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Ricordi medicinesi del 1945

1944 | 1945

Schede

Che si provenga da qualsiasi dei punti cardinali, passando esternamente o andandoci, Medicina già alcuni chilometri prima offre un affascinante orizzonte di campanili. Una sorta di corteggio che attornia quello della chiesa arcipretale di San Mamante dominante con i suoi 53 metri di altezza – al campanél d'piaza – l'originale opera d'arte progettata da Carlo Francesco Dotti, (autore della basilica di San Luca, affacciata dal Colle della Guardia su Bologna), la cui costruzione è durata ben 22 anni, dal 1755 al 1777.

Una età, la sua, pressapoco vicina a quelle degli altri, ma originale in quanto esso sorge per conto suo, cioè assai separato dal tempio. Il paesano che da moltissimo tempo vive altrove prova sempre una viva emozione. È come un ritorno a casa. Comincio dalla precedente notazione perché mi ha molto colpito la fotografia che fa da copertina al precedente Brodo di serpe, n° 13 dicembre 2015, che ritrae il campanile visto dall'alto a distanza ravvicinata, in una scenografica porzione di tetti a coppi. Cosa c'entra il campanile? C'entra eccome. Quella foto ha risvegliato nella mia mente anni della fanciullezza e della prima adolescenza. Ed anche quella della copertina di Brodo di serpe n. 4, dicembre 2006 con il frontespizio dell'oratorio della Madonna del Carmine di Muzzaniga (dove sono nato in casa nel '30 dello scorso secolo e vissuto i successivi tre anni, poi il trasloco, al sbagai, in paese), sul cui restauro ha scritto nel suo accurato saggio Claudio Bragaglia.

Il campanile di allora è stato un divertimento per noi chierichetti che ci disputavamo il privilegio di servir messa, specie di domenica quando eravamo a casa da scuola, ed in estate nel periodo di vacanza, ed aiutavamo il mite sacrestano Mamante (nome realmente suo o di riferimento al beato patrono? mai chiarito) nella cella di basso a tirare una o più corde delle quattro campane su in cima. Per suonare o la chiamata a messa, o il mezzogiorno con quella grossa, il vespro, o per accompagnamento di funzioni non liete. Naturalmente la nostra richiesta insistita a Mamante di poter salire in un giorno di festa su a vedere i campanari all'opera. Io ed un mio amico (non ricordo chi) finalmente ottenemmo il premio. Con vive raccomandazioni ci aprì la porticina che dà nella vertiginosa sequenza dei duecento gradini. Salendo, col cuore in gola, guardavamo dai finestrini dei quattro lati gli stupefacenti panorami: l’azzurra collina verso Castel San Pietro, dalla parte opposta, la immensità della valle (o “in giù” come appellavano i nostri genitori braccianti), tracciata solo da file antivento di pioppi su cavedagne di risaie fiancheggiate da fossati adduttori di acqua dal Canale di Medicina. Ancora, dalle parti di mattino e di sera, la ricchissima campagna dei poderi delimitati da alte siepi di rovo, con la geometrica perfezione – stile centuriazione romana – degli appezzamenti, i filari delle “piantate” di gelsi con fogliame per l'allevamento dei bachi da seta e di olmi, ognuno di quegli alberi in fila con due pali a braccia aperte a reggere le viti delle uve bianca e nera. Da tempo quei panorami sono diversi, con l'avvento della meccanizzazione in agricoltura che ha abbondantemente (purtroppo) spianato i campi. Il frastuono crescente del “doppio” delle quattro campane, col “dooon” impressionante della grossa, ci paralizzò quando dalla botola del pavimento in legno entrammo nella cella campanaria. Una fifa (che fifa!), il campanile, più di lievi accenni avvertiti prima, quassù ondeggiava. Maggiormente se uno dei quattro campanari perdeva la cadenza dell'intreccio perfetto con il moto. Ci dissero di restare fermi seduti sul muricciolo. Appena finito il doppio, senza salutare e con le gambe tremanti, uscimmo attraverso la botola e piano piano, rasenti il muro, riguadagnammo la terraferma.

Durante la guerra, quando il cielo sovrastante fu dominato dagli aerei anglo-americani, sul tetto dell'antico palazzo in fondo a via Cavallotti – già sede della vecchia Camaraza gestita molto tempo prima dai Buzzetti – accanto alla grande parete con la nicchia della Madonna (appunto cuntrè d'la Madòna), venne piazzata una garitta di legno in funzione di avvistamento e allarme. Era presidiata a turno, giorno e notte, dai facchini medicinesi. L'allarme era dato dal suono lamentoso di una sirena azionata vigorosamente a manovella. Allora la gente correva nei sotterranei-rifugio o cantine rinforzate. Ma vi era chi correva al campanile di piazza, il cui ingresso era stato protetto con un muretto in mattoni legati da cemento armato distanziato di un paio di metri o poco meno. Curioso, no? Invece si. Per tanta gente, infatti, il campanile era ritenuto – sentite un po' la teoria di allora – più sicuro per almeno due motivi: il principale perché edificio sacro, dicevano fiduciosi i credenti; il secondo, perché una bomba cadendo dall'alto sulla sommità a punta sarebbe scivolata in fuori per scoppiare più lontano.

Ma una notte, inizio '45, accadde l'imprevedibile, a dir poco. C'erano dentro solo due donne, madre e giovane figlia profughe da Salerno - la città tirrenica sottoposta ai continui bombardamenti preparatori dello sbarco degli Alleati - appartenenti ad un gruppo ospitato nella sala ex bar della casa del fascio. Lì nel campanile si sentivano al sicuro. Accadde invece l'increscioso: entrò un soldato tedesco il quale (considerandolo un diritto?) cominciò a disturbare la bella ragazza. Dopo gli inutili tentativi di autodifesa, sia lei che la madre cominciarono ad urlare, mettendo così in fuga, diciamo così, l'importuno. Il mattino dopo esse informarono il commissario prefettizio Solofrizzo, molto vicino alla signorina, il quale a sua volta sollecitò l'intervento del capitano Rewolle, responsabile del Militarplatzkcommandantur per individuare il responsabile. Nel giardino di Villa Maria vennero allineati una decina di soldati, al cospetto delle donne, che però del reprobo non videro traccia. Naturalmente. Così, a parte i commenti paesani, tutto finì nel nulla di fatto. L’ultima sul campanile è del 13 aprile 1945, il fronte sulla linea dalla Romagna in qua era dominato dall'offensiva dell'VIII Armata britannica (con canadesi, neozelandesi, nepalesi gurkha, italiani fanti della “Cremona” e paracadutisti della “Nembo”). In mattinata io ed il mio amico Carlèn bucèn (Carlo Zuppiroli) accanto alla fontana di piazza guardiamo le evoluzioni di alcuni cacciabombardieri allorché, con ululato lacerante, uno dopo l'altro si avventano in picchiata sul paese.

Noi due corriamo al campanile ma sia la cella che il piccolo spazio del muretto d'ingresso sono già stipati di gente terrorizzata. Noi due restiamo sulla soglia quasi in esterno, quando arriva un soldato tedesco con gli occhi fuori dalle orbite che violentemente ci strattona spingendoci via e prende il posto per mettersi lui al sicuro. Detto fatto, di corsa, tra raggelanti mitragliate ed esplosioni, raggiungiamo il vicino Partenotrofio femminile (dal cunvintin) che ha il portone socchiuso dal quale c'é chi sta sbirciando. Anch'esso con l'atrio affollato. C'è chi prega, chi piange. Durò mezz'ora la sarabanda di motori raffiche ed esplosioni. Alla fine usciamo in strada e vediamo un affollamento al campanile. Pensando al peggio andiamo a vedere: in terra in una pozza di sangue c'è il soldato tedesco che prima ci aveva spodestati, colpito, lì dove c'eravamo stati noi, dalle schegge di proiettili di mitraglia di grosso calibro esplosi sull'asfalto accanto. Quale sia stata la sua sorte non lo sapemmo. Noi due ci separammo: io andai rapidamente a casa in via Fornasini. Mio padre sulla porta di strada che mi attendeva in ansia severa non sapendo dov'ero, mentre mia madre e la sorella Dina, contadina nel podere di via Montanara, venuta a Medicina per partorire (avvenne due giorni dopo) e mio fratello Vanes, erano già in rifugio nello scantinato del palazzo dirimpetto. Appena in tempo per un nuovo devastante bombardamento che – tra i diversi altri in paese – demolì l'edifico accanto, dei Brini (meccanico di biciclette e negozio di fucili da caccia). Nel nostro rifugio aria irrespirabile per polverone e sentore di esplosivo, urla e invocazioni. Riuscimmo a sollevare la botola ostacolata da ogni cosa. In strada vedemmo il disastro: la casa accanto non c'era più e dalle macerie uscire figure imbiancate come fantasmi. E con esse il mio amico Mario Bonzi (Pìffane), fortunatamente tutti salvi. Due giorni dopo, il 16 aprile la Liberazione.

Post Scriptum. Mentre ancora tanta gente assieme a militari di varie nazionalità festeggiavano in strada brindando con fiaschi e bicchieri a ripetizione, un conoscente venne a casa nostra accompagnando uno dei giovani soldati stranieri, il quale gli aveva chiesto della famiglia di Enea Barbieri, mio padre. Sorpresa: era un neozelandese latore (diciamo così) di una lettera del fratello del babbo, lo zio Ermete, che abitava a Ca' di Lugo nel ravennate fin da quando nell'adolescenza era stato mandato dalla famiglia povera a garzone da contadino e là aveva messo poi su famiglia. Ci scriveva per dire che tutto sommato loro stavano bene ma che il frutteto non c'era più, come tanti altri, raso al suolo dai tedeschi per garantirsi la visuale e il campo libero al di la degli argini del Senio. Il neozelandese, addetto ai servizi logistici, durante la stasi del fronte era diventato amico di famiglia e ne frequentava la ospitale casa nei quattro mesi invernali del 1944 e i primi del '45. Allorché lo zio seppe da lui, ad offensiva d'aprile già in corso, che i neozelandesi coi camion stavano preparando il trasferimento dei depositi di munizioni proprio nella campagna alla periferia di Medicina azzardò la proposta di cui sopra. L'inimmaginabile incontro col camionista militare fu di grande cordialità. Siccome il vino sulla nostra tavola c'era assai raramente, fui mandato giù nella vicina fiaschetteria di Cappelletti, angolo piazzetta – via Corridoni - a comprare una bottiglia per brindare subito tutti assieme, e un fiasco per dono all'ospite. Il quale si mise a parlare ed a parlare un po’ in inglese (che non capivamo) inframmezzato da parole in italiano che aveva imparato nei mesi dell'avanzata dal meridione, e addirittura con qualche altra in romagnolo. Divertimento a più non posso. Finì tutto dopo un ora abbondante con strette di mano, abbracci e baci.

Remigio Barbieri

Testo tratto da "Ricordi a partire dagli amati campanili" in "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 14, ottobre 2016.