Salta al contenuto principale Skip to footer content

don Dario Zanini, parroco di Sasso Marconi

Schede

Domenica 1° ottobre, festa della Madonna del Rosario. Un cielo terso e un sole tiepido, a sorpresa dopo tanta pioggia, fanno da cornice all’inizio del nuovo giorno e del nuovo mese. Gli alleati ne approfittarono per dare un’occhiata alla situazione, mandando subito un aereo ricognitore a fotografare le linee del fronte, e registrarono un significativo documento: le case di Vallego, di Creda, di Maccagnano e tante altre, già bruciate, senza tetto, sembrano occhiaie vuote coi loro muri scoperti; e il ponte di Pioppe, che ha le ore contate, congiunge ancora le due sponde del Reno e riflette per l’ultima volta l’ombra delle sue arcate sulle acque limacciose e gonfie del fiume.
Teresa Marchi ha ancora il marito tra i rastrellati di Pioppe; va alla Messa, che viene celebrata nella chiesa trasformata in carcere, e poi saluta il marito che è sulla porta dell’altra prigione, la casa Borgia; riesce anche a domandargli: “Conoscete la vostra sorte?”. La risposta esprime ancora fiducia: “Speriamo che questa sera ci lascino tornare a casa”. È una speranza folle. Quella che è sempre l’ultima a morire.
La maestra Dina Pescio riesce a entrare e a consegnare qualcosa ai due sacerdoti, sdraiati sulla paglia, pressati fra una cinquantina di uomini: d. Elia la conforta e benedice, p. Martino continua a pregare. Anche Aldo Ansaloni, uno dei sopravvissuti, ha detto che p. Capelli parlava poco e pregava molto, e a un certo momento ha visto i due sacerdoti raccogliersi in un angolo della sala, parlare sommessamente e scambiarsi segni di croce: evidentemente si sono dati reciprocamente l’assoluzione.
Fra gli uomini che per il terzo giorno sono vigilati nella stanza della scuderia, pur confortati dalle preghiere e dalle parole dei due religiosi, la speranza si va spegnendo. A mezzogiorno i soldati distribuiscono un po’ di cibo. Nel tardo pomeriggio tolgono loro i portafogli, i documenti, gli orologi e ogni oggetto di qualche valore; è un rito funestamente premonitore: è finita. Sull’imbrunire li fanno uscire. Nel gruppo manca Aldo Cumani, già deceduto in quella casa per le ferite riportate al momento della cattura. I restanti 46 vengono accompagnati alla canapiera e fermati di fronte alla botte; devono togliersi le scarpe e qualche indumento, poi a gruppi vengono sistemati sul bordo della botte e falciati dalle mitragliatrici: 40 cadono nel fango della botte lasciandovi la vita, 3 riescono ad uscirne vivi ma poi moriranno per le ferite, 3 si salvano.
Ascoltiamo i superstiti.
Pio Borgia racconta: “Il primo gruppo di venti fu schierato sul ciglio della botte stessa, con le facce contro il muro. Poi entrò in azione la mitragliatrice che era già in postazione alle spalle delle vittime. I disgraziati furono falciati. Quelli del secondo gruppo dovettero gettare i corpi degli uccisi in fondo al canale. A loro volta furono disposti in fila a tre per tre e abbattuti. Debbo la salvezza al mio sangue freddo. Quando fui messo in fila col secondo gruppo tenni d’occhio il comandante del plotone e, come questi alzò la mano per l’esecuzione, mi gettai a terra, restando illeso. Mi gettarono poi giù nel canale in mezzo agli altri cadaveri. I tedeschi scaricarono ancora colpi di mitraglia e gettarono bombe. Riportai una ferita alla mano destra e un’altra alla coscia sinistra”.
A sua volta così testimonia Gioacchino Piretti: “Ci condussero sulla passerella della botte, piazzarono di fronte a noi due mitragliatici e aprirono il fuoco. Io ero fra i primi. Caddi a terra facendo il morto. Quando mi gettarono nel canale, fortuna volle che cadessi in un punto dove l’acqua era poco alta. Debbo certamente la mia salvezza all’oscurità. Diversamente si sarebbero accorti che non ero morto”.
Pio Borgia non fu colpito perché, al momento della sparatoria, era in parte coperto e in qualche modo difeso dal corpo di d. Comini che si trovava davanti a lui. D. Comini aveva intonato ad alta voce le litanie della Madonna e continuava a pregare, finché non cadde colpito; ma prima di accasciarsi aveva dato l’assoluzione a tutti e aveva gridato più volte, a gran voce: “Pietà! pietà!”. Qualcuno (sr. Alberta) crede di aver udito, prima degli spari e da notevole distanza, le preghiere e le invocazioni dei due preti. Aldo Ansaloni poté scorgere p. Capelli che, in uno sforzo supremo, si alzava dalla melma della botte e ritto sopra i cadaveri, premendosi con una mano il ventre orribilmente squarciato, tracciava con l’altra ampi segni di croce sui feriti e sui morti; finché non ricadde supino con le braccia aperte in croce. Dodici anni prima, in una preghiera alla Madonna aveva scritto: “Un giorno, o Mamma, ci rivedremo sul letto di morte del mio martirio”. Il letto fu il pantano di una pozzanghera arrossata di sangue; il martirio ci stava tutto.
Era il 1° ottobre, festa della Madonna del Rosario.
Ascoltando le varie testimonianze si apprende che nella botte si muore fra benedizioni e invocazioni, fra preghiere, atti di pentimento e parole di perdono. La presenza dei due sacerdoti aiuta i condannati ad affrontare gli ultimi istanti che precedono la loro tragica sorte col cuore rivolto a Dio nella speranza della vita eterna. Nella botte di Pioppe come a Cerpiano, a Casaglia come a S. Martino e a S. Giovanni, dove c’è un prete o una suora, là si muore da cristiani, si muore con fede.
Gli altri prigionieri rimasti rinchiusi nella chiesa di Pioppe udirono, quella sera, dei colpi di mitraglia, ma nessuno ebbe il sospetto della tragedia che si era consumata. A mezzanotte anch’essi furono accompagnati alla canapiera per caricare due vagoni di bobine di filo: passando accanto alla botte, non si accorsero di nulla. Poi, su carri bestiame agganciati ai vagoni di filo, per ferrovia raggiunsero Bologna, e di qui, attraverso le Caserme Rosse e Fossoli, la solita via dei deportati, finirono in Germania. A fine guerra tutti tranne un giovane che morì nella deportazione, rientrarono salvi in Italia.
A Pioppe, dopo il passaggio del treno dei deportati, i tedeschi fecero saltare il ponte della ferrovia, antecedentemente minato, e l’attiguo ponticello pedonale, interrompendo il collegamento fra le due parti del paese, separate dal Reno.
Durante la notte, mentre i più giacevano immobili nella melma rossastra di sangue e altri rantolavano nello scempio delle loro carni martoriate, alcuni feriti riuscirono ad evadere dalla tragica cisterna: tre decedettero in seguito, tre sopravvissero.
Guido Nannetti, ex finanziere, si trascinò a stento fuori dalla botte e andò a morire nello scantinato di una casa vicina, quella dei Gabusi; il padre, prima di cadere nella botte, gli aveva raccomandato di recitare l’atto di dolore.
Un uomo di Carviano, uscito dalla botte dietro Gioacchino Piretti e da lui aiutato, riuscì a risalire il terrapieno della ferrovia tenendosi strette le viscere con le mani sul ventre squarciato, e finì la sua Via Crucis nella garitta della stazione.
Luigi Comelli, il bergamasco che lavorava nel canapificio come tintore, uscì ferito alla gola e morì nel rifugio, fra indicibili sofferenze, amorevolmente assistito da Concetta Frascaroli, il 6 ottobre.
Lo seguì Aldo Ansaloni che era stato ferito a una mano e aveva ricevuto tre colpi alla gamba…buona: nell’altra portava una protesi per una mutilazione che risaliva alla prima guerra mondiale; riuscì ad uscire dal tunnel dell’acqua e ad arrampicarsi carponi fino al rifugio di S. Pietro. In seguito ebbe più volte l’ardire di rimproverare ai partigiani la responsabilità di avere provocato quel finimondo.
Pio Borgia riuscì a rialzarsi dal fango della botte aggrappandosi a p. Capelli, ancora in vita, e poi, arrampicandosi sulla griglia del canale, raggiunse le case vicine.
In una memoria funebre distribuita nel 1° anniversario della strage della botte, 1.10.1945, non compaiono i nomi di Passini Giacomo e di Vignudelli Giovanni, che vengono aggiunti sulla lapide un anno dopo, 1.10.1946, nel 2° anniversario. Sulla lapide, tuttavia, rimangono i nomi di Nannetti Virginio e Venturi Virginio che sono la stessa persona. Chi ha stilato l’elenco è stato tratto in inganno dal fatto che Virginio Venturi, questo è il cognome esatto, era il marito di una Nannetti Elisa, sorella di Adolfo e zia di Guido, pure caduti nella botte. Due fratelli di Guido, rastrellati insieme a lui, furono deportati in Germania; poi ritornarono.
Gilberto Barbieri si ostinava a chiedere di stare coi fratelli Calisto e Colombo, ma un soldato più ostinatamente lo ricacciò fra le persone valide che andarono in Germania e si salvarono: i fratelli finirono nella botte.
“Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato” (Mt .24,40).

Dario Zanini, "Marzabotto e dintorni 1944", Ponte Nuovo editore, Bologna, 1996
[MD]
Note
5