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Rosa Mystica | Il fiore della Vergine in tavola e nell’arte sacra

Settembre 2019

Schede

In occasione della mostra “Rosa Mystica. Il fiore della Vergine in tavola e nell’arte sacra” tenutasi a Sasso Morelli di Imola nel 2019 è stato esposto un generoso corpus di ceramiche, accompagnato da una preziosa e variegata selezione di opere d’arte sacra (dipinti, sculture, targhe ceramiche, incisioni, reliquiari, oreficerie, tessuti liturgici) raffiguranti la Vergine e quei santi il cui simbolo è, appunto, la rosa.

La rosa nella simbologia cristiana è per eccellenza il fiore della Madonna – “rosa senza spine”, come quelle che si diceva crescessero nel Paradiso terrestre – perché nata senza peccato originale. I colori che si svelano nelle innumerevoli varietà, al progressivo sbocciare dei petali, ricordano i Misteri della Redenzione: si passa dal bianco che richiama l’Immacolata e l’infanzia di Gesù, alle striature rosse che ricordano la Passione di Cristo, al giallo eburneo della luce della Risurrezione. La rosa canina a cinque petali fa riferimento poi alle cinque ferite di Gesù sulla croce. A questo fiore sono legate anche figure di sante – ad esempio Santa Rosa da Lima e Santa Rosalia – come anche figure mistiche maschili quali San Domenico, Domenico Savio e, particolarmente, San Francesco, con quel roseto senza spine che, nato improvvisamente in una notte di gennaio, quando il santo – per liberarsi dai pensieri impuri – non esitò a gettarsi su di un rovo, si tramutò all’istante in un magnifico rosaio, mentre dalle ferite di Francesco nacquero rose. Intorno al 1200, nel Roman de L’Estoire de Graal di Robert Boron, cavaliere originario della Franca Contea troviamo una delle prime definizioni della Madonna quale “Rosa Mystica”:[…] Piena di ogni virtù, in Lei […] ogni bellezza. Ella profuma come un roseto. Ella è come un giardino pieno di rose, dal momento che portò racchiusa nel Suo grembo la Mistica Rosa. […] Mentre Robert Boron così scriveva, sulle facciate delle cattedrali medievali alla Rosa Mystica venivano dedicati rosoni sempre più lavorati e “fioriti”, sintesi mirabili di un linguaggio architettonico ricco di simbolismo e misticismo. … Fin dal XII secolo iniziò a diffondersi l’uso della recitazione del Salterio Mariano … quale replica del saluto che l’Arcangelo Gabriele portò alla Vergine annunciandole la nascita di Gesù. Lo stesso Salterio Mariano fu successivamente ampliato con i Pater Noster ed i Gloria oltre che essere intercalato dalle riflessioni sui 15 misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi della Redenzione. Solo intorno alla metà del XVIII secolo, grazie alla predicazione di San Domenico, questa devozione si sviluppa ed inizia a chiamarsi rosario (rosarium in latino) o roseto. Simbolicamente il rosario è una corona di rose spirituali offerte alla Madonna; per sancire ancor più strettamente il legame tra la pianta vegetale ed il rito spirituale molti rosari verranno fabbricati dapprima con il legno di rosa e poi anche con i petali del fiore pressati, ancor fragranti di profumo. Una tra le tante leggende nate intorno alla nascita del rosario, vuole che lo stesso Arcangelo Gabriele avesse intrecciato con 150 rose celesti … tre corone per la Madre di Dio: una di rose bianche per ricordare i momenti dell’infanzia di Gesù; una di rose rosse indicanti la passione e il dolore; l’ultima di rose d’oro quale testimonianza di gloria e trasfigurazione.

Le sessanta opere esposte nella Chiesa del Morelli, provenienti dal Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, dal Museo della Cooperativa Ceramica di Imola, dal Museo Diocesano e dal Palazzo vescovile di Imola, dalla Cattedrale e dalla Chiesa di San Giacomo Maggiore del Carmine di Imola, dall’Istituto Comprensivo di Crevalcore, da alcuni importanti artisti contemporanei, da gallerie antiquarie e collezioni private di Cesena, Imola e Trento, in catalogo sono state suddivise in due sezioni tematiche comprendenti l’una solo le maioliche d’uso e di decorazione, l’altra tutte le opere d’arte sacra. La mostra 2019 vanta numerosi inediti e interessanti scoperte.

La prima sezione si apre con due maioliche – una tazza con coperchio e una scodella per impagliata, su cui sono dipinti mazzi di fiori vari contornanti una grande rosa fornita di foglie – prodotte nell’ultimo quarto del Settecento dalla rinomata fabbrica faentina dei Ferniani, entrambe decorate “alla rosa”. Alla fabbrica pesarese dei lodigiani Antonio Casali e Filippo Callegari (durante il sesto decennio del secolo i due furono impiegati in qualità di decoratori presso la manifattura Antonio Ferretti di Lodi), che a partire dalla seconda metà del Settecento affiancarono alla produzione tradizionale con decori “alla Bérain”, quella ad ornamentazione floreale a “terzo fuoco” (cioè “alla rosa”), appartiene un piccolo nucleo di tre maioliche. Tra di esse scegliamo di menzionare il bellissimo piatto individuato come immagine di mostra: databile al terzo quarto del XVIII secolo, presenta ampia tesa rialzata con profilo e centinature simmetriche su pianta ottagonale, il recto è decorato centralmente con un sinuoso ramo di rosa dal gambo spinoso e dotato di numerose foglie sparse. La produzione settecentesca della manifattura Ginori è rappresentata da un bel vassoio ovale dal bordo sagomato e decorato nel cavetto a fiori europei, tipologia che la manifattura di Doccia inizierà ad impiegare per i serviti intorno al 1745, sino a divenire nel tempo una tra le decorazioni più famose della fabbrica sestese. Segue poi un raffinato vaso a tromba, eseguito nell’ultimo quarto del ‘700 dalla manifattura Finck di Bologna, anch’esso con ornamentazione “alla rosa”, tipologia decorativa tra le più diffuse sia nella fabbrica bolognese che a Faenza. Intorno alla metà del Settecento, infatti, molte fabbriche italiane, specie settentrionali, studiano contemporaneamente la possibilità di utilizzare una tavolozza più ampia per i loro prodotti (fino ad allora circoscritta al blu, a gran fuoco, e al bianco), per soddisfare l’esigenza di traferire sulla maiolica le stesse preziosità decorative (specie l’oro e il rosso porpora) della porcellana. Nasce una nuova tecnica a piccolo fuoco, detta anche a terzo fuoco giacché il manufatto veniva sottoposto effettivamente per tre volte all’azione del fuoco, in particolare per ottenere il rosso porpora della rosa. Chiudono il corpus di vasellami in prestito dal Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, un vassoio ed un piatto della manifattura lodigiana di Antonio Ferretti, entrambi decorati a fiori contornati “alla Strasburgo” (un grande bouquet di fiori comprendente la rosa lodigiana).

Torniamo ora a Imola, e più precisamente alla Società Cooperativa Ceramica, in quella straordinaria fucina di idee che fu la sua Sezione Artistica negli anni della direzione di Gaetano Lodi (1883-1886). Dal museo della cooperativa provengono quattro pezzi ceramici: due vasi, un vassoio ovale e una curiosa fruttiera. Proprio a Gaetano Lodi si deve il bel vaso a bocca schiacciata con “rose di macchia” applicate a rilievo e dipinte ad impasto, parte di una serie di lavori d’arte che Lodi doveva aver eseguito principalmente per sé, poiché difficilmente riproducibili serialmente e, quindi, inadatti ai fini della commercializzazione. Nella produzione di vasi con fiori plastici, cui appartiene anche questo saggio, l’artista bolognese rielaborerà il suo repertorio di fiori recisi alla luce di un bagaglio europeo trasfuso abbondantemente e circolato sugli oggetti stile Restaurazione. Con la morte di Gaetano Lodi, avvenuta il 3 dicembre 1886, si chiude per la Cooperativa Ceramica imolese una fortunatissima stagione creativa. Il paziente lavoro svolto da Lodi in seno alla Sezione Artistica nel triennio 1883-1886, contribuirà in maniera sostanziale a gettare le fondamenta per molti anni a venire, tant’è che nei vasellami prodotti dalla Cooperativa tra il 1888 e i due decenni successivi, vengono riproposte soluzioni decorative tipiche di Lodi. Nel solco dell’impronta lasciata da Lodi va collocato l’altro vaso custodito nel Museo della Cooperativa. Databile al 1885-1890 è un semplice vaso da fiori a campana, che però viene come stretto e avviluppato alla base da una “natura rampicante di rose, di sterpi e tronchi bassi dall’andamento un po’ barocco, che a loro volta riescono a nascondere un quadrupede, forse una volpe, in una vivacissima, quanto spensierata ed un po’ eccentrica mescolanza adatta al piccolo mondo cui era destinata” (cfr. C. Ravanelli Guidotti che pubblica l’opera nel catalogo del 1994). A Menarini, decoratore della Sezione Artistica negli stessi anni di Angelo Sangiorgi, spettano poi il vassoio e la curiosa fruttiera con prese ad arpia decorati a fiori di campo recisi, in cui è possibile rintracciare intatto il linguaggio naturalistico di Lodi, nell’interpretazione offerta però dal Menarini, linguaggio che sarà poi riproposto massicciamente nella decorazione del vasellame dagli allievi di Lodi, anche dopo la morte del maestro bolognese. Tra gli highlights in mostra vi è senza dubbio il grande piatto da pompa eseguito dal nostro Lodi per la regina Margherita in occasione dell’Esposizione di Torino del 1884 (alla sua prima uscita da Crevalcore in prestito per una mostra). Su di esso l’artista bolognese fissa magistralmente le strabordanti e vaporose corolle nelle tinte pastello – spesso disposte a tappezzeria – che egli dipingerà con la tecnica della “pittura da cavalletto” su di una serie di grandi piatti prodotti per la Cooperativa nell’ultimo periodo creativo. Torniamo ora a Doccia. Le porcellane a bassorilievi istoriati – ossia con scene mitologiche brevemente rilevate sul fondo – ebbero a Doccia una particolare diffusione, rappresentando nel loro insieme una delle produzioni più tipiche dal primo periodo della manifattura, giungendo ad essere riprodotte anche in epoca revivalistica, come ampiamente testimoniato dai pezzi di notevole qualità presentati in queste pagine. Dapprima erroneamente chiamate “tipo Capodimonte”, poiché attribuite alla manifattura napoletana di Carlo di Borbone, solo in seguito furono ricondotte alla fabbrica di Doccia: dai serviti da caffè questa particolare ornamentazione plastica viene poi estesa agli oggetti più vari – bacili, cofanetti e vasi medicei – le cui forme ben si prestavano ad accogliere fatti storici o episodi tratti a piene mani dalla mitologia greca o romana. È Raffaello Pernici a stupirci con un cospicuo numero di porcellane (ben ventiquattro) decorate a bassorilievi istoriati, realizzate dalla manifattura di Doccia nella seconda metà del XIX secolo. Tra di essi menzioniamo lo strepitoso cofanetto nuziale sormontato da un raffinato gruppo plastico raffigurante Bacco e Arianna. È un tipico esempio della produzione ottocentesca della fabbrica che, durante tutto l’arco del secolo, immette sul mercato una grande quantità di suppellettili d’uso e di decorazione in bassorilievo istoriato, presentandole con straordinario successo alle esposizioni internazionali, a partire da quella di Londra del 1851. Nel catalogo delle porcellane proposte all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878 figurano due cofanetti, uno dei quali è proprio questo, come documentato da una stampa edita per l’occasione. I soggetti dell’apparato decorativo traducono, per lo più in porcellana, placchette tardorinascimentali con scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, realizzate da Giulio Romano, Guglielmo Della Porta, Salviati e Perin del Vaga; altre placchette in piombo furono create direttamente dalla stessa manifattura, sulla scorta delle illustrazioni inventate dall’Abbé Banier per il volume Les Métamorphoses d’Ovide (1732), ancora esistente negli archivi di Doccia. La prima sezione si chiude con una delle tre opere contemporanee presenti in mostra: una grande tela – La rosa mystica (2019) – raffigurante una tavola elegantemente imbandita su cui spiccano porcellane, vetri e un candido mazzo di rose bianche. Si tratta del magistrale esercizio di stile, che l’eclettico e geniale artista bassanese Luigi Pellanda ha realizzato appositamente per questo progetto espositivo.

Nella seconda sezione della mostra troveremo poi altre due opere contemporanee: una dipinto di Giovanni Gasparro, giovane e assai talentuoso pittore barese, raffigurante Santa Rosalia – eremita palermitana attiva intorno alla prima metà del XII secolo – che l’artista raffigura tradizionalmente con il capo coronato di rose (a ragione del suo nome), e una straordinaria scultura in ceramica policroma – una vanitas – dei celebri artisti imolesi Bertozzi & Casoni, Pensieri (2019), alla sua prima esposizione pubblica. Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Intorno al lamentoso ritornello dello stupendo libro di Qoelét (o Ecclesiaste), presero forma, specialmente nel XVII secolo, svariate espressioni dell’arte figurativa che si raccolgono nella categoria della Vanitas. Solitamente l’attributo che la qualifica è il teschio, emblema della transitorietà della condizione umana; ma dal punto di vista intensamente poetico l’ingrediente che dà consistenza alla rappresentazione della Vanitas è la malinconia, sia essa esplicita, come si delinea in certi ritratti e nella raffigurazione di santi solitari, sia allusiva, come in certe nature morte che all’apparenza non tradiscono alcuna connotazione di mestizia. Nella scultura di Bertozzi & Casoni la caducità della vita è simboleggiata da due sinuosi steli di rosa dai carnosi bocci rosa cenere appena dischiusi, ma destinati prima o poi – come la vita stessa – ad appassire. Tornando all’arte sacra antica, in mostra sarà possibile ammirare una nutrita schiera di opere ceramiche – targhe e sculture con policromia sotto vetrina e a freddo – prodotte a Faenza, come a Bologna e a Imola, tra il primo quarto del Seicento e il primo decennio dell’Ottocento. Tra di esse, menzioniamo la bella targa faentina con la Crocifissione databile al primo quarto del XVII secolo (in prestito dal MIC): si è scelto di inserirla ugualmente nel percorso di mostra, anche se su di essa non sono raffigurate rose, poiché il soggetto ci rammenta che i cinque petali della rosa canina fanno riferimento alle cinque ferite di Gesù crocifisso sulla croce. Alla fabbrica Ferniani va poi assegnata una targa con San Francesco d’Assisi e santa Margherita da Cortona (in prestito dal MIC) estremamente interessante per l’iconografia del santo: in basso a destra troviamo, infatti, uno spinoso ramo di rovo, chiaro riferimento a quel rovo sul quale, in una notte di gennaio, Francesco – per liberarsi dai pensieri impuri – non esitò a gettarsi. A Francesco – nella parte del catalogo dedicata alla grafica antica – è dedicato anche il bellissimo foglio di Agostino Carracci in cui il santo è raffigurato in meditazione sul Monte Alverna, mentre viene visitato da un angelo musicante, che lo induce ad un sonno estatico. Cinque sono le ceramiche prodotte nella bottega bolognese di Angelo Minghetti. Tra di esse scegliamo la raffinata placca centinata con la Madonna che cuce con Gesù Bambino nel giardino mistico (prestata da Raffaello Pernici): Maria, regina del “Giardino di Dio”, è qui ritratta non nella sua dimensione regale, ma in quella più intima e domestica di donna, moglie e madre. L’hortus conclusus in cui si svolge la scena è delimitato in primo piano da un lussureggiante roseto. Un vigoroso rosaio dalle corolle rosa carico che si arrampica sulla tunica della Vergine, divenendone a tratti un tutt’uno con essa, caratterizza Rosa Mystica, una delle tre graziose statuette di Minghetti (sec. XIX-fine, sempre di Pernici) il cui riferimento iconografico sono le invocazioni alla Vergine contenute nelle Litanie Lauretane. Santa Rosa da Lima e Gesù Bambino, piccola scultura in terracotta (dal Carmine di Imola) attribuibile al bolognese Giovanni Corazza, plasticatore attivo a Imola nel primo ‘800, formatosi presso la bottega di Filippo Scandellari, ci consente di ripercorrere la vita della terziaria domenicana nativa di Lima. La mistica è raffigurata coronata di rose non solo per assonanza con il suo nome, ma per la trasfigurazione delle sue privazioni e dei suoi tormenti: tra le tante penitenze a cui sottopose il suo corpo, inflisse alla sua testa lo stesso martirio di Gesù, indossando un serto di rose internamente trapunto di aghi, sino a costruire in seguito una vera e propria corona di metallo ornata di rose, dentro la quale aveva posto tre file di trentatré chiodi, tanti quanti gli anni di Cristo.

Anche quest’anno la Cooperativa Clai ha sostenuto il restauro conservativo di due opere selezionate per la mostra: una curiosa tavola di ambito veneto-cretese, databile alla prima metà del Cinquecento, raffigurante la Madonna del Rosario con santi domenicani e Misteri del Rosario (dal palazzo vescovile) e il prezioso, raffinatissimo, Reliquiario della croce (anche in questo caso il riferimento è la rosa canina, di cui abbiamo già parlato sopra) realizzato in bronzo dorato, argento, marmi policromi, ametista e corniola. Assegnabile alla bottega dei Valadier sulla scorta del raffronto con quello magnifico della Santa Croce, realizzato dal Valadier nel 1804 e custodito nella Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme all’Esquilino, è alla sua prima pubblicazione ed esposizione. Ben rappresentata è poi anche la grafica antica. Tra gli esemplari esposti va menzionato il piccolo foglio – Rosa Mistyca – dalla serie delle Litanie Lauretane di Joseph Sebastian e Johann Baptist Klaubert, in cui è raffigurata la Vergine emergente dalla corolla di una grandiosa pianta di rosa. Alla patrona di Imola – la Madonna del Piratello – sono dedicati due piccole fogli ottocenteschi (dalla raccolta del Museo Diocesano di Imola) in cui troviamo l’effigie della Vergine ornata da tralci di rose. La Madonna nella sua allocuzione a Stefano Mangelli (la stampa di Piancastelli raffigura proprio questo episodio), chiese al pellegrino di andare nella vicina città per dire alla gente che desiderava essere venerata in quel luogo. Ai dubbi del Mangelli, la Madonna rispose con un prodigio: la sua casacca si riempì di rose freschissime, nonostante il rigidissimo inverno; saranno quelle rose, che egli mostrò al Magistrato narrandogli l’accaduto, a dissipare ogni dubbio sulla veridicità del messaggio riferito. Oltre al più ricorrente giglio, tra i simboli iconografici di San Domenico compare pure la rosa. Lo testimonia il grande foglio del bolognese Francesco Maria Francia (raccolta del Diocesano di Imola), nel quale il ritratto del santo di Guzmán è sottolineato da una cartella con cimasa centrata da due steli intrecciati di fiori: uno di giglio e uno di rosa. Raffinati drappeggi di ghirlande di rose pendono dal reliquiario ad ostensorio barocco del velo della Madonna (dalla cattedrale di Imola). Considerato sino ad oggi opera di ignoto orefice romano, è decisamente da assegnarsi, invece, a Giovanni Fuerstenwegger, orafo viennese attivo a Roma e nello Stato Pontificio nel corso del Settecento. Tre tessili liturgici – una mitra e due pianete, databili tra l’ultimo quarto del Seicento e il settimo decennio dell’Ottocento – ricamati a fitti motivi floreali tra i quali spiccano grandi corolle di rose, completano il percorso. Menzioniamo, ovviamente, la pianeta dono del principe-vescovo di Bressanone al capitolo imolese, scelta anch’essa come immagine di mostra. Di manifattura brissinese, su di essa – tra tralci sinuosi di grandi fiori (rose, gigli, garofani, anemoni e tulipani) è ricamata la Madonna Immacolata, collocata entro una sorta di giardino mistico, “recintato” dai galloni che tripartiscono il fondo della pianeta.

Questa nuova ricerca, che trova una sua esplicitazione pratica nella mostra “Rosa Mystica”, offre indubbiamente la possibilità di poter ammirare tutti insieme, e per la prima volta, un cospicuo gruppo di materiali artistici di elevata qualità. Contestualmente – e mi sembra sia un elemento ancora più importante del mero fatto estetico – consente di rileggere la storia spirituale attraverso leggende che si perdono nella notte dei tempi tra superstizione, paganesimo e devozione popolare. In ultima analisi, quindi, di recuperare per mezzo dei segni e dei simboli naturali, lo spirito e la forza di quella devozione millenaria, i cui fondamenti divulgativi hanno trovato una solida base nelle più semplici conoscenze del tempo, tempo in cui la natura, con il passare delle stagioni, il profumo ed il colore dei fiori, ha svolto il ruolo di vero e proprio mezzo di comunicazione globale. La storia di un fiore, la rosa, su cui si innestano numerose storie sacre: il primo, per la sua straordinaria quanto effimera bellezza, ci rammenta la caducità della vita terrena; le seconde, poiché esemplari di Cristo, della Madonna e delle vite dei santi, spalancano una finestra sulla vita eterna.

Marco Violi

Per la realizzazione della mostra e per l’edizione del catalogo compio qui il grato dovere di ringraziare, in primo luogo, il Consiglio di Amministrazione della cooperativa CLAI e il suo presidente Giovanni Bettini. A tutti i prestatori delle opere in mostra e a quanti hanno collaborato, mettendo in comune esperienze e competenze, va la più viva riconoscenza. Testo tratto dal catalogo "ROSA MYSTICA - Il fiore della Vergine in tavola e nell’arte sacra", a cura di Marco Violi, Sasso Morelli di Imola, Chiesa del Morelli 6-8 settembre 2019, iniziativa di CLAI - Cooperativa Lavoratori Agricoli Imolesi sca. In collaborazione con il Museo Diocesano di Imola. Per approfondire sul significato simbolico della rosa cliccare qui.