Schede
Ganzanigo. Il mondo fuori dalla casa rossa era davvero piccolo: alcune case allineate ai due lati della strada provinciale, la stradina che portava alla chiesa lungo la quale vi erano le scuole elementari, qualche bottega e campi di grano tutto intorno. Per noi bambini era ancora più piccolo perché erano pochi i posti in cui ci era permesso di andare.
Uno di questi era la bottega della Merope, in pratica l’unico spaccio del paese: una botteghina minuscola, sempre aperta perché da una porticina dietro il banco di vendita si accedeva alla cucina dei proprietari che era - come in tutte le case - l’unica stanza abitata, e il bottegaio era quindi sempre disponibile all’entrata dei clienti. Il banco di vendita disposto ad angolo retto divideva in due parti la bottega: la parte frontale era riservata alla vendita di alimentari e drogheria, il bancone laterale fungeva da tabaccheria e da osteria. Era questa la zona di Pippone ostetabaccaio, un giovanottone grande e grosso come lascia intuire il suo nome che lì si intratteneva con un certo numero di clienti fissi che bevevano bicchieri di vino e discutevano con lui di caccia, accompagnati da una serie di cani bavosi accovacciati ai loro piedi.
Quanto alla Merope, una vecchietta secca di età indefinibile addetta all’altro reparto, per molto tempo ho creduto che fosse la madre di Pippone, fino a che mi fu detto con aria scandalizzata che era “signorina”. La Merope “era” la bottega, credo che abbia vissuto tutta la sua vita lì dentro, parte lei stessa dell’arredamento. Per qualsiasi bisogno casalingo, burro, zucchero, mortadella, noi bambini venivamo mandati dalla Merope (e mai per una spesa intera, ma sempre solo per un singolo prodotto alla volta, e non ho mai capito il perché). Noi comunque andavamo volentieri perché era pur sempre un giretto fuori di casa e la bottega aveva un che di misterioso e di oscuro, forse anche per la penombra quasi totale. Dall’alto del soffitto pendevano sul banco fin quasi a toccare gli alimentari delle lunghe strisce di carta moschicida piene di mosche appiccicate morte o agonizzanti, talune ancora ronzanti o che dibattevano le ali. Anche quello mi stupiva e mi incuriosiva, come potesse la Merope servirti e parlarti al di là di quello sbarramento di mosche morte, apparendo e sparendo tra le strisce di carta. La bottega di Vincenzo, il fruttivendolo, invece era più accogliente: appena entrati sul lato destro le cassette di frutta e verdura, al centro della stanza il tavolo e le sedie in cui lui e la moglie mangiavano, su una parete la credenza della cucina, su un’altra una distesa incredibile di tegami di rame appesi al muro tutti lucidissimi e brillanti e in un angolo la moglie, seduta a quello che credo fosse un telaio a mano, filava la lana da mattina a sera. Una scena da pieno Ottocento.
Da Aldo il fornaio (mi sembrava già vecchio allora, e invece ho saputo che è morto qualche mese fa, a cento anni tondi) andavamo invece a prendere le crescentine al mattino da mangiare con i chicchi d’uva, e intendo proprio i chicchi, perché non staccavamo mai i grappoli ma solo gli acini uno ad uno, e alla fine dalla vite rimanevano a penzolare i grappoli vuoti. Ma ci andavo anche per farmi risolvere quei terribili problemi di aritmetica in cui due treni partono alla stessa ora ma vanno a velocità diversa, e a qualcuno interessa moltissimo sapere a che ora arriverà il primo e a che ora il secondo; oppure quelli in cui una vasca viene riempita di acqua e poi subito svuotata e si vuole sapere quanti sono i litri di acqua e quali i tempi di svuotamento e cose del genere, e a me sembrava tutto assurdo perché in casa nostra esisteva solo il rubinetto del secchiaio per lavare i piatti, più un lavandino per mani e faccia e una catinella per fare il “bagno”, che comunque bagno non era perché bisognava lavarsi a pezzetti dato che nella catinella non ci si entrava tutti interi. Ricordo il rito della “lavazione” del sabato pomeriggio; nella catinella posta su una sedia ci si lavava dalla cintura in su, poi messa in terra la catinella vi si entrava per lavarsi dai piedi alla vita. Credo che anche noi, nel nostro piccolo, non fossimo normalmente molto puliti, ma si sa, è una necessità per i poveri essere brutti e sporchi, e poi ci si meraviglia se diventano anche cattivi. ...Quando era stagione vedevo le mondine che tornavano verso sera dalle risaie: venivano su per la strada della chiesa di ritorno dalla “Malvazza” cioè Selva Malvezzi, in bicicletta, con i loro fazzolettoni in testa con un’enorme visiera di cartone incorporata a ricoprire il viso per ripararlo dal sole, e stivaloni di gomma alti fino alle cosce, e le loro povere cose, tegamini, borracce, legate alla bicicletta. E la Berta, anch’essa mondariso stagionale, ci raccontava alla sera del loro lavoro durissimo, delle loro rivendicazioni, dell’arrivo improvviso dei celerini a menare botte.
Erano gli anni delle lotte sindacali e anche a noi bambini ne arrivava l’eco. Il centro della vita politica di Ganzanigo era il “Circolo”, così veniva chiamato un grande edificio di fianco a casa nostra a due piani, convesso, rotondeggiante e di stampo vagamente fascista: era invece il centro dei lavoratori, con uno spaccio cooperativo e un grande bar-osteria al piano terra e una enorme sala per le riunioni al piano superiore. Davanti, all’aperto, tavoli e panche dove specie d’estate gli uomini si fermavano a bere, a discutere e a giocare a carte. Ricordo i comizi in tempo di elezioni diffusi con l’altoparlante e ricordo le musiche di “Bandiera rossa” e dell’Internazionale che a tutto volume aprivano e chiudevano i discorsi degli oratori, e la gente raccolta ad ascoltare e a discutere, e mi sembrava un mondo bellissimo, per il quale valeva la pena di lottare. Dietro al Circolo in un grande prato si tenevano le feste dell’Unità, con la lotteria nella quale io non vincevo mai niente, e tanta gente allegra e in festa con le bandiere rosse, e i fazzoletti rossi al collo e i garofani rossi in mano, e io anche se non partecipavo di persona ero pur sempre là, separata solo dalla recinzione di metallo che divideva casa nostra dal Circolo e mi sentivo parte anch’io di quel mondo in festa. Questa mia partecipazione così istintiva, spontanea, viscerale, mi ha certamente segnato: è stata l’inizio di una adesione a certi valori che poi col tempo è diventata non più solo emotiva, ma anche razionale. Per un certo periodo funzionò anche, in un locale annesso al Circolo, un asilo nido per i bambini dei lavoratori che non volevano mandare i loro figli all’asilo delle suore che sorgeva, quello sì ufficiale, dietro alla chiesa. Era il mondo di Peppone e don Camillo, insomma, il mondo diviso in due degli anni cinquanta, con i lavoratori del paese che facevano capo al Circolo, e le famiglie contadine – che vivevano sparse nelle campagne – che facevano capo alla chiesa. Fu così che Ganzanigo – uno sputo di paese – ebbe due asili nido.
Antonia Galvani
Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, marzo 2002.