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Aldo Gamberini, partigiano della Stella Rossa

Schede

Noi venivamo dalla cerreta di Montorio del comune di Monzuno, sfollati a Cadotto. Il 29 settembre mi alzai che ancora era buio e pioveva; mi allacciavo una scarpa nei pressi della stalla, conversando con tre partigiani. Improvvisamente sentimmo delle urla dalla parte opposta della casa. I tre partigiani corsero ma si trovarono di fronte a una grande ondata di SS; li comandava uno basso e grosso che mi parve un capitano. Immediatamente i tre partigiani cominciarono a sparare, ma c’era troppa differenza di numero e dovettero retrocedere sempre difendendosi, presero la strada per il loro comando; io corsi a nascondermi in località Ca’ di Dorino, a circa un chilometro da Cadotto. Correndo per il campo, mi spararono molte raffiche e colpi.
Mentre fuggivo, a Cadotto cominciò un forte combattimento. Dalla posizione dove mi trovavo, non udivo nulla, neppure gli spari della battaglia tra partigiani e SS, solo vedevo il fumo e il fuoco degli incendi. Dopo circa un’ora e mezzo ch’ero nel fosso sul sentiero per Cadotto, più in alto di fianco, vidi passare una colonna di civili, quasi tutte donne e bambini; andavano in fila, avevano con sé fagotti e valigie. Era una famiglia del Palazzo. Sei di quelli col 44 sulle mostrine a mitra puntati incalzavano la fila e la tenevano unita. Guardai bene se c’erano i miei, non li vidi e provai un po’ di speranza. Pensai che li portavano in campo di concentramento. Dopo poco invece tutto d’un colpo, mi arrivò un grande urlo, sembrava una voce sola, mentre spari non ne sentii. Li avevano massacrati tutti sotto Prunarino. Proprio mentre passava la fila dei civili e delle SS mi sentii toccare a una gamba: era Mascherino, il mio cane. Presi paura che abbaiando mi facesse scoprire e cercai in tasca il coltello che sempre avevo con me, per ucciderlo, ma non lo trovai. Del resto non ce n’era bisogno, perché Mascherino si accucciò ai miei piedi e più non si mosse. In seguito compresi che era corso a cercarmi dopo che avevano massacrato i miei.
Pioveva sempre. Del combattimento verso Cadotto non si sentiva nulla, solo vedevo intorno, per i monti e le valli, bruciare le case, le stalle e i fienili, sentivo anche i crolli tra le fiamme, e i muggiti delle bestie legate alle mangiatoie. Ero combattuto tra il desiderio di correre dai miei e la paura di trovare una disgrazia. Passai così tutta la giornata.
Verso le dieci di sera, con un buio che dovevo camminare a tasto coi piedi, arrivai a Rivabella di Cadotto, dove una donna che tirava acqua dal pozzo, mi diede una crosta di pane. A Cadotto non andai più, in principio perché temevo la sorte dei miei, poi perché rimase tra le due linee, quella nazista e quella degli Anglo-Americani. Ci ritornai solo dopo la Liberazione.
Dopo due giorni di vagare per i monti e i boschi sempre con Mascherino, capitai da una mia figlia sposata, che trovai sotto una galleria presso la Quercia. Mi chiese cosa sapevo della nostra famiglia. Le risposi che non avevo nessuna notizia. Allora mi disse che i nostri vicini erano stati tutti massacrati. Seppi in seguito com’era andata.
Quando le SS arrivarono a Cadotto, chiusero dentro tutta la gente, poi diedero fuoco alla casa. Il fuoco iniziò dal basso e la gente man mano che le fiamme salivano, correva nelle camere sopra e nel solaio. Ciò aveva fatto una prima squadra di SS che però si era allontanata subito. Quando la gente per non morire bruciata tentò di scappare dalle finestre e dalle porte, una seconda squadra di SS li attendeva fuori e li fucilava. Così perirono i miei familiari, sette figli, il maggiore dei quali aveva ventidue anni e il minore cinque, la moglie, una nipotina di trenta mesi, una sorella e due fratelli.
Tornai a Cadotto nel maggio del 1945 a cercare i resti dei miei che ritrovai nel posto stesso dov’erano caduti, ricoperti da un po’ di terra. Riconobbi la moglie dalla scarpe e da una rebecca di lana che non s’era bruciata non so per quale caso; mia figlia maggiore la riconobbi per i denti d’oro; mio fratello per la pipa vicina alle ossa; i figli perché di bambini c’erano solo i miei.
Sei mesi dopo un altro mio bambino, che non era con noi a Cadotto quel giorno, nel recarsi a Marzabotto per un documento in compagnia di Giuseppe Baldi, pestò una mina che scoppiando fece esplodere un deposito di munizioni abbandonato in località Rivabella di Quercia. Di lui nulla trovai, se non un pezzetto di gamba.

Renato Giorgi, Marzabotto parla, Milano-Roma, Venezia, Marsilio editori 1991