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Il banchetto di Maria 'ed Fiurintèn'

1950 | 1960

Schede

...Forse era lì da sempre... Via Libertà penetrava nel paese, dipartendosi dall’antica San Vitale, quasi a volersi allontanare dall’invadente città di Bologna, e conduceva lo sguardo attraverso la prospettiva dei portici fin sul sagrato della scenografica Chiesa del Crocifisso. La contrada della Colonna più raccolta, più povera, questa, che la gente chiamava della Madonnina, vantava solamente una bella edicola del Settecento con una Madonna che si stagliava là in fondo contro il sipario delle vecchie mura. La breve, ma orgogliosa di edifici storici, Via Cavallotti si chiudeva sul Palazzo della Comunità e alzava superba la Torre dell’Orologio di dantesca memoria. Là, all’incrocio tra quelle tre strade, nella loro rassicurante geometria, tra il decumano massimo e il cardo del Castello di Medicina, appariva la dispensa delle meraviglie, il luogo delle deliciae ventris, il quotidiano miraggio dei bambini, la fantasia dei dolciumi: il banchetto di bilén, il banchetto di Maria ed Fiurintén.

Era l’abbraccio accogliente della quotidianità, la sicurezza di una presenza certa. Nelle mattine che si aprivano pulite e cariche di energie per i bambini frettolosi, nei pomeriggi d’estate vuoti e inerti che si dilatavano nella luce e nel silenzio, o quando le folate di vento infilavano prepotentemente i portici, o nei giorni profumati di nebbia, di fumo di camini, giorni appena addolciti dall’odore delle caldarroste, si sapeva che comunque lei era là. Del banchetto conoscevamo la minuziosa geografia. Il filo di sugamiclézia col buco, che diventava cannuccia con cui sorbire il succo lentamente spremuto di mezzo limone, era il programma di un pomeriggio; i bastoncini di liquirizia dura, di un nero autentico che anneriva anche ai più esperti dita, contorno delle labbra, e naturalmente denti e quant’altro fosse nelle vicinanze; le rotelle di liquirizia che si potevano dipanare intorno a un dito oppure in tutta la loro lunghezza per dilatare il piacere di assaporarle; i burdigòn, piccole liquirizie gommose dalle forme di animali, di strumenti musicali, di oggetti, che erano graziosamente paragonati per dimensione e colore agli scarafaggi così noti e comuni nelle case umide e vecchie del paese. Cento bambini di allora, oggi uomini e donne sessantenni, si dichiarano pronti a testimoniare che la liquirizia cambiava sapore a seconda della forma: più dolce l’aroma del maggiolino, più duraturo il gusto del coniglietto, più forte il sapore del mandolino, più “mentosa” la fragranza dell’orsetto.

Ancora, le mentine bianche, di dimensione e forma simili a quelle di un comune bottone, il cui nome non lasciava dubbi sul sapore; i lecca-lecca di lunga durata e di basso costo, dai vari colori e sapori, dal limone all’arancio, dal tamarindo alla fragola; infine un tripudio di caramelle di mela, di menta, di zabaione e più tardi le topolino (tenaci mou che aggredivano i denti e vi stavano aggrappate); poi ancora gli ensal, le castagne secche, gli arrosti, le raviole imburaciè, grandi, dall’aria vanitosa, cosparse di zucchero, che allora addolciva di più, trattenuto da una pennellata di tuorlo, prima di essere messe al forno; i rotoli di ciambella farcita di marmellata e venduta a fette; i lupini serviti in una rapida confezione di carta gialla modellata a cono, la cui quantità era regolata da diversi misurini di legno; i brustulli salati (il sale grosso e tanto nell’arco di mezz’ora ti arrossava e gonfiava le labbra); lo zucchero filato, filato dalla Maria stessa: lo zucchero sciolto sul fuoco, ma non troppo, andava sbattuto sul marmo a mani nude, che si dovevano ristorare in acqua fredda ogni due sbattute, fino a dargli la forma di bastoncino di colore ambrato, poi tagliato a pezzetti di quindici centimetri circa (meglio se ti toccava di sedici). Più a destra c’erano le tavolette di cioccolata Ferrero, i croccanti, i torroncini, le corridore di un rosa intenso di forma quasi cubica che richiedevano una discreta apertura mascellare all’inizio e aderivano poi alla dentatura a mo’ di mastice (ma noi bambini allora non conoscevamo i controlli dal dentista); la magnesia sfusa di colore bianco, azzurro, rosa, divertente e spumeggiante se si scioglieva in bocca lentamente e con varie acrobazie. C’erano poi delle piccole pastiglie dai vari colori, azzurro, rosa, viola, verde, i colori più tenui che rimandavano a sconosciuti sapori delicati, a fragranze inesistenti, ma erano un inganno perché il gusto era sempre lo stesso, di puro zucchero. Peccato però se nella cucchiaiata che ti ritrovavi in mano mancava un colore. Era, questo, per la delicatezza dei colori, un articolo squisitamente femminile: non si è mai visto un maschio che le comprasse.

Si aveva l’impressione che il banchetto non fosse solido, fisso. Lei, sì, Maria ed Fiurintén era solida, ferma, seduta su quell’incongrua sedia troppo piccola per il suo corpo vigoroso e imponente che dominava, controllava quel bendidio che aveva sul banchetto e i bambini che si aggiravano intorno, gli incerti, gli spavaldi, tutti ugualmente vogliosi, con la monetina stretta in pugno, preoccupati che i soldini non bastassero al loro pinguèl, intimiditi dalla sua stentorea immancabile domanda, quasi un’affettuosa invadenza (o un burbero approccio?): “Ed chi sit fiól?”. Per Maria era, questo, un modo di affermare il suo ruolo sociale e di esercitare una sorta di controllo quasi anagrafico sulla comunità, le cui famiglie e i relativi soprannomi le erano ben noti. Il banchetto e la Maria, la Maria e il banchetto, come inscindibili. Eppure in una mattina d’autunno, in cui un temporale improvviso aveva reso deserte le strade, il banchetto fu visto stranamente abbandonato. Solo pochi passanti frettolosi, bambini che correvano verso la scuola impacciati da ombrelli troppo grandi. Si seppe poi che Maria quella mattina aveva visto passare in bicicletta due bambini moi spould, come due pisén. Erano figli di contadini. Dovevano essere famiglie arrivate da poco tempo, perché lei non li conosceva. Non ci pensò tanto su: lasciò il banchetto, convinse, senza tante parole, i due bambini a seguirla a casa (loro non ebbero paura perché lei aveva un viso largo e pacioso e due occhi buoni e poi ogni mattina la vedevano distribuire caramelle e dolciumi), fece togliere loro i vestiti inzuppati e li rivestì con pantaloncini e maglioni di suo figlio che, giusto giusto, aveva la loro stessa età. Poi tranquilla e contenta che quei due bambini fossero a scuola belli asciutti, tornò sulla strada, accanto al suo banchetto: la presenza di sempre, la certezza di sempre. Così era negli anni Cinquanta.

Più tardi, nel decennio successivo, quando i negozi divennero più grandi e forniti, con luci e colori, il banchetto cominciò a perdere il suo fascino, la Maria vide sminuire il suo ruolo di dispensatrice di leccornie a basso costo e i bambini ormai ammaliati dalla pubblicità di dolciumi più colorati, meglio confezionati, davanti al banchetto di bilén avevano perso l’incanto negli occhi. Il tramonto della magia del banchetto di bilén segnava simbolicamente il passaggio dalla cultura dell’indigenza e della semplicità alla cultura del consumismo e della modernità. 

Gigliola Selleri

Ringrazio Amato Serrantoni per i ricordi affettuosi e precisi di cui mi ha reso partecipe e per la bella foto che mi ha procurato. Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 1, ottobre 2003.