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Un'eco bolognese delle riforme in Toscana

1847

Schede

Chi si accinge a leggere la breve missiva qui sotto riferita scritta in Firenze dallo strenuo patriota bolognese Livio Zambeccari all'amico suo Augusto Aglebert, se vuole intendere appieno l'importanza della medesima, darsi ragione dell'entusiasmo dal quale è inspirata e calcolare esattamente l'effetto che il Zambeccari si riprometteva essa avrebbe suscitato nell'animo dell'amico e poscia dei Bolognesi (quando si fosse sparsa fra loro la notizia degli avvenimenti sotto la cui diretta impressione la stava scrivendo) è necessario ch'egli si trasporti un istante ad un'epoca di primario rilievo nella storia politica del secolo scorso. All'epoca cioè delle riforme, ed in pari tempo, conosca la salda tempistica del patriottismo dei due amici e l'assoluta loro dedizione alla causa della Libertà. Del verace loro patriottismo, essi avevano già dato più d'una luminosa prova e presto dovevano darne delle assai maggiori, trovando coinvolti in avvenimenti storici di assai lunga gittata che, appunto allora si stavano maturando in tutta Italia.

L'avvento di Pio IX, iniziatosi con l'amnistia, aveva dato il segnale della concessione della franchigia, da tanto tempo chieste, così sotto la dizione pontificia come negli altri Stati. Punto confacente all'indole di questo scritto sarebbe revocare ma più in breve, anche soltanto le principali fasi di quel tempo in cui gli animi pervasi da alto fervore, erano intenti sopra tutto a magnificare ogni atto, ogni gesto del nuovo Pontefice. Tempo gravido di fati. Fra quello; una vera svolta della storia, che il Minghetti, nel discorso tenuto al banchetto in onore di Riccardo Cobden, a palazzo Baciocchi, esattamente definì un “Solenne momento è questo dal quale può dipendere l'avvenire d'Italia”. In quell'epoca, non pure a Roma e nella Stato pontificio, ma nel resto d'Italia gli animi erano tutti assorti nell'ammirazione del nuovo Papa, erano addirittura polarizzati verso di lui e fremevano di entusiastica esaltazione al punto che le più lievi concessioni da lui fatte (ad esempio quella delle Commissioni, ad una delle quali partecipava Antonio Silvani), erano plaudite perfino da coloro cui era ben noto quanto lunga era la via da percorrere per giungere ad un regime di libertà e di governo civile. Basti ricordare che quando dal sommo Gerarca si inculcò al clero di diffondere affermazioni come questa: «che il potere proviene soltanto da Dio e che quindi i popoli dovevano obbedienza ai principati civili» i patrioti stessi vivevano in tale stato di cecità che non se ne preoccuparono, attribuendole più ad arte politica di quello che all'intimo sentimento del Papa. Perfino gli stessi democratici, che condividevano l'opinione non potere un Papa mutare la propria natura, non se ne diedero pensiero alcuno giacché nutrivano fiducia che le cose, in futuro, si sarebbero plasmate in guisa da trionfare nell'eventuale renitenza del Papa a progredire nella via della Libertà e dell'Indipendenza. Avveniva così che egli riscuoteva la massima fiducia da una parte, nel tempo medesimo che da altra parte già si scontavano gli effetti del naturale svolgimento che avrebbe avuto il primo impulso impresso dal Papa al movimento. Le voci che provenivano da ambedue i lati si fondevano con mirabile unisono nell'esaltare il Papa addirittura come “riformatore”, e l'azione da lui svolta per qualche tempo giustificò tale esaltazione. Rarissimi erano quelli che non credevano a Pio IX, ed in vero ciò era naturale. Vi era già stato, sì, un Papa che aveva concesso una amnistia ed un Cardinal Consalvi che aveva tentato riforme; mai un Papa che avesse accettato una Consulta! Occorre riflettere che in quel tempo si era giunti a questa paradossale situazione: se il Papa si rifiutava di soddisfare una domanda, il popolo lo accoglieva con aspetto triste ed abbattuto, e col silenzio, con lo sguardo doloroso lo rimbrottava di diffidenza. Impressionato da tale atteggiamento, il Papa accordava ciò che entro di sé aveva meditato di negare, e subito subentrava negli animi un giubilo indescrivibile, onde ebbe a scrivere il Rey (St. del Risorgimento politico d'Italia, I, 15), che “nessun popolo ebbe maggior tatto e tanta arte di seduzione per guadagnare il cuore di un sovrano quanto il popolo di Roma”. Con la Consulta e con la ripartizione dell'amministrazione centrale in vari ministeri, ma privi di elemento laico; si può credere, incalza il Rey, che Pio IX arrivasse al sommo delle riforme ch'egli giudicava compatibili coi diritti della chiesa, ma non approvava in cuor suo, né la libertà di coscienza, né quella di stampa, né la costituzione né il Parlamento di guisa che quanto ebbe ad accordare in più, fu strappato sotto la pressione dell’opinione pubblica e della piazza. Nel frattempo in Piemonte il Re concedeva larghe franchigie amministrative per le quali il poeta Giuseppe Bertoldi interprete del sentimento di tutti, di lì a poco, cantava:

Coll'azzurra coccarda sul petto
Con italici palpiti in core
Come figli d'un padre diletto.
Carlalberto, veniamo al tuo piè.

Al principio del settembre 1847 si trovava in Toscana, per affari privati, il patrizio bolognese conte Livio Zambeccari, che nel 1822 si era rifugiato in Ispagna perché compromesso politico e che poscia nel 1826 aveva anche di là emigrato nel Sud America ove aveva combattuto con valore, fra gli insorti dell'Argentina e del Brasile. Nel '43 aveva capeggiato, insieme ai concittadini marchese Pietro Pietramellara, marchese Sebastiano Tanari ed al conte Oreste Biancoli di Bagnacavallo, il moto di Savigno. L'anno dopo la sua gita in Toscana, marciò dapprima all'impresa di Modena, poi comandò quale colonnello, il battaglione volontari “Cacciatori dell'Alto Reno” segnalandosi, dapprima, nel Veneto e nel '49 alla difesa di Ancona. Infine, nel '60, ebbe il grado di ispettore generale dell'esercito meridionale. Ignorava egli affatto che cosa fosse paura e della sua intrepidezza diede meravigliose prove a Vicenza standosene ritto in sella, col sigaro in bocca, in mezzo ai suoi mentre più vivo si accendeva il combattimento. Adunque il Zambeccari, in quell'inizio del settembre, poté alle manifestazioni patriottiche a Pisa nei giorni 5 e 6 ed a quelle di Firenze che culminarono con la presentazione al Granduca avvenuta il giorno 12, delle deputazioni di tutte le provincie toscane per ringraziarlo delle accordate riforme e particolarmente della Guardia Civica. In quel giorno intervennero ad un corteo 70 mila persone, delle quali 24 mila in drappelli affiancati alla militare. Dapprima furono ascoltati la messa ed il Veni Creator nel Duomo; seguì un ricevimento a palazzo Pitti poi, nel pomeriggio, le bandiere che erano state collocate in S. M. Novella, furono portate al Granduca il quale consegnò al gonfaloniere di Firenze quella che sventolava sul terrazzo della reggia in ricambio di altra portata dal gonfaloniere con la scritta: “Fede al Principe, tutela alla Patria”. Naturalmente, al Zambeccari sorse in animo di narrare le manifestazioni che aveva presenziato ad un concittadino, suo amico intimo. Augusto Aglebert, e gli scrisse una lettera il 14 settembre in cui, accennando appena alla giornata del 12 in Firenze, si diffondeva invece nel descrivere quelle antecedenti svoltesi a Pisa: ed in pari tempo vi incorporava qualche notizia mandatagli da Torino, ma ciò che più gli premeva di raccontare erano appunto le giornate di Pisa. Ciò perché ben supponeva che quella di Firenze fosse già nota al suo corrispondente, mentre era assai meno probabile che lo fossero le seconde. 

Quanto ad Augusto Aglebert, egli aveva partecipato nel '31 alla rivoluzione di Bologna, come cospiratore. Fratello dal lato materno di Carlo Berti-Pichat, collaborò con esso nel periodico Il Felsineo (1847) poi, fece con lui, la campagna nel Veneto, coll'incarico di Vice-intendente generale della Divisione Ferrari di Commissario romano presso la repubblica veneta; partecipò alla difesa di Roma. Infine col fratello nel 1849 esulò in Piemonte, donde tornò soltanto dopo la liberazione di Bologna. Quivi nel 1860 fu prescelto dal Bertani a membro del Comitato di provvedimento per Garibaldi, rivale della Società nazionale. Fu poi pubblicista e scrittore democratico ed ebbe cariche pubbliche. Negli ultimi anni coprì il posto di Ispettore-Indicista della Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, ove lo ricordiamo nella sala di lettura, entro un casotto di legno con vetri, all'angolo fra le vie Foscherari e della Scimmia, ed abbiamo davanti il suo volto energico illuminato dai grandi occhi neri sfavillanti, intento al lavoro. Conservatosi valido ed aitante pure in età avanzata, era dato vederlo nei pubblici ritrovi elegante e brioso. Una notte, nel marzo 1882, all'uscita da una festa da ballo alla “Società Felsinea” a cui era intervenuto colla irreprensibile marsina, prese freddo al petto e, sviluppataglisi la pneumonite, dovette soccombere. Vero filantropo, tutta la sua vita fu un raro esempio di disinteresse di altruismo. L'illustre senatore Alberto Dallolio, che gli era amico, così lo delineò al vivo: “Spirito ardente, qualche volta eccessivo, facile agli entusiasmi ed agli sconforti, adorava l'Italia e parea veder da ogni parte nemici che cospirassero contro di essa”. All'intento di ben discernere il significato delle giornate di Firenze e di Pisa, è necessario aver presente quale era la situazione politica in Toscana in quell'istante. Fin dal 31 maggio il Granduca istituiva commissioni per la compilazione dei nuovi codici civile e penale in corrispondenza allo stato di civiltà ed alle condizioni sociali ed economiche del paese. Egli inoltre aveva concesse agevolezze alla Stampa, istituendo uffici di censura a Firenze, Livorno, Pisa, Siena, Arezzo, Pistoia e Grosseto, ivi permettendo, tranne che in Grosseto, la pubblicazione di giornali politici e politico-letterari. Il Pontefice aveva accordato la Guardia civica ed i Toscani la desideravano con impazienza! Uscì finalmente il 4 settembre il decreto dell'ordine sociale, della sicurezza pubblica e privata. Dal canto suo, il Duca di Lucca Carlo Lodovico, fin dal 1 settembre aveva accordato la Civica mentre da detto giorno avevano cessato di funzionare le dogane tra Lucca e Toscana. Esplosioni di gioia suscitarono questi atti, ed a Pisa il 6, con scambio di bandiere dai colori papali, toscani e lucchesi, si celebrò la federazione tra Pisa, Lucca e Livorno, fatto significante codesto perché sussistevano tuttavia gli avanzi dell'antico campanilismo e delle gare e inimicizie medievali fra città e città. I cittadini, mescolati gli uni agli altri, fraternizzarono e sotto l'abitazione di Giuseppe Montanelli si acclamò alla resistenza contro lo straniero. Ed ecco senz'altro la lettera del Zambeccari, che si pubblica ora per la prima volta e che è conservata nel Museo civico del Risorgimento di Bologna (Quadro E) proveniente dal fondo dei documenti già appartenuti all’Aglebert medesimo.

Car.mo Aglebert
Firenze, 14 7bre 1847.
Già ti saranno note le dimostrazioni del 12 (Ve n'era un rapido cenno nella “Gazzetta priv. di Bologna” del 13). L'entusiasmo, la fratellanza, l'ordine che vi hanno regnato. Perché Bologna intera, se fosse stato possibile, non le ha presenziate? che bell'esempio per certi nostri assorbettati! di questo non più; or li trascriverò quanto mi si scrive da Torino. Il corrispondente è persona prudentissima anzichenò, e le di cui anteriori lettere scoraggiavano per ciò che riguardava il Piemonte. Finalmente si direbbe che incomincia il paese ad agitarsi - Il Re à fatto una energica protesta contro l'infame occupazione di Ferrara, dai Tedeschi che Iddio voglia confondere. Si pretende che abbiano avuto l'impudenza di domandare l'occupazione della cittadella di Alessandria, ciò che sarebbe stato rifiutato con Indignazione. Giorni sono alla riunione della Società Agraria a Casale è stato firmato un'indirizzo al Re ad unanimità di voti, parlano, che nel caso desiderato d'inviare truppe a soccorso dè loro fratelli contro i Tedeschi, offrivasi di mettere in piedi una sottoscrizione per armare la guardia Nazionale a guardia dipendenza italiana. Questa è notizia sicura - resta a vedersene l'effetto. Gli spiriti sembrano svegliarsi finalmente, e quanti hanno cuore ed un'anima detestano lo Straniero e pregano per l'ottimo Pio IX. – Noi abbiamo qui il Contemporaneo ed un altro giornale dé Stati pontifici che si legge con avidità in tutti i Caffè. L'Alba non è ancora liberamente ammessa, ma qualche copia corre ed è letta avidamente, stupefatti della maniera in cui è scritta. In tutti l'entusiasmo per Pio IX è portato (ed a ragione) al più alto grado, e l'esecrazione contro i Tedeschi in proporzione. La lettera è dell'8 corrente.
Credo farti cosa grata comunicandola, particolarmente il fatto della Società Agraria, come di somma importanza ed esemplarissimo. Mi persuado che sarai informato delle feste celebrate in Pisa per l’ottenuta guardia civica nel giorno 5 del corrente e forse ancora di quanto successe il 6; te ne terrò parola per il si e per il no, e conta che il mio referto è scrupolosamente veritiero. Quantunque fosse il tempo piovoso era Pisa ripiena di Livornesi, Lucchesi, Pontederesi, delle Colline e Pianure Pisane; misti eran fra loro Plotoni di preti, di Signore, e terrazzane. Tosto che l'immenso popolo giunge al Caffè dell'“Unione” si arresta per salutare Montanelli. Egli, benché stanchissimo, si porta alla Terrazza ad arringare, quindi ha invitato tutti a levarsi il cappello e quindi stender la mano e giurare, come hanno fatto dicendo – Lo giuriamo- che saranno sempre fedeli Italiani e che saranno sempre pronti a spargere il sangue per conservare la Causa della Nazionalità Italiana e Unione Italiana. Dopo di ciò li ha confortati assicurandoli che ormai l'Italia è risorta, non essere più schiava, essere rigenerata ma toccare agl'Italiani d'affrontare anche la morte per salvarla dall'Invasione straniera; quindi ha fatto ripetere il giuramento; e un grido generale si è udito Si lo giuriamo; questa scena grandiosa e tremenda lo ha così commosso, ch'è caduto quasi in convulsione per cui, richiamato più volte fuori, ha fatto sapere al pubblico e la sua commozione, e i suoi ringraziamenti. L'Illuminazione era splendida particolarmente lungo l'Arno. In tutta la notte, abbenché diluviasse e tuonasse fortemente, le Bande, le Bandiere e il popolo giravano per Pisa esultanti e si rimproverava chi aveva l'ombrello e si obbligava ognuno a serrarlo. Il Teatro. I Conventi, le Stanze civiche (così s'intitolava un Circolo di coltura) e molte case dei primari signori erano aperte per chi non voleva infradiciarsi. I Caffè erano pieni e pertutto erano Oratori e giovani e vecchi (all’“Ussero” v'era Centofanti) che trattenevano le adunanze con concioni che infervoravano i cuori Italiani, a mantenersi costanti e fedeli al giuramento. Il Montanelli ha ordinato un Marmo ove si leggerà - Primo giuramento Italiano fatto in Pisa 6 settembre 1847. Il 7 la festa era finita ma nella mattinata tutte le Bande sfilarono sotto le finestre del Montanelli per salutarlo. Dalla Terrazza ha ringraziato il popolo, ha di nuovo perorato sulla costanza del giuramento e sulla certezza del risorgimento d'Italia: ha fatto discendere una gran cassa di Libri che ha regalato a chi ne voleva. Dopo ciò, evviva a Pio IX a Leopoldo II ai principi Italiani ed all'Unione e Indipendenza Italiane quindi tutto è finito senza che si possa narrare il minimo inconveniente. Che ne dici? Non ti farò osservazioni: le farai da te. lo parto domani alla volta di Livorno per visitare le mine di Rame in Campiglia, e ritornando, quelle di Montecatini presso Volterra. Un ricco Inglese (il di cui nome ho scordato) e cointeressato nelle ultime, ha offerto un cannone che sarà fatto col metallo della mina, e da operai Toscani - Ma il 12 7.bre sarà incancellabile dalla mia memoria.
LIVIO ZAMBECCARI
Saluta Carlino e sono tuo aff.mo Livio Zambeccari
(A lergo): Ill.mo Sig.re Augusto Aglebert Bologna.

Ben presto però, doveva rendersi manifesta un'aperta diffidenza. perché dopo sì mirabili dimostrazioni di riconoscenza, a quattro giorni di distanza, l'amore cedeva alla collera e al dispetto. Tutto questo perché il Regolamento sulla Guardia Civica, quantunque nella maggior parte conforme al pontificio, non rispondeva all'aspettazione generale. Questo repentino tramutarsi dell'entusiasmo il più vivo nell'avversione più palese è veramente singolare. Se l'ebbrezza partiva dal fondo del cuore, gli ostacoli del regolamento non erano bastevoli a giustificare il disgusto di lì a pochi giorni. Gli è che era subentrata negli animi un'aperta diffidenza verso il Lorenese la cui sincerità in fatto di patriottismo era assai sospetta!

Fulvio Cantoni

Testro tratto da: 'Un'eco bolognese delle riforme in Toscana: (1847)', in 'Strenna Storica bolognese', 1928. In collaborazione con il Comitato per Bologna Storico Artistica.