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Paolo Cappa

19 febbraio 1888 - [?]

Scheda

Paolo Cappa, da Francesco e Maria Forzani; nato il 19 febbraio 1888 a Genova. Ancora studente si iscrisse al circolo popolare Pensiero e Azione, ispirato alle idee democratico-cristiane e che allora era in netto contrasto con il circolo «Pio VII», di tradizione clerico-conservatrice.
Si oppose all'orientamento positivista di alcuni insegnanti del liceo Chiabrera, dove studiava, ingaggiando con essi una polemica che ebbe una certa risonanza nella città. Sostenne le sue posizioni sul settimanale murriano «II Letimbro» del quale, ancora studente liceale, assunse la direzione.
Nel 1909 fu tra i fondatori e primo presidente del circolo della FUCI di Genova. Si laureò, ventenne, in giurisprudenza. Lavorò a «II Momento» di Torino e a «II Corriere d'Italia» di Roma e successivamente come redattorecapo al quotidiano cattolico genovese «II cittadino».
Accettò l'offerta di assumere la direzione de «II cittadino di Brescia» al quale impresse gradualmente quel tono filoparlamentare e patriottico alla Filippo Meda che poi doveva restare la sua definitiva posizione politica. La linea aperturistica verso le istituzioni dello stato gli valse l'accusa di «modernizzantismo» da parte dei residui nuclei dell'intransigenza clericale.
Probabilmente per l'amicizia con il genovese mons. Giacomo Della Chiesa - divenuto papa Benedetto XV dopo essere stato per alcuni anni arcivescovo di Bologna - fu chiamato, all'inizio del 1915, a dirigere «L'Avvenire d'Italia». Riacquistò al giornale la piena fiducia delle gerarchie vaticane, «improntando il giornale ad una linea filogovernativa, ma anche di tenace difesa del patriottismo cattolico durante gli anni della prima guerra mondiale». Denunciò «il dilagare sfrenato della insinuazione sottile o della calunnia sfacciata di 'disfattismo' contro i cattolici e le loro istituzioni». Alla fondazione del PPI in Emilia Romagna partecipò direttamente.
Chiamato da don Luigi Sturzo a far parte della Piccola costituente del PPI in rappresentanza di Bologna fu nel capoluogo emiliano, con Giovanni Bertini , il promotore del partito. Eletto deputato nel 1919 in due circoscrizioni (Marche e Liguria) optò per la regione natale. Con la terra ligure mantenne costanti collegamenti: nel 1921 fu tra i fondatori dell'università popolare Contardo Ferrini di Genova e, sempre in quell'anno, fu riconfermato per il collegio ligure nel mandato parlamentare.
Alla Camera fu promotore di un importante progetto di legge sull'autonomia dei comuni, in particolare in materia scolastica. Ma la sua preminente funzione in quegli anni fu di dirigere l'organo dei cattolici dell'Emilia Romagna nel momento decisivo della crisi dello stato liberale.
Sulle colonne de «L'Avvenire d'Italia» tra il 1920 e il 1921, fino circa all'effimero patto di pacificazione, alimentò una accesa polemica contro le organizzazioni socialiste accusate di esercitare un monopolio oppressivo sulla mano d'opera agricola e di ricorrere a forme inaccettabili di intimidazione e di violenza. Il conflitto tra i popolari bolognesi e i socialisti, tra i quali predominava la corrente massimalista, divenne particolarmente acuto alla vigilia delle elezioni amministrative. Tuttavia, fedeli alla linea dell'intransigenza elettorale, i popolari non accettarono di far parte del Comitato pace, libertà, lavoro, concentrazione di tutte le forze conservatrici e appoggiato dai fascisti, e non aderirono alla lista di blocco d'ordine, che Cappa definì anzi «il blocco della paura», meritandosi così l'accusa di diserzione da parte degli esponenti della borghesia reazionaria. La posizione autonoma del PPI non significava tuttavia condiscendenza verso i socialisti: al contrario, come scrisse Cappa, essendo «difficilissima la vittoria immediata» bisognava permettere ai socialisti «di accentuare l'esperimento della finanza e della politica anarcoide, fino a quando la cittadinanza non perderà la pazienza spazzandoli via... e forse quel giorno (gli indizi sono recenti) non è lontanissimo». I sanguinosi fatti di Palazzo d'Accursio del 1920 resero ancora più acuto il conflitto. Cappa ritenne l'omicidio di Giulio Giordani, consigliere comunale di minoranza, «un premeditato e organizzato assassinio», direttamente imputabile ai socialisti. Su questo tema rivolse un'interpellanza al governo, mentre la polemica nei confronti dei dirigenti massimalisti del PSI diveniva su «L'Avvenire d'Italia» ogni giorno più violenta.
Per tutto il 1921 si illuse che il fascismo potesse essere «fenomeno transitorio» e comprensibile reazione allo «strapotere rosso». Si può anzi affermare che «egli era stato uno di coloro che più di tutti avevano veduto di buon occhio le prime violenze delle squadre d'azione contro i socialisti e le loro organizzazioni». Quando però si rese chiara l'irrecuperabilità del movimento fascista alla legalità costituzionale, ed insieme il suo carattere tutt'altro che transitorio, non esitò a mutare atteggiamento. Già nel marzo 1922 si espresse favorevolmente all'intesa tra popolari e socialisti, pur tra riserve e cautele. La convergenza, a suo giudizio, non doveva infatti essere l'espressione di un'intesa strategica tra i due partiti, ma soltanto di un accordo caso per caso, per fronteggiare il pericolo comune. Nel giugno prese una dura posizione contro quella che definì «la stampa gialla», e cioè gli organi liberali filofascisti, gli attacchi dei quali alla linea del PPI erano dettati dalla preoccupazione per l'atteggiamento dei socialisti che si stavano orientando verso la collaborazione. Analogamente si rivolse ai «nuovi farisei» della destra, da Codacci Pisanelli a Federzoni a Salandra, che avevano elevato alte grida contro le violenze socialiste mentre applaudivano e sostenevano quelle fasciste. Da questo punto di vista aveva tutte le carte in regola per sostenere che il «dovere civile» della reazione antisocialista era quello di non copiare, magari in peggio, i metodi dei socialisti di alcuni anni prima. Ai suoi occhi il fascismo appariva sempre più come un rimedio peggiore del male che voleva combattere, spezzando un monopolio, ma creandone contemporaneamente un altro: e in tal senso intervenne alla Camera denunciando le violenze squadristiche nelle terre emiliane. Nei giorni della crisi del primo governo Facta propose, nella riunione del gruppo parlamentare del 21 luglio, di rassegnarsi alla necessità di includere i rappresentanti delle destre (esclusi i fascisti) nel futuro governo: questa tesi, sostenuta da Meda e avversata dalla sinistra, risultò alla fine prevalente. Tuttavia pochi giorni dopo (30 luglio) commentò favorevolmente la visita di Turati al Quirinale. L'attività giornalistica procedeva di pari passo con quella parlamentare. All'interno del partito il suo peso aumentava costantemente: nell'aprile 1923 entrò a far parte del direttorio del gruppo parlamentare e, al Congresso di Torino, del consiglio nazionale del partito, in rappresentanza dei deputati popolari.
Nel frattempo però, dopo l'avvento di Mussolini al potere, causa la fedeltà alla direzione sturziana del partito e l'atteggiamento ormai divenuto rigorosamente antifascista, aveva perduto la direzione de «L'Avvenire d'Italia», che nella primavera del 1923 assunse un carattere sempre più marcatamente filogovernativo.
Nel luglio 1923, Cappa fu, con Gronchi, oratore ufficiale del gruppo nel dibattito sulla legge Acerbo. Il deputato genovese, che già aveva reagito assieme ad altri esponenti del PPI ad una possibilista lettera di Meda alla vigilia del dibattito parlamentare, dimostrò, in una rapida analisi, «quanto vi fosse di affrettato e di illogico nel congegno del disegno di legge, e come l'approvazione delle altre frazioni della Camera derivasse da puro calcolo opportunistico». Al momento del voto sulla legge e sulla fiducia al governo, poiché sostenitore di una linea più intransigente di quella decisa dal gruppo con il determinante concorso della destra filofascista che avrebbe subito dopo infranto la disciplina di partito, assieme ad altri sei deputati della sinistra (tra i quali Mauri e Miglioli) abbandonò l'aula. Questo atto gli valse l'aspro attacco del quotidiano che aveva diretto per tanti anni e che ormai era collocato su posizioni di aperto fiancheggiamento del regime. Le elezioni del 1924 videro ancora Cappa in prima linea: candidato nel collegio ligure, dopo avere parlato in una riunione di partito a Savona, il 23 marzo venne aggredito e percosso dai fascisti. Il clima di intimidazione e di violenza non gli impedì di risultare per la terza volta eletto. Anzi, furono proprio i voti delle città, normalmente terreno più difficile per i popolari, a determinare in Liguria il successo suo e di Boggiano Pico.
Dopo l'assassinio di Matteotti, aderì all'Aventino. Divenne uno dei leaders popolari della secessione, tra i più risoluti, assieme a De Gasperi, nel sostenere la necessità di proseguire la protesta morale. Agli inizi del gennaio 1925 scriveva a Sturzo, esule a Londra: «Ieri a Roma si parlava molto di una discesa dallo Aventino delle opposizioni. Io credo sarebbe un errore colossale. In quattro e quattr'otto la maggioranza seppellirebbe una nostra domanda di messa in stato di accusa del governo, pregiudicando, con tale voto, la stessa già impacciata - e come - azione della magistratura». Questa linea non era suggerita dalla fiducia in un intervento della Corona; a lui pareva «che il Re crede proprio opportuno saldare le sue sorti e quelle della dinastia a questo regime». Il motivo stava nella impossibilità di riconoscerè la legittimità di una Camera eletta senza garanzie democratiche: non sarebbe infatti bastato sommare i voti degli aventiniani con le opposizioni costituzionali rimaste in aula, per impedire un voto di maggioranza favorevole al governo. La sua voce aveva ormai carattere di ufficialità: in una intervista al «Giornale d'Italia» aveva escluso categoricamente che i popolari potessero tornare in aula. Nello stesso tempo, anche per la sua particolare sensibilità professionale, avvertiva il rischio che l'Aventino si riducesse a «ordinaria amministrazione», «indebolendosi per il fatto che secessionisti dalla tribuna parlamentare, i sequestri e la censura ci vietano quella giornalistica» e proprio alla promozione e difesa della stampa di partito, negli anni di consolidamento del regime, dedicò le sue maggiori energie. Fu per suo intervento che venne rilevato il quotidiano genovese «II cittadino», che nel 1925, in tempi in cui i maggiori organi di informazione seguivano il percorso inverso, aderì alla linea del partito. Nello stesso tempo curò l'edizione ligure de «II Popolo», preoccupandosi di rendere più dinamica ed efficace la veste dell'organo del partito e di reperire fondi, sempre più scarsi, per garantirne la sopravvivenza. Si consumavano intanto i giorni dell'Aventino. Dopo avere auspicato una concentrazione costituzionale, comprendente i socialisti unitari e che potesse intendersi con i tre vecchi (Giolitti, Salandra, Orlando), e avere con forza difeso, ancora nel giugno, l'astensione contro «lo sproposito di una discesa nell'aula che avrebbe liquidato fallimentarmente un anno di protesta secessionista che infirma tutti gli atti di questo regime», sul finire dell'anno si convinse della inconcludenza della politica aventiniana. Una lettera di Gronchi a Sturzo dell'inizio del 1926 collocava Cappa tra i «descessionisti». Durante lo sfortunato tentativo di rientro in aula, in occasione della commemorazione della regina Margherita, Cappa, che già nell'anno precedente era stato coinvolto in colluttazioni con deputati fascisti nei pressi di Montecitorio, fu percosso assieme ad altri parlamentari del PPI. Fu dichiarato decaduto dal mandato parlamentare con il noto decreto del 9 novembre 1926.
Si stabili a Genova, dove per tutto il periodo fascista si dedicò all'attività forense, rifiutando ogni compromissione con il regime, mantenendo intatte le proprie idee democratiche e divenendo un punto di riferimento per i cattolici che auspicavano il ripristino della libertà. Non è casuale che Sturzo, rispondendo nel dicembre 1943 a un questionario inviatogli da personalità americane circa i rapporti tra Azione cattolica e DC, alla domanda «Who are the most important leaders and members of the Catholic Action and Christian Democratic Party at present?» elencasse come «leaders del movimento democratico cristiano», De Gasperi, Jacini, Gronchi, Rodinò, il siciliano Aldisio e Cappa. Accanto al nome di quest'ultimo e di quello di De Gasperi, il fondatore del PPI annotò: spero sia salvo. Dopo la caduta del fascismo, recuperò un ruolo di primo piano. Consultore nel 1945 e successivamente eletto all'assemblea costituente, divenne uno dei più stretti collaboratori di De Gasperi nella ricostruzione del partito. [TE]