Schede
Nell’Ottocento in Italia veniva spesa per l’alimentazione una quota molto rilevante delle entrate medie di una famiglia: quasi l’80% negli anni Ottanta e circa il 60% agli inizi del Novecento. Tale percentuale, notevolmente calata negli anni Cinquanta del XX secolo, sarebbe poi ulteriormente diminuita: ai giorni nostri è inferiore al 20%. Gran parte della popolazione bolognese viveva in povertà (più accentuata in campagna, soprattutto nella zona montana) e si cibava dunque principalmente di alimenti a basso costo quali pane, pasta o riso.
Pane
Per molti, il pane era l’unico alimento quotidiano: costituiva “il cibo assoluto” nel mondo contadino e plurisecolare descritto da Camporesi nel saggio Il pane e la morte. Nella campagna e nella zona montana di Bologna prevaleva l’autoconsumo degli alimenti e il pane veniva spesso preparato e cotto dalla famiglie. In città erano presenti vari negozi che preparavano e vendevano pane che costava circa la metà o un quarto della carne. Fra le varie tipologie in vendita presso i fornai, il genere più economico (e per ciò più diffuso fra i meno abbienti) era rappresentato dal pane “venale”, comune e di bassa qualità, costituito da farina di grano e di cereali minori con crusca. Tra le tipologie di miglior qualità erano i pani preparati con farina di grano come il pane “di fiore” e, più ambito, il pane “di lusso”, preparato con aggiunta di strutto, latte o olio. Nel 1810, 30 once (circa 900 grammi) di pane “venale” costavano 20 centesimi; per la stessa somma si potevano acquistare 24 once (720 grammi) di pane “di lusso”.
Il pane “venale” e quello “di fiore” venivano venduti in grosse pezzature, costituite da quattro, sei, otto pani (mammelloni) uniti in coppia o in fila, come le tradizionali “tiere” o i “ruzzoli”, mentre il pane “di lusso” veniva offerto in piccola pezzatura. La forma complessa di “tiere” e “ruzzoli” permetteva, rispetto a una unica grande pagnotta, una migliore evaporazione dell’acqua durante la cottura consentendo una migliore conservazione ed evitando che troppa acqua residua venisse pagata dagli acquirenti come farina. Inoltre la forma complessa era facilmente suddivisibile. Nella prima metà dell’Ottocento prevalevano ancora la “tiera” e i “ruzzoli”; presero poi piede altre tipologie di pane, in particolare il pane viennese, preferito dai più abbienti, e il pane francese, piemontese, ferrarese e altri formati come le “crocette”, i “montassù”, le “code di rondine”, i “garofani”. Nella seconda metà dell’Ottocento si cercò di stimolare anche il consumo di pane di patata. Il pane “bianco” era riservato ai consumatori più agiati, mentre la gran parte della popolazione doveva accontentarsi dei pani meno pregiati, più scuri. Un proverbio bolognese recita: “Méi pan brón che pan inción” (Meglio pane bruno che pane nessuno). Frequentemente il pane a Bologna era scadente, spesso preparato male e cotto male. Negli ultimi decenni dell’Ottocento con l’introduzione di modelli di forni innovativi la qualità migliorò notevolmente. Il consumo di pane era molto più elevato di oggi: nel 1861 ne veniva consumato circa 1 Kg al giorno per persona, rispetto ai 100 grammi dei nostri giorni.
Nelle relazioni per l’inchiesta agraria Jacini (1881), il pane risulta essere tra i principali indicatori delle differenze fra le varie fasce in cui viene divisa la “geografia alimentare” della regione. Pochissimo pane, per la maggior parte di mistura, veniva consumato dai montanari che ricorrevano ampiamente a polenta di granoturco o di castagna; condizioni migliori si registravano via via nelle aree collinari e pianeggianti, ma non nelle valli, zone di bassa pianura a coltura umida e poverissime. In città il pane veniva prodotto nei forni anche più volte al giorno, mentre nelle campagne il pane veniva preparato solo 2-3 volte al mese, con problemi di conservazione. A metà dell’Ottocento nel territorio bolognese la controversa imposta sul macinato scatenò sommosse in molti Comuni sin dal 1° gennaio 1869, giorno in cui entrò in vigore la legge che la introduceva. A San Giovanni in Persiceto quattromila insorti del contado raggiunsero la piazza del paese saccheggiando edifici pubblici fra il suono delle campane, e si udì inveire contro il re e inneggiare a Pio IX. L’esercito inviato contro di loro aprì il fuoco: ci furono dieci vittime e centinaia di arresti. Questi tumulti non coinvolsero le popolazioni urbane, ma quasi esclusivamente le aree di campagna. Le imposte gravavano su tutta la filiera di produzione, tanto che, come riporta Giuseppe Moricola, una stima dell’epoca affermava: “su di ogni sette bocconi di pane, quattro sono cibo e tre sono tasse. Questo sì che si chiama un pane salato!”
Alla fine del XIX secolo la situazione alimentare a Bologna era piuttosto critica e le misure per calmierare i prezzi non si dimostrarono efficaci, cosicché vennero attivate varie iniziative per sollevare le condizioni dei più disagiati: le Cucine Economiche, le Cucine Operaie e le Cucine di Beneficienza, nelle quali il pane era elemento fondamentale assieme alla pasta e al riso. Per contenere i costi alimentari della popolazione erano sorte anche le Cooperative di Produzione e quelle di Consumo. Tutte queste attività non riuscirono tuttavia ad evitare l’acutizzarsi della crisi negli anni precedenti la Grande Guerra. Il Comune, sotto la guida del socialista Francesco Zanardi (chiamato poi “il sindaco del pane”), attuò nel 1914 una strategia innovativa con l’apertura di spacci alimentari che vendevano generi di prima necessità a prezzi inferiori a quelli praticati negli altri negozi: ad esempio nel 1915 il pane veniva venduto negli spacci comunali a 50 centesimi al chilo, contro i 60 centesimi dei negozi privati. Questi negozi del Comune vendevano anche farina, cereali, legumi, latte, burro, formaggi, carne, frutta e altri generi di prima necessità come il carbone e la legna. Tutto era venduto a basso costo: le mele a 20 centesimi contro 40-50 dei negozi privati, il riso a 45 rispetto a 55-60; erano inoltre prodotti controllati e di buona qualità, mentre nei negozi privati spesso erano di scarsa qualità e/o adulterati. I negozi del Comune furono quindi molto apprezzati dalla popolazione e furono seguiti nel 1917 dall’istituzione dell’Ente Autonomo dei Consumi che perseguiva gli stessi obiettivi ma con un maggiore livello di pianificazione e di organizzazione.
Pasta
L’elevata necessità calorica di chi svolgeva lavori manuali, cioè gran parte dei bolognesi, era soddisfatta soprattutto dal consumo di pasta oltre che di pane. Vari tipi di pasta secca (spaghetti, maccheroni) o fresca venivano consumati variamente conditi secondo la diversa capacità economica o la disponibilità di alimenti prodotti in proprio: olio, lardo, burro, formaggi, salse a base di carne come il “ragù” o di pomodoro (quest’ultimo entrato nell’uso bolognese a metà dell’Ottocento) o di altre verdure o a base di pesce e molluschi (soprattutto il venerdì o nei giorni di vigilia, “di magro”). Era la pasta fresca all’uovo, soprattutto fatta in casa, a prevalere, nelle sue varie forme: tagliatelle, gramigna, maccheroni, fidelini, stricchetti, quadretti, “taglioline da suora”, lasagne (verdi perché fatte con spinaci nell’impasto) e, naturalmente, tortellini. Specialità come i tortellini comparivano sulle tavole della popolazione meno agiata in poche occasioni: il giorno di Natale e in qualche altra festività. Le tagliatelle, allora come oggi, erano larghe per abbinarle al ragù, più strette per la preparazione col prosciutto, ancora più strette per la minestra in brodo. La regola prescriveva che in ogni caso fossero lunghe, seguendo l’antico proverbio, riportato anche da Pellegrino Artusi, “conti corti e tagliatelle lunghe”. Anche gli stricchetti venivano consumati sia come pasta asciutta che come minestra in brodo (in questo caso nell’impasto veniva incluso un “odore” di noce moscata). È da ricordare che a Bologna ancora oggi quando si parla di “minestra” si intende sia la pasta in brodo che quella asciutta.
Seguendo Varni in un ideale “viaggio nell’Emilia-Romagna della pasta ripiena e dei brodi” si capisce perché la sfoglia costituisca un elemento di importanza fondamentale per questa Regione: se da un lato infatti le varie città da Rimini a Piacenza e le tante aree locali sono accomunate dalla sfoglia, dall’altro è ancora la sfoglia, con l’ampia varietà dei formati e i dei ripieni, a renderle fra loro differenti. Varni si rifà alle parole di Camporesi quando quest’ultimo - benchè preoccupato dalla crescente tendenza al “livellamento alimentare” - nel 1977 osservava: “l’identità regionale e quella municipale vengono riscoperte grazie a un processo di recupero della memoria culinaria contadina, attraverso il consolidarsi di un’idea alimentare regionale e d’una fondamentale continuità col passato”. Nel territorio bolognese sono di casa i tortellini - non “cappelletti”! - con ripieno di lombo di maiale, prosciutto, mortadella, introdotta a metà Ottocento, parmigiano, uova, noce moscata (dosi e aggiunte variabili da famiglia a famiglia); tortelloni “di Vigilia” con il ripieno di ricotta e prezzemolo e non “agnolotti” o ravioli con spinaci né “cappellacci” con ripieno di zucca, tipici di altre zone. Soprattutto dagli anni dell’Unificazione una prima struttura industriale pastaria si innestò sulla precedente esperienza artigianale di botteghe a conduzione familiare e piccoli laboratori sviluppatisi durante la Restaurazione. Nell’evoluzione della produzione pastaria bolognese, notevole rilievo ebbe l’industria meccanica, in grado di fornire impastatrici, torchi ed altri macchinari, che trasse a sua volta giovamento dall’interazione con la produzione alimentare. Queste prime realtà industriali assunsero progressivamente maggiori dimensioni e, grazie anche al ruolo nodale di Bologna nelle comunicazioni della Penisola, si aprirono a nuovi mercati.
Tra le prime aziende produttrici di pasta è da segnalare quella dei fratelli Gavaruzzi e tra le industrie meccaniche quella di Alessandro Calzoni. Soprattutto dopo l’Unità numerosi furono i pastai e le aziende che producevano pasta fresca e secca ed alcuni tipi speciali come la “pasta glutinata”, “indicata per bambini e ammalati”. Il genere più richiesto era rappresentato comunque dai tortellini, destinati anche all’esportazione grazie ai progressi tecnici che permettevano un’alta produzione e una buona conservazione. Alla diffusione di tortellini confezionati ed esportati in Europa e in America, premiati con medaglie e altri riconoscimenti nazionali ed internazionali, contribuirono macchine automatiche impastatrici, per “tirare” e tagliare la sfoglia, per accelerare l’essicazione, per macinare il ripieno e macchine per il confezionamento (in scatole metalliche, ceste, scatole di legno o cartone). Si assiste quindi negli anni ‘70-’80 dell’Ottocento all’avvio di una trasformazione: l’industria agroalimentare (soprattutto tortellini, mortadella e prodotti caseari) assieme all’industria meccanica vennero a sostituire l’industria tessile (seta e canapa) come attività di punta di Bologna e della regione. Un’ indagine statistica condotta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio riportava nel 1899 nella provincia di Bologna la presenza di 222 fabbriche di paste da minestra. Solo 7 di queste (di cui 5 nel Comune di Bologna) si giovavano di motori meccanici. Delle bolognesi, 4 producevano pasta comune e 1 era dedita alla produzione di tortellini: la ditta Zambelli (poi acquisita da Paolo Atti). Nell’indagine è segnalata, tra le più rilevanti produttrici di tortellini, la ditta di Luigi Bertagni che non faceva uso di motori meccanici, privilegiando la produzione interamente manuale. La ditta Bertagni era stata fondata nel 1882 da Luigi Bertagni, assieme ai fratelli Ferdinando e Oreste che, separandosi da Luigi, diedero poi vita ad una seconda ditta (la F. O. F.lli Bertagni). L’attività dei Bertagni vantava anche la produzione di paste con spinaci e “capelli d’angelo”, ma furono i loro tortellini a divenire famosi in tutto il mondo.
Tra gli illustri personaggi dell’epoca estimatori dei tortellini vengono ricordati Carducci, Pascoli e Marconi. Quest’ultimo se li faceva inviare anche quando era lontano dall’Italia. I tortellini erano presenti nel menù (in francese) del famoso pranzo a cui parteciparono Carducci e D’Annunzio, organizzato a Bologna nel 1901 nella sede del giornale “Il Resto del Carlino”. Analogamente ad altre categorie di lavoratori, verso la fine dell’Ottocento le addette alla produzione dei tortellini si erano riunite nella “Lega delle tortellinaie”, associazione sindacale impegnata nel miglioramento delle loro condizioni lavorative, a dimostrazione della rilevanza assunta a Bologna dal settore alimentare e del forte coinvolgimento delle donne nelle rivendicazioni di questo comparto. Le tortellinaie che lavoravano nella ditta dei fratelli Bertagni (che impiegava circa 20 uomini e 95 tortellinaie) furono ad esempio protagoniste di uno sciopero nel 1909 contro il licenziamento di 42 lavoratrici, sciopero cui non parteciparono i 20 uomini.
Riso
Altro alimento di largo consumo nell’Ottocento era il riso, utilizzato in brodi di carne, in zuppe di verdura, col brodo di fagioli, asciutto col ragù, in risotti. Fu nel periodo dell’occupazione francese che si diede nuovo impulso alla sua coltivazione. L’estensione delle aree sfruttate come risaie si ampliò rispetto al periodo precedente, quando appezzamenti di terra per la coltivazione del riso erano già presenti, ma di piccole dimensioni. La risicoltura era ritenuta non esente da rischi, come ad esempio favorire la diffusione di epidemie causate dalle esalazioni malsane, tuttavia permetteva profitti cospicui, ed era forte l’intreccio con gli investimenti di tipo capitalistico. Aristocratiche famiglie bolognesi come i Bentivoglio, i Gozzadini, i Pizzardi, possedevano appezzamenti dedicati alla coltivazione del riso, cereale che mostrò un incremento progressivo durante tutto il secolo, sia nella produzione che nei consumi. Diversamente dal grano prodotto nell’area bolognese, che era in gran parte utilizzato nei forni e dai pastai locali, il riso destinato alle tavole dei bolognesi era solo il 20-30% della produzione totale del territorio. Dalle rilevazioni statistiche del Ministero dell’Agricoltura, nella Provincia di Bologna si riscontra, fra il 1887 e il 1899, una diminuzione del numero di brillatoi, determinata principalmente dalla cessazione dell’attività per alcuni stabilimenti nei Comuni di Bologna, Castelfranco nell’Emilia e Casalfiumanese. A questa riduzione numerica si contrapposero miglioramenti tecnologici nei brillatoi rimasti attivi che determinarono un aumento della produzione. Trentacinque sono i brillatoi della provincia di Bologna riportati nella statistica ministeriale, tre dei quali con motori a vapore. Fra questi ultimi, da segnalare il brillatoio Fratelli Poggioli di Bologna. Va sottolineato che la tecnica della brillatura, dalla quale sarebbe derivata l’evoluzione industriale della lavorazione del riso, è dovuta ad un errore fortuito nella lavorazione presso la riseria Poggioli nel 1869. Per l’attività dei brillatoi si acquistava riso anche da altri produttori emiliani e in minore quantità anche dal Piemonte, dalla Lombardia e dal Veneto. Il prodotto finale veniva in gran parte esportato.
Il periodo 1880 – 1910 vide un peggioramento generale delle condizioni di vita e un ulteriore impoverimento del regime alimentare dei bolognesi. La crisi agraria, dovuta soprattutto alla concorrenza di vaste colture nelle Americhe e in Asia, e la trasformazione industriale determinarono in ampie zone dell’Europa e dell’Italia una diminuzione dei prezzi delle colture più importanti e contrasti più acuti nelle condizioni di lavoro. Nelle campagne bolognesi vennero colpite dalla concorrenza e dall’abbassamento dei prezzi soprattutto le coltivazioni di grano, mais e riso. Il periodo fu caratterizzato dall’intensità e durata delle lotte dei lavoratori delle campagne. L’abbandono di parte dei terreni risicoli, l’aumento della disoccupazione, la riduzione dei salari diedero luogo a scioperi e dimostrazioni, in numerosi Comuni della Provincia e della Regione, che videro in primo piano le mondine e coinvolsero anche braccianti disoccupati. La crisi agraria e la trasformazione industriale comportarono quindi mutamenti strutturali nella sfera economica, tecnologica e sociale, ed anche la lavorazione degli alimenti, il loro commercio e lo stesso regime alimentare della popolazione subirono forti mutamenti.
Ad accelerare tali trasformazioni già in corso avrebbero contribuito gli anni della Grande Guerra: anche nel contesto bolognese, il conflitto e le sue conseguenze altereranno profondamente tutti gli equilibri preesistenti.
Stefano Lollini
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