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Giovanni Bertini

24 maggio 1878 - [?]

Scheda

Giovanni Bertini, nato il 24 maggio 1878 a Prato. Studiò al collegio Cicognini, nella sua città natale, e successivamente si iscrisse
alla facoltà di giurisprudenza a Pisa. Iniziò giovanissimo a svolgere un'intensa attività culturale e sociale.
Segretario del circolo della Gioventù cattolica di Prato, presidente del Circolo universitario cattolico di Pisa, pose al servizio della causa cattolica la precocità delle sue doti intellettuali e organizzative. Redattore e «anima» del settimanale cattolico «L'Operaio» di Prato divenne democratico cristiano alla scuola di Giuseppe Toniolo. L'attività di conferenziere, pubblicistica, in particolare su «II domani d'Italia» e la «Cultura sociale», e di organizzatore sociale lo rese popolare. Il divergente giudizio circa il reale significato della Graves de communi re, segnò all'inizio del 1901 la svolta decisiva.
Non ripiegò la bandiera delle idealità democratico-cristiane. Fu promotore, nel 1902, del convegno regionale DC che si svolse a Pisa. Nell'agosto 1902, conseguita il mese precedente la laurea, partecipò al convegno interregionale di San Marino.
Il convegno di Pistoia del novembre 1903 segnò un'ulteriore tappa dell'accentuazione in senso autonomistico e murriano non soltanto dei gruppi DC,
ma dell'intera azione cattolica toscana. Bertini, che nel settembre era stato eletto al consiglio comunale di Prato, fu l'artefice e il protagonista di tale processo. Alla vigilia del congresso di Bologna si presentò come uno dei leaders nazionali del movimento DC. Guardò con speranza al tentativo grosoliano e auspicò la costituzione di una maggioranza che unisse tutte le forze democratiche e respingesse i tentativi di rivincita «venetista». Dopo la crisi dell'Opera dei congressi, nella successiva estate 1904 rimproverò a Grosoli di avere eccessivamente insistito su una linea di compromesso. Denunciò pure l'equivoco per cui «clero e laicato, autorità ecclesiastica e libere rappresentanze di associazioni civili» si erano trovate «promiscuamente confuse nel fare insieme della religione e della politica». Occorreva, dunque, distinguere «praticamente fra organizzazione professionale e organizzazione di partito, fra giurisdizione ecclesiastica e attività civile, fra obbedienza obbligatoria di fedeli e adesione libera di cittadini». Convinto della necessità di «un partito civile e sociale, non confessionale, di laici cattolici, responsabile esso dei suoi atti dinanzi alla Santa Sede», rimase tuttavia persuaso che ciò non potesse essere opera di una ristretta élite, ma conseguenza di un più alto livello di maturazione dei cattolici organizzati, soprattutto nelle associazioni sindacali e professionali.
Nel 1904 il centro della sua attività si spostò dalla Toscana all'Emilia. Fu chiamato dal cardinale Svampa alla direzione dell'Ufficio del lavoro di Bologna. Nel settembre 1904 organizzò il convegno di Riola su temi economici e sociali al fine di sostenere lo sviluppo delle opere cattoliche. Poté anche saggiare le proprie idee in materia elettorale nelle elezioni supplettive del gennaio 1905 nel collegio di Budrio. L'episodio rivela il modo flessibile con il quale interpretò il rapporto con i cosiddetti «partiti d'ordine». Prefigurò una sorta di «patto Gentiloni alla rovescia».
In quei mesi, si andò convincendo degli eccessivi e crescenti vincoli che venivano imposti alle energie giovanili più attive da parte dell'autorità ecclesiastica. Il 21 ottobre 1905 definì i nuovi statuti «un viluppo burocratico di congegni tra loro discordi». A Bologna, il mese successivo, venne fondata la Lega Democratica Nazionale. Apparso in quei giorni tra i più radicali sul tema dell'autonomia, tenne nei confronti della Lega un singolare atteggiamento: promotore e figura preminente nel suo primo anno di vita, non vi aderì mai formalmente con un esplicito atto di iscrizione, a ciò sconsigliato dal cardinale Svampa. Affiorarono, del resto, i contrasti con don Romolo Murri. Sui temi della confessionalità e dell'autonomia richiese, in polemica con Murri, che la pratica del cattolicesimo fosse il requisito principale per l'adesione alla Lega. Accanto ai problemi di natura religiosa, emergevano anche i contrasti politici. Non condivise la linea di intransigenza assoluta nelle competizioni elettorali. Era stato infatti, nell'aprile 1906, l'artefice di un accordo con i liberali che aveva portato alla vittoria del candidato cattolico Carlo Ballarmi per meno di duecento voti su Francesco Zanardi nel collegio di Budrio. Nel 1907 maturò il distacco dalla Lega. Riprese il suo posto nel mondo cattolico proseguendo nell'Associazione dei Comuni italiani la battaglia contro lo stato accentratore. Maturò in questo periodo il suo passaggio dalla dimensione locale a quella nazionale della politica. Nel marzo 1909 fu il candidato dei cattolici a Vergato in opposizione al ministro della pubblica istruzione, Luigi Rava. Fu una candidatura clamorosa, l'unica, oltre a quella «democristiana» di San Giovanni in Persiceto, ad essere posta in concorrenza ad un «costituzionale» in Emilia, e tutt'altro che simbolica, visto che la stessa prefettura non escluse l'ipotesi di un ballottaggio. Rava, tuttavia, prevalse facilmente (Bertini ottenne 131 voti) anche perché buona parte del clero rimase fedele ai consolidati legami clientelari con il deputato uscente.
Nel novembre 1910 prese parte al congresso di Modena. Toccò a lui raccogliere in un ordine del giorno le aspirazioni della vivace e determinata minoranza congressuale. In esso si facevano voti affinché si venissero «meglio determinando la fisionomia sociale e l'iniziativa democratica dei cattolici italiani nel campo della vita pubblica». La sua definitiva consacrazione politica avvenne alle elezioni politiche del 1913. Fu eletto nel collegio di Senigallia (AN) dopo il ballottaggio con il repubblicano Bonopera (ottenendo 4.667 voti contro i 4.312 del suo avversario), senza accondiscendere alle impostazioni gentiloniane, chiamato alla candidatura dall'assemblea delle organizzazioni agricole cattoliche «che intendevano affermare una esigenza di autonomia anche sul piano politico fuori dagli schemi allora prevalenti del clericomoderatismo». Nel 1914 fu anche eletto al consiglio provinciale di Firenze. La prima fase della sua esperienza di «cattolico deputato» fu contrassegnata dall'opposizione alla politica interventista del governo Salandra. Vicino alle esigenze delle classi agricole, avvertì come ad esse sarebbe toccato portare il peso maggiore dell'imminente conflitto: auspicò pertanto una soluzione negoziata delle tensioni internazionali. Il 5 dicembre 14 con Meda, Micheli, Longinotti, Rodinò, Tovini e altri, presentò alla Camera un ordine del giorno «che individuava nella neutralità il mondo migliore per tutelare gli interessi nazionali». Scoppiato il conflitto, fu tra coloro che meglio compresero la necessità per i cattolici di porsi con lungimiranza il problema della loro presenza politica nell'Italia del dopoguerra. Nel 1916 entrò a far parte, con Longinotti, Meda e Rodinò, del comitato di redazione di «La Politica nazionale». Furono anni di intensi contatti, talvolta anche di contrasti e incomprensioni, tra i cattolici deputati sospesi tra un sempre più stretto coinvolgimento nella vita dello stato e le incertezze dell’ora futura. Votò nel 1918, con Micheli, la sfiducia al ministero Orlando e presentò nel novembre dello stesso anno un ordine del giorno, assieme allo stesso Micheli e a Miglioli, Schiavon e Tovini, sui problemi del dopoguerra, dimostrazione della ricerca di una identità collettiva dei parlamentari cattolici. Entrato nel dicembre 1916 nel consiglio di amministrazione della Società editoriale finanziatrice dei giornali del trust grosoliano, si trovò al centro degli intensi contatti per la costituzione di un partito ormai non più ostacolato da veti papali. Nel 1918 partecipò alla fondazione della CIL; al termine dello stesso anno, fu chiamato a far parte della «piccola costituente» del PPI e successivamente della commissione provvisoria incaricata di elaborare il programma del partito.
Nel gennaio 1919 gli fu affidato l'incarico di organizzare il gruppo parlamentare del PPI. Fu promotore della sezione del PPI a Bologna, ai primi di febbraio. Al primo congresso nazionale di Bologna, dopo avere dato un importante contributo all'elaborazione della linea del PPI con l'opuscolo Le riforme politiche nel Parlamento e nel partito, tenne la relazione sulla situazione politica. Denunciò il fallimento morale della Conferenza di Versailles che andava sempre più allontanandosi dal compimento di una pace durevole e giusta. In politica interna invocò il ristabilimento di condizioni di pace con «il ripristino delle guarentigie statutarie, il normale funzionamento parlamentare, la smobilitazione e liquidazione dei servizi e delle opere di guerra, una larga amnistia che cancelli le conseguenze delle giurisdizioni eccezionali, il controllo dei contratti e delle forniture belliche» e insieme reclamò un indirizzo di riforme nel campo economico da parte del governo, soprattutto con il varo di una riforma tributaria in grado di colpire i profitti di guerra e, infine, della riforma elettorale, della burocrazia, degli enti locali.
Entrò a far parte del consiglio nazionale PPI in rappresentanza del gruppo parlamentare. Fu critico nei confronti della decisione del partito di «prestare» propri uomini al primo governo Nitti nel giugno 1919. Alle elezioni del novembre - le prime a svolgersi con il sistema proporzionale per l’introduzione del quale si era battuto in Parlamento e sulla stampa - fu rieletto deputato nel collegio di Ancona Pesaro Urbino. Nelle stesse elezioni fu anche candidato, non eletto, a Firenze. Nel frattempo non abbandonò l'impegno sindacale: fu promotore in Toscana, oltre che delle sezioni del partito nelle varie province, dell'organizzazione mezzadrile bianca della quale si occupò poi attivamente - durante il rinnovo dei patti colonici del 1919-1920 e l'occupazione delle terre - nell'ambito della Federazione nazionale mezzadri e piccoli affittuari, della CIL e poi come presidente della Federazione nazionale delle cooperative di consumo. Nello stesso tempo le sue energie si rivolgevano sempre più verso l'attività di partito, da posizioni di responsabilità nazionale. Nella discussione parlamentare, in occasione del rimpasto del governo Nitti, nel marzo 1920 pronunciò un discorso fortemente critico che pose in discussione tutta la politica del ministero, sia quella estera che interna. Lamentò l'insufficienza dell'impegno sociale e le discriminazioni sindacali a danno dei cattolici. In luogo di una maggioranza «dominata dall'autorità personale di un uomo», chiese che si formasse una coalizione di forze caratterizzata dall'adesione ad un chiaro e concordato programma. Al congresso di Napoli del PPI (aprile 1920) intervenne per reclamare un maggiore impulso organizzativo del partito. Il suo impegno alla causa del popolarismo gli valse un riconoscimento assai significativo: fu chiamato a presiedere il terzo congresso del partito che si svolse a Venezia nell'ottobre 1921. «Nella presenza vostra, o amici - egli disse - mi è caro di salutare come compiuto il voto ed il sogno della nostra gioventù, allorché la costituzione di un partito raccolto in disciplina propria e padrone della sua libertà apparve nelle continue amare disillusioni dei suoi fautori come il desiderio di una meta praticamente irraggiungibile». All'impegno nel partito, accompagnò l'attività parlamentare e governativa al più alto livello. Ricostituitosi nel maggio 1920 un ulteriore governo presieduto da Nitti, vi entrò assumendo l'incarico di sottosegretario ai lavori pubblici, carica che mantenne anche nel successivo ministero Giolitti. Riconfermato deputato nel 1921, per la XXVI legislatura, nel corso del 1922 fu ministro dell'agricoltura nei due governi Facta. La partecipazione al governo in tale delicata responsabilità non fu facile. Presentò un progetto di legge sui contratti agricoli che introduceva il criterio della «giusta causa» per gli escomi nonché l'arbitrato. Riuscì anche, nel maggio 1922, a condurre in porto la legge sulla quotizzazione del latifondo e sulla colonizzazione interna, con la quale si affermò per la prima volta il diritto di prelazione dei coltivatori nell'acquisto di terre. Ciò avvenne, «attraverso una discussione alquanto caotica e nonostante l'indifferenza della maggioranza, l'ostruzionismo larvato dei socialisti, i tentativi di sabotaggio degli agrari interessati». Nonostante la legge fosse stata in parte snaturata dalla battaglia degli emendamenti, bastò l'accenno di una seria volontà riformatrice a scatenare nel paese e nella Camera un'ondata di proteste. Il provvedimento fu tacciato di «demagogia» e si parlò sulla stampa degli industriali come di una ennesima vittoria della borghesia che si lasciava «spennare senza protestare». «Le severe critiche del senatore Einaudi e la dura opposizione dei proprietari terrieri e dei loro rappresentanti parlamentari si congiungevano con la sostanziale ostilità dei socialisti, dettata da motivazioni ideologiche». Riprendendo il progetto di legge, presentato a suo tempo da Micheli, fu il protagonista dell'aspro scontro parlamentare. Subì immediatamente i contraccolpi negativi del suo atteggiamento. Dalla città natale di Prato, dove la lotta tra fascisti e popolari aveva assunto toni violentissimi, fu addirittura minacciato di bando da parte delle squadre fasciste «veri e propri esponenti del gretto industrialismo locale», secondo il rapporto del prefetto di Firenze. Dopo l'avvento di Mussolini al potere, imboccò senza esitazione la strada dell'opposizione: egli stesso ricorderà più tardi come fosse stato tra i pochissimi a negare la fiducia al nuovo governo nei concitati giorni immediatamente successivi la marcia di ottobre. Nella drammatica estate del 1923 che, tra le dimissioni di Sturzo e il dibattito parlamentare sulla legge Acerbo, segnò la fase più acuta di crisi del popolarismo, fu tra i più intransigenti difensori delle ragioni del partito e respinse ogni tentazione di abdicare dal proprio ruolo storico: in tal senso unì la propria voce a quella di altri dirigenti del partito nel giudicare l'atteggiamento di Meda, fra i primi a pronunciarsi a favore del voto del PPI alla legge elettorale, come un pericoloso atto di cedimento politico e morale. Alle elezioni del 1924, si ripresentò candidato, ma non fu rieletto. L'elettorato marchigiano gli preferì, infatti, per 300 voti Umberto Tupini. Nel corso della campagna elettorale subì intimidazioni e minacce da parte delle bande fasciste.
Dopo avere condiviso la protesta aventiniana che sfociò in un nuovo rifiuto del re ad intervenire a difesa delle libertà statutarie (già due anni prima, assieme a Giovanni Amendola aveva senza successo cercato di ottenere dal sovrano la firma al decreto di stato d'assedio), fu costretto a deporre temporaneamente le armi della lotta politica, pur continuando fino al 1928 nelle aule di tribunale una sua significativa battaglia nel tentativo di salvaguardare le garanzie statutarie. Nel momento in cui vedeva con amarezza la distruzione della ricca fioritura di opere sociali cattoliche che nel corso di venticinque anni di attivissima militanza aveva contribuito a realizzare, ed insieme la fine della prima esperienza partitica dei cattolici italiani, per la quale fin dagli anni della primissima giovinezza si era battuto, forzatamente dovette rassegnarsi ad una lunga e dignitosa attesa, preparando con discrezione e coerenza la stagione della riscossa democratica. Ritornò alla professione dì avvocato e si dedicò anche alla pubblicazione di alcune impegnate ricerche di storia e spiritualità. Dopo la lunga parentesi fascista, rientrò in contatto con la politica attiva.

All'indomani dell’8 settembre 1943, Raimondo Manzini , direttore de «L'Avvenire d'Italia» ricevette una telefonata di Spataro da Roma, per sollecitarlo a recarsi ad assumere l'incarico di rappresentare la DC in sede nazionale oltre ad esercitare il coordinamento a Bologna. Accettò l'invito. I figli hanno testimoniato che per ben due volte fu messo dai fascisti in una lista di proscrizione: nel dicembre 1944 e nell’aprile 1945. Nell'immediato dopoguerra venne nominato presidente dell'Ordine degli avvocati di Bologna. Il suo nome è stato dato ad una strada di Bologna.
Ha pubblicato: Per gli avvocati bolognesi vittime dei nazifascisti, Discorso commemorativo, pronunciato a Bologna il 25 novembre 1945 nell'aula della Corte d'Assise, in «Critica Penale», n. 1, fasc. I, gennaio-febbraio 1946. [A-TE]