiche stesse. Nel caso delle statue iconiche imperiali la funzione, per così dire, di aggiornamento si ravvisa in maniera evidente, data la loro obbligatoria aderenza a prototipi espressi appunto al centro, per il loro carattere di ufficialità. Esorbita da questo argomento, ovviamente, qualsiasi giudizio di ordine qualitativo, perchè non è detto che l'immagine ufficiale del principe al potere sia da ritenere a priori un'opera d'arte, ma il valore di tale immagine sull'ambiente artistico periferico è ugualmente da mettere in conto, per la somma di dati iconografici e stilistici che essa presentava.

Le altre statue loricate di provenienza settentrionale, cioè le due di Torino da susa e quella di Parma da Velleia, le prime di età augustea, l'ultima di età claudia, ripetono una tipologia e motivi decorativi piuttosto triti e comuni. Nessuna di esse costituisce un documento di carattere ritrattistico, perchè le due statue di Torino hanno teste non pertinenti e quella di Parma ha la testa rilavorata o sostituita. Acefalo è anche il frammento di Aquileia; dubbia la pertinenza della testa nell'altra statua, di età claudia, sempre di Aquileia, rappresentante un generale o principe rivestito di paludamentum, acefala è ancora la statua eroica del «navarca» di Aquileia, la più antica, sembra di tutte le statue iconiche rinvenute nell'Italia settentrionale, a parte la categoria dei togati. La mancanza delle teste impedisce di stabilire per le statue suddette riferimenti precisi di identificazione e di cronologia. In relazione a quanto esposto più sopra circa la funzione che per noi hanno le statue iconiche ufficiali nello studio dell'arte settentrionale, si può tuttavia rilevare che le immagini aquileiesi s'inseriscono nell'ambiente di superiore cultura artistica proprio del grande centro adriatico, praticamente allo stesso livello dell'arte urbana, mentre le altre emergono da un tessuto più vagamente caratterizzato di arte locale, con una differenziazione più netta rispetto a questa ultima, rappresentata a Susa dai rilievi dell'arco d'Augusto, a Velleia e a Bologna dalle stele funerarie; prescinde, ripeto, da questa constatazione, ogni giudizio di qualità: i rilievi dell'arco di Susa sono per noi assai più rappresentativi delle due banali statue loricate, ma la convivenza di questi elementi diversi ci dà il grado, la misura del rapporto che abbiamo più sopra istituito.

A proposito del torso di Bologna una identificazione si può proporre in via congetturale e l'elemento induttivo è offerto dal modo in cui è stata in un certo momento rimaneggiata. Osservando infatti la frattura alla base del collo si nota non solo che essa è intenzionale, ma che la statua originariamente, è stata costruita in un sol pezzo con la testa; l'incavo infatti, a un di presso emisferico, praticato in corrispondenza della scollatura della lorica, non è il tipico incavo delle statue fatte in serie e destinate a ricevere una testa inserita, a piacere dei committenti. La scalpellatura dell'incavo è trascurata e l'operazione per cui fu eliminata la testa originaria si rivela fatta frettolosamente, perchè ha danneggiato, eliminandolo in parte, anche l'orlo della corazza attorno al collo, fino alla sommità del gorgoneion, sul davanti. Le scalpellature nelle pareti interne dell'incavo indicano che si è voluta creare una superficie d'aderenza per la sostituzione di un'altra testa, andata poi perduta. Quanto sopra è sicuramente accertato attraverso l'esame del pezzo. L'asportazione della testa, fatta, ripeto, in fretta e male, deve esser stata suggerita da motivi di ordine contingente che non è difficile individuare. La qualità del pezzo, che non è un prodotto generico di bottega, le sue grandiose proporzioni e l'atteggiamento, sono tutti elementi a favore dell'identificazione con una statua imperiale di carattere ufficiale e di notevole impegno; in tal caso l'ablazione repentina della testa si può spiegare soltanto con la necessità, per ragioni politiche, di eliminare il ritratto di un principe che non poteva più essere pubblicamente mantenuto. Nel I secolo questo caso può essersi verificato solo in tre occasioni, della damnatio memoriae cioè di un principe e in tale periodo il grave provvedimento fu preso solo alla soppressione di Caligola, Nerone e Domiziano. L'eventualità di Caligola si esclude da sè, se non altro perchè la statua non può rientrare nella ancor diretta tradizione artistica tiberiana; restano quindi due eventualità: che la statua rappresentasse Nerone o Domiziano. A parte il fatto intrinseco di una maggior convenienza, sotto il rapporto stilistico, a datare il torso nell'età immediatamente preflavia, anzi ancora nell'età claudia, che non alla fine del I secolo, sussistono, a favore dell'attribuzione a Nerone, i rapporti piuttosto stretti fra questo principe e la città di Bologna. Per quanto la cosa resti sempre allo stato di ipotesi, non mi sembra inopportuno, a corredo della identificazione proposta per il torso da Piazza dei Celestini, riesaminare anche i termini di tali rapporti.

Tacito riferisce infatti che il giovanissimo Nerone (aveva sedici anni), intervenne in senato presso il padre adottivo Claudio in favore della città di Bononia devastata da un incendio e ottenne dal principe una largizione di centomila sesterzi; il fatto è riferito anche la Svetonio, ma la narrazione di Tacito si presta meglio del cenno svetoniano ad illuminare i moventi politici e programmatici dell'intervento dell'erede designato. Tacito infatti inserisce la notizia riguardante Bononia con quelle di altri interventi di Nerone: per l'esenzione dal tributo degli Iliensi, per il rapporto d'origine con Roma attraverso Enea, per la restituzione della libertà ai Rodii, per l'esenzione dal tributo per cinque anni dei cittadini di Apamea, colpiti da un terremoto. Anche se si vuole ammettere che questi interventi, seguiti subito dalla concessione dei benefici richiesti, fossero aprioristicamente combinati per «lanciare» il giovane principe e presentarlo alla pubblica benevolenza, la connessione che Tacito istituisce fra i quattro episodi non è casuale nè priva, per noi, di significato: l'interesse per città dell'Oriente mostra già le prime linee di quello che poi fu il programma politico filellenistico di Nerone, in armonia con le sue aspirazioni al dominato, al potere autocratico cioè, di pretta marca ellenistica-orientale. In tale programma quale è il posto di Bononia, di una modesta colonia cioè dell'Italia settentrionale e per qual motivo essa s'inserisce sullo stesso piano delle ricordate città dell'Oriente? La risposta viene dal fatto che il programma politico neroniano era, alle origini quello stesso di Antonio il triumviro ed è nota l'importanza che le reviviscenze antoniane hanno nella storia politica ed ideologica del primo secolo dell'impero. Bononia, da più d'un indizio, appare, nell'età preaugustea, legata alla gens degli Antonii, sotto il cui patronato si trovava la città fino alla rottura fra Antonio e Ottaviano, quando quest'ultimo dedusse, come sembra certo, una colonia di suoi fedeli, appunto per neutralizzare in Bononia il partito antoniano, ma anche dopo, da una fuggevole notizia di Plinio si ricava che ancora elementi antoniani erano in Bononia e del resto Augusto, come era nel suo programma, non aveva infierito contro la città cliente del suo rivale. L'intervento di Nerone a favore dei Bonoienses può spiegarsi dunque con il suo procedere sulla linea politica di Antonio e questo fatto giustifica in pieno la connessione tacitiana: l'interesse per un antico centro antoniano e per città d'Oriente poteva, anzi doveva logicamente fondersi nella direttiva politica del giovane Nerone. Quanto alla notizia collaterale di Svetonio, secondo cui Nerone pronunciò in latino l'orazione in favore dei Bononienses e in greco quelle relative alle città greche, non contiene soltanto un fatto di cronaca spicciola, nè il ricordo del compiacimento intellettuale di un ragazzo, ma essa stessa è specchio di una mentalità già ben formata, a parte il fatto che forse potevano assistere alle sedute del Senato rappresentanti delle città interessate. Una congettura del Rocchi che non abbiamo plausibili ragioni per rifiutare, è stata accettata dal Bormann come integrazione dell'iscrizione frammentaria C.I.L. XI, 701: secondo tale integrazione, Nerone sarebbe stato duoviro di Bononia, rappresentato nella città da un praefectus; sempre secondo il Rocchi anche il frammento C.I.L. XI, 702 apparterrebbe ad un'iscrizione onoraria per Nerone. Tutto ciò, anche se non assolutamente certo, è tuttavia probabile e logico per le considerazioni generali fatte più sopra, come probabile e logica sarebbe l'erezione di una statua a Nerone da parte dei Bononienses, concepita, com'è il torso da Piazza dei Celestini, secondo la tipologia dell'imperator e per di più con una spiccata tinta di tradizione ellenistica nello schema iconografico.

Quali che siano stati i rapporti di Nerone e dei Bononienses, e i titoli di gratitudine dei secondi verso il primo, è ovvio che non avrebbe potuto restare senza effetto anche qui la damnatio che aveva colpito per volere del Senato la memoria del principe la cui politica si era distaccata troppo violentemente e decisamente dalla linea di collaborazione fra i due poteri principe e Senato, stabilita da Augusto. Come aggiunta a quanto esposto fin qui non sembra inutile esaminare quanto gli storici antichi, e sopratutto Tacito, hanno detto su quel che avvenne a Bononia nel biennio cruciale che seguì la soppressione di Nerone e precedette l'avvento di Vespasiano. La prima notizia tacitiana si riferisce alle conseguenze della prima battaglia di Betriaco: i sessantanove senatori che avevano seguito Salvio Otone e da questi erano stati lasciati a Mutina, colpiti dal sospetto da parte dell'elemento militare e troppo visibilmente onorati dall'ordo Mutinensis, divisi fra loro nello scontro verbale fra Cecina ed Eprio Marcello, dopochè furono placati dagli elementi più moderati, si ritirano a Bononia, dove consiliatisi decisero di passare a Vitellio. Ora Vitellio era apertamente colui che cercava di riabilitare la memoria di Nerone ed in Bononia era in quel tempo anche un suo fratello. Il generale di Vitellio Fabio Valente indisse a Bononia un grandioso spettacolo per mostrare che Vitellio non era tanto preoccupato della situazione politica da non pensare al piacere del popolo. Il munus, che chiaramente Tacito aveva uno scopo propagandistico e l'averlo elargito proprio a Bononia indica come Vitellio tenesse, e per lui Valente, a mantenere ben disposti verso di lui i cittadini della colonia, evidentemente facendo assegnamento sulla loro propensione per Nerone. Fra la massa, fatta venire apposta da Roma, degli elementi atti a realizzare il munus di Valente c'era tutta la feccia che era stata già ben vista alla corte di Nerone; nemmeno questa contingenza, dopo quanto si è detto, apparirà priva di significato: i deteriori elementi della cerchia di Nerone contavano probabilmente di trovare a Bononia, nella situazione, come si direbbe oggi, fluida, un rifugio e un appoggio in ambiente filoneroniano. La fine di Vitellio e il consolidarsi dello stabile potere di Vespasiano cancellarono, almeno in Italia, i residui di questo stato di cose. Può anche essere che nel mutato clima politico sia avvenuta, qui a Bononia, la sostituzione della testa della statua di Nerone, se già non era accaduto ciò all'avvento di Galba. La possibilità di reviviscenza del neronianismo al tempo di Vitellio potrebbe far credere che in quell'epoca ancora i Bononienses mantenessero l'immagine del principe che li aveva favoriti; è un'ipotesi non del tutto da scartare, ripeto, che a tale statua appartenesse il torso che ha costituito il pretesto per le osservazioni che abbiamo fatte.

GUIDO A. MANSUELLI

Testo tratto da "Strenna storica bolognese", anno 6, 1956.