Rossini Giuseppe

Rossini Giuseppe

13 Marzo 1764 - 29 Gennaio 1838

Note sintetiche

Scheda

Giuseppe Rossini, conosciuto da tutti come Vivazza per la sua esuberanza ed espansività, era nato a Lugo nel 1764 e di mestiere faceva il trombettista, come suo padre Gioacchino Sante. Assunto nella sua città come Trombetta Comunale, l’equivalente più o meno di un banditore comunale, si era quindi trasferito a Ferrara, per suonare il corno da caccia nella banda del locale presidio militare. Nel 1789 fu contattato da un tale Antonio Ricci, Trombetta Comunale di Pesaro, che, alle soglie della pensione, cercava un valido successore. Ottenuto il posto, pare dietro pagamento di una tangente proprio al suddetto Ricci, Vivazza si trasferì nella città marchigiana. Di certo non poteva saperlo, ma questa fu, per lui, la svolta del destino.

Proprio a Pesaro, infatti, conobbe e si innamorò della avvenente modista e cantante dilettante Anna Guidarini. I due si sposarono nel Duomo di Pesaro il 26 settembre 1791, tra l’altro con una certa fretta in quanto Anna era già in attesa del loro primo e unico figlio, che nacque cinque mesi dopo, il 29 febbraio 1792. Il bambino era ovviamente Gioachino Rossini, che fu battezzato con il nome di Giovacchino Antonio. In quegli anni l’Europa era scossa dai venti rivoluzionari provenienti dalla Francia, che ben presto finirono per irrompere anche nella provinciale e sonnacchiosa Pesaro: nel 1797, infatti, le armate rivoluzionarie francesi invasero la cittadina marchigiana. Anche qui, fu rispettato il copione già visto nelle altre città italiane occupate: esazione dei contributi di guerra, ovvero saccheggio sistematico della cittadina, cerimonia di erezione dell’Albero della Libertà, con scarsa partecipazione del popolo, ed istituzione di una municipalità cittadina, costituita da nobili, come i marchesi Mosca e la nobildonna Caterina Semprini Giovannelli, e da ricchi borghesi, come Francesco Perfetti, cioè più o meno gli stessi che già comandavano nella amministrazione pontificia. Ovviamente Vivazza, da buon romagnolo testa calda e mangiapreti, non poté che entusiasmarsi per l’avvento di un governo repubblicano, anche se la sua rivoluzione, in realtà, fu più di parole che di fatti: qualche chiacchiera nelle osterie e nelle botteghe, un cartello affisso sulla porta di casa che recitava Abitazione del cittadino Vivazza, repubblican vero e poco altro. Per la verità, con l’arrivo dei francesi, una piccola rivoluzione in casa Rossini ci fu: l’abolizione dell’antico divieto, che impediva alla donne di cantare e recitare, consentì ad Anna Guidarini di esibirsi con successo nei teatri di Marche e Romagna, sempre accompagnata dal marito il quale, oltre che valido musicista, fungeva anche da guardia del corpo contro ammiratori insistenti. Nell’aprile del 1797, con la Pace di Tolentino i francesi restituirono le Marche al Papa, cosa che deluse parecchio Giuseppe Rossini, salvo poi riprendersele nel dicembre dello stesso anno. Anche stavolta Vivazza appoggiò il regime repubblicano, ma anche stavolta con molte chiacchiere e con pochi fatti concreti: compose, infatti, un Inno Repubblicano, per altro, molto probabilmente, da lui solo firmato ma scritto da qualcun altro, acquistò, su ordine della municipalità giacobina, stoffe bianche, rosse e verdi per cucire delle bandiere, e partecipò alla Presa di Capua, una pantomima che metteva alla berlina il Re di Napoli. Alla fin fine, l’unico vero atto rivoluzionario Giuseppe lo compì una notte del dicembre 1798 quando, insieme ad altre persone, andò ad aprire le porte del ghetto di Pesaro per farne uscire gli ebrei.

L’anno successivo, i francesi furono scacciati dall’Italia dalle armate austro-russe del Generale Suvorov, validamente supportate dalle migliaia di Insorgenti italiani, e negli Stati Pontifici tornò il governo del Papa-Re. Per Vivazza, purtroppo, tutto questo non significò nulla di buono: nei primi giorni del settembre 1799, difatti, al termine di un’esibizione canora della moglie, Giuseppe fu prelevato di peso dai gendarmi pontifici all’uscita del Teatro Marsigli-Rossi di Bologna, che sorgeva allora in Strada Maggiore. L’ordine di arresto era arrivato direttamente dal Gonfaloniere di Pesaro, che nel documento definiva Giuseppe nientemeno che un Delinquente e uno de’ più scelerati capi dei giacobini pesaresi, generalmente odiato dalla popolazione. Ma come mai il povero ed innocuo Vivazza aveva finito per essere considerato uno dei più esagitati rivoluzionari di Pesaro? Al ritorno del governo papalino, nella cittadina marchigiana era scattata una raffica di arresti nei confronti dei giacobini. I pezzi grossi, i già citati marchesi Mosca, i Perfetti ed altri, che durante l’occupazione francese avevano arraffato opere d’arte e beni ecclesiastici in quantità, spedendo anche qualche oppositore in carcere o sulla ghigliottina, avevano messo in mezzo Vivazza, gettandolo in pasto ai tribunali pontifici, mentre loro, grazie al loro status sociale e dopo aver ben oliato giudici e gendarmi, se l’erano cavata con qualche ammonimento ed una pacca sulle spalle. Gli spaventosi reati imputati a Giuseppe li conosciamo: le chiacchiere, il cartello appeso alla porta di casa, l’inno repubblicano, la stoffa per le bandiere. E poi, la pantomima sul re di Napoli, cui peraltro avevano assistito in prima fila tutti i caporioni giacobini, e l’apertura del ghetto di Pesaro, azione cui aveva partecipato anche il cocchiere dei marchesi Mosca, anche se pareva che nessuno se ne ricordasse. Giuseppe fu addirittura accusato di aver annunciato pubblicamente i sovversivi proclami della municipalità giacobina, ovvero di aver semplicemente fatto il suo mestiere di banditore comunale.

Per Vivazza iniziò un vero calvario: trascinato in catene di città in città, con lunghi ed estenuanti trasferimenti notturni, alla fine fu rinchiuso nella Rocca Costanza di Pesaro. I mesi successivi li trascorse in una fetida cella, senza mai poter vedere la famiglia, sottoposto a continui interrogatori, mentre tutti gli altri giacobini venivano scarcerati prima di lui. Ad un certo punto, pur di essere liberato, si risolse anche a fornire alla polizia informazioni sugli altri repubblicani, tutte per altro già ben note ai gendarmi, con l’unico risultato di aggiungere alla nomea di rivoluzionario e criminale, anche quella di spia. Nelle lunghe notti trascorse in cella, Giuseppe aveva sempre più la netta sensazione di essere quello che in Romagna viene definito un patàca. Vivazza fu scarcerato solo nel luglio 1800, dopo il ritorno del Bonaparte in Italia a seguito della vittoria di Marengo. Negli anni successivi, i Rossini si trasferirono prima a Lugo e poi, nel 1804, a Bologna, nella casa di Strada Maggiore 204. I traslochi erano dovuti, oltre che al crescente successo di Anna come cantante, anche alla necessità di garantire una adeguata educazione al figlio Gioachino. Mentre il padre era in galera, infatti, il giovane Rossini, costretto a seguire la madre nelle sue esibizioni teatrali, si era appassionato alla musica, mostrando un non comune talento come suonatore. Giuseppe si rese quindi conto che Gioachino doveva ricevere la migliore istruzione possibile, anche perché il ragazzino dimostrava un’indole un po’ troppo ribelle: più volte, in seguito a varie marachelle, Vivazza aveva dovuto minacciare di mandarlo a lavorare come garzone, in una tetra bottega di fabbro ferraio. A Bologna, Giuseppe si dedicò a fare da impresario al figlio e continuò con l’attività di trombettista, ottenendo anche un riconoscimento dalla locale Accademia Filarmonica. Nel 1811 lo troviamo come seconda tromba, nell’esecuzione dell’oratorio Le Quattro Stagioni di Haydn, diretta proprio da Gioachino.

Nel capoluogo emiliano, Vivazza ebbe anche modo di vedere suo figlio finire nei guai: Gioachino fu, infatti, arrestato, anche se peraltro subito rilasciato, dalla gendarmeria del bonapartista Regno Italico. Già nel mirino della censura, per la presunta indecenza del libretto dell’opera L’Equivoco Stravagante, Gioachino fu accusato di essere autoritario e reazionario, per aver rimproverato con molta veemenza alcuni coristi troppo svogliati. In conversazioni private, Vivazza commentò che il governo rivoluzionario, in fondo, non era poi così diverso da quello dei preti. Nonostante questo incidente la carriera di Gioachino decollò in maniera straordinaria e, in conseguenza di ciò, Rossini iniziò a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa; rimase comunque legatissimo ai genitori, con i quali intrattenne un intenso e continuo scambio epistolare. Gli argomenti delle lettere erano i più disparati: richieste di informazioni sui parenti, rassicurazioni sul proprio stato di salute, notizie che Gioachino dava sul successo o insuccesso delle proprie opere, e che solitamente preannunciava scrivendo sulle buste le parole Furore o Fiasco, quest’ultima accompagnata dal disegno dell’omonimo recipiente. In particolare con il padre, che Gioachino soprannominava Mustafà o Jusfèt (Giuseppetto in dialetto) e che ormai fungeva da amministratore dei beni del figlio a Bologna, il Maestro parlava di questioni finanziarie, ma anche di cibo e cucina, con gustosi commenti su quella che potremmo chiamare la passione enologica di Giuseppe. In una lettera del 1820 Rossini, commentando i moti rivoluzionari che scuotevano l’Italia, raccomandava alla madre di tenere d’occhio Vivazza: Dite a mio Padre che abbi giudizio, affermava il musicista, temendo che il vecchio Repubblican vero potesse mettersi nuovamente nei guai con la polizia.

L’anno successivo fu particolarmente denso di eventi in casa Rossini: Gioachino annunciò, infatti, l’intenzione di sposarsi con il soprano spagnolo Isabella Colbran, nonostante il padre gli avesse vivamente sconsigliato il matrimonio. Rossini rispose a Giuseppe indirettamente, in una lettera indirizzata alla madre: …direte pure al Papà, che mi propongo (come egli dice) essere uccello di campagna, e non di Gabbia; fa d’uopo però le facciate osservare che come uccello di Gabbia guadagnerei dei denari, e come uccello di campagna ne spenderò! Gioachino faceva riferimento, ovviamente, all’ingente patrimonio dei Colbran, di cui Isabella era unica erede e di cui faceva parte una tenuta di Castenaso, dalla quale proveniva un vinello a quanto pare molto apprezzato da Vivazza. Dite al Papà che se quest’anno à (sic) sofferto in pagare il vino di Castenaso, avrà gli anni venturi il piacere di Venderlo…. e beverne a suo piacere, concludeva Rossini nella medesima lettera. Per la verità, il 1821 riservò anche preoccupazioni per Giuseppe: la terribile notizia, ovviamente fasulla, di una grave malattia del figlio, lo costrinse infatti a scapicollarsi in tutta fretta a Napoli, dove Gioachino allora soggiornava. Finalmente, il 16 marzo 1822 Gioachino e Isabella convolarono a nozze a Bologna, tra la felicità della madre di Rossini, che accese addirittura delle candele alla Vergine del Pilar per ringraziarla, e l’apparente disappunto del padre il quale, sotto sotto felice per suo figlio, accompagnò la moglie ad accendere le candele suddette... I trionfi di Rossini, intanto, continuavano, e lui ne faceva sempre partecipi i genitori: è del 1825, ad esempio, una lettera da Parigi, in cui annunciava con orgoglio a Jusfèt di stare componendo una Cantata per l’Incoronamento del Re di Francia, Carlo X. Si trattava, naturalmente, del Viaggio a Reims.

Ma erano vicini, purtroppo, anche quegli eventi negativi che, in parte, contribuirono all’esacerbarsi della depressione di Gioachino e all’esaurimento precoce della sua vena creativa. Il 20 febbraio del 1827, dopo una lunga malattia, la madre di Rossini morì. Gioachino, impegnatissimo a Parigi, non riuscì a rientrare a Bologna per assistere l’amata mamma, e questo ingenerò in lui dei tremendi sensi di colpa. Il vecchio Vivazza, forse comprendendo questi struggimenti di Gioachino, e forse bisognoso lui stesso della vicinanza del figlio, lo raggiunse a Parigi, rimanendovi per circa un anno. Subito dopo, iniziò per Rossini un altro grosso problema: il matrimonio con Isabella entrò gravemente in crisi. La Colbran si era rivelata una donna capricciosa e spendacciona e la malattia, che nel frattempo l’aveva colpita, non aveva fatto altro che peggiorarne il carattere. E con Gioachino sempre occupato a Parigi, toccò inevitabilmente a Giuseppe di doversi scontrare con la nuora. Le lettere scambiate tra padre e figlio in quel periodo sono degne di un’opera buffa dello stesso Rossini: le liti tra Giuseppe e Francisco, il servo personale della Colbran, i dispetti di quest’ultima, che arrivò addirittura a chiudere a chiave tutte le credenze della villa di Castenaso, costringendo il povero Vivazza a ricomprarsi pentole, stoviglie e cibo per poter mangiare. Roba da Turchi! commentò Jusfèt. E poi le dettagliate descrizioni di Giuseppe sulle spese pazze della nuora, con le raccomandazioni di Gioachino su come controllarne gli eccessi. La sta là, in campagna, per farsi ridere dietro, con le sue manie di grandezza, si lamentava Vivazza, che poi definiva Isabella …superba ed infame, una scialacquona che non cerca che fare dispetti. Nel 1832, durante una visita dell’impresario Edouard Robert alla Colbran, si sfiorò addirittura la rissa: di fronte alle lamentele del soprano, infatti, l’impresario aggredì Giuseppe, definendolo Avaro fottuto! Vivazza, dal canto suo, rispose al sanguinoso insulto con due sonore pernacchie e mandandolo a far fottere esso e tutti li protettori. Ciononostante, Jusfèt fu forse l’unico a tentare fino all’ultimo, seppure inutilmente, di far riconciliare figlio e nuora. Le lettere di quegli anni, però, non riguardano solo le spese della Colbran e la crisi matrimoniale di Rossini: ci sono anche missive piene d’affetto verso l’anziano padre. È del 1834 una struggente lettera, in cui Gioachino ricorda con nostalgia quando, da bambino, andava a pescare anguille insieme a Giuseppe, nel mare di Senigallia.

Nel 1836, dopo lunghi anni all’estero, finalmente Rossini rientrò a Bologna. La salute di Vivazza, infatti, stava peggiorando, e Gioachino non voleva ripetere lo stesso errore commesso per la morte della madre. Certo, il Maestro viaggiò ancora negli anni successivi, ma cercò di ritornare il più possibile a Bologna per restare accanto al padre. La cura con cui si occupava dell’anziano genitore commuoveva la bella Olympe Pélissier, la nuova compagna di Gioachino, che ne parlava diffusamente in molte sue lettere. Il 29 gennaio 1838, il pur coriaceo Vivazza, infine, lasciò questo mondo e raggiunse la sua dolce e adorata Anna. Gioachino, distrutto dal dolore, vendette immediatamente l’amata casa di Strada Maggiore, non avendo più la forza di abitarvi.

Andrea Olmo

In collaborazione con Associazione 8cento. Testo tratto da "Jourdelò" n. 28, maggio 2018.

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