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Ricordi della seconda guerra mondiale

1943 | 1945

Schede

Nel 1943 avevo appena compiuto sette anni e nell’aprile del 1945 nove. Presente alla proiezione del video su “la battaglia della Gaiana” è tornato nella mia mente il lucido ricordo di quel periodo. Ne approfitto, finchè posso farlo, per scrivere la mia testimonianza di quel momento storico che va dall’arrivo dei tedeschi in Italia, specificamente a Medicina, al loro ritiro e all’arrivo degli alleati.

Arrivo dei tedeschi. Una mattina di inizio estate 1943 giocavo davanti a casa e mi accorsi della presenza di qualcosa che non conoscevo. C’erano soldati armati, che poi imparai essere tedeschi, autoblindo, moto, auto, il tutto in colore verde chiaro militare. Questa presenza oltre me sorprese tutti (che la guerra la sapevano lontana) e cominciai a rendermi conto che avveniva qualcosa di nuovo e non buono. Continuai a giocare (mi piacevano i trattori e imitavo l’aratura) osservando la scena e ascoltando i colloqui che avvenivano intorno a me. Ma cosa volevano questi tedeschi? Bisognava mandarli via, bisognava dirglielo, ma loro non capivano l’italiano e rimanevano lì. Allora come si può fare? Bisogna trovare qualcuno che sappia il tedesco; andiamo a chiedere alla signora L. che venga a dirgli di andare via. Si discusse tutto il giorno, io alla sera andai a letto e dormii della grossa; al mattino successivo i tedeschi non erano più lì. 8 settembre 1943, caduta del governo Mussolini e grande festa. Io mi chiedevo come mai prima mi avevano vestito da figlio della lupa e adesso improvvisamente erano diventati tutti contrari al Duce. Mi stupii perché noi bambini urlammo abbasso il Duce in presenza di un Carabiniere, anche lui consenziente e festaiolo.

Trasloco della famiglia. Mio padre era stato licenziato e in novembre la famiglia si trasferì per un nuovo lavoro di papà dalla periferia di Medicina alla Tombazza, distante 4 km dal paese: quindi facemmo San Michel. Non era un episodio gradevole perché ci allontanavamo dal paese e dalla scuola, ma poi fu una fortuna perché se fossimo rimasti in quella casa quasi sicuramente ci saremmo trovati nel rifugio di San Rocco dove si andava quando suonava l’allarme e sul quale nel 1944 cadde una bomba che provocò la morte di più di 40 persone. La Tombazza era una piccola comunità ubicata in una campagna piatta 4 Km a nord di Medicina. Era un piccolo agglomerato con una casa grande nella quale risiedevano nove famiglie per un totale di oltre 30 persone (alcuni sfollati da Bologna), una stalla, una cascina per il fieno, un essiccatoio per il riso, un ampio magazzino per i cereali, un’aia, un capannone per gli attrezzi, un forno, pollai, porcili, capanni e un casotto (cesso) per tutti gli abitanti. La residenza della mia famiglia, distante un centinaio di metri dal gruppo, era stata ricavata su due piani separandola con un predintai (attuale cartongesso) dal resto del magazzino.  Lo ricordo bene perché nel silenzio della notte le grosse tope del magazzino mordevano rumorosamente le canne del muro provvisorio, il che non era affatto gradevole. Il nostro cesso, naturalmente esterno, distava 50 metri dalla casa. C’era per tutta la comunità una fontana con acqua potabile e vasche per bucato a disposizione anche di altre case dei dintorni.

Viveri e confort. Nelle case non c’erano corrente elettrica, gas, acqua. In casa mia c’era la cosiddetta cucina economica che consentiva di scaldare l’ambiente dove si viveva, avere l’acqua calda, cucinare (fuoco diretto e forno), asciugare il bucato, utilizzare le braci per scaldare i letti e la cenere per il bucato. Chi non aveva la cucina o la legna passava il tempo nella stalla dove la mescolanza calore umano e animale consentiva la sopravvivenza al freddo invernale. La stalla era anche luogo di ritrovo e c’erano persone che passavano da una stalla all’altra (andare a trebbo) raccontando favole, barzellette, notizie e maldicenze. Anche i miei andavano qualche volta nella stalla, così come gli altri abitanti, e tornavano raccontando con entusiasmo le storielle che avevano sentito. Io non gradivo il cattivo odore e nessuno mi obbligò mai ad andare nella stalla. Un minimo di cibo in campagna si riusciva sempre ad avere, dalle uova di gallina a qualche pollo, dal maiale alla pasta, pane (sia pur secco dal terzo giorno), verdura e frutta. Nel 1944 riuscimmo ad allevare un maialino che sacrificammo giovane per il timore di sequestro tedesco o partigiano. Il cibo era però sempre razionato al massimo e sognavamo che alla fine della guerra avremmo fatto un pranzo con sei uova di tagliatelle io, mio babbo e mio nonno (i cosiddetti uomini della famiglia).

I tedeschi. A fine 1943 presero possesso della parte non abitata del complesso costituendovi una specie di comando. Molti soldati erano stanchi della guerra e sfiduciati e venivano volentieri in casa dove mia madre sarta lavorava con apprendiste e accoglieva tutti; la nostra casa faceva ricordare loro la famiglia lontana e maledicevano la guerra. Nei primi tempi il rapporto con loro fu buono, escluso quando trovavano vino o alcolici, nel qual caso ubriachi diventavano violenti e pericolosi. Ricordo comunque tale Peter che mi insegnava il tedesco e che insieme ad altri commilitoni passò con noi il Natale (1943 o 44?) confezionando un panettone, fino ad allora per noi sconosciuto. E fu un bellissimo Natale trascorso insieme dimenticando con canti e allegria di essere nemici. Io e la famiglia avemmo una notte di paura quando per un attacco partigiano mio padre (che era il responsabile locale) fu sottoposto a interrogatorio e per un po’ sembrava lo volessero deportare in Germania. Eravamo terrorizzati in attesa della decisione; mi addormentai tardi, ma al mattino successivo mio padre era al suo posto. Ho poi saputo dopo anni che mio padre era effettivamente in contatto con i partigiani come informatore.

La scuola. I miei, mia madre in particolare, desideravano per me una condizione sociale da diplomato o laureato e fecero tutto quello che era nelle loro possibilità per raggiungere lo scopo. Non mi mandarono come sarebbe stato obbligo a scuola a Ganzanigo, ma a Medicina (oggi si parlerebbe di discriminazione). Avevo un km in più da fare in bici (percorso che facevo da solo); spesso la scuola era chiusa e i giorni di attività ridotti. Nel ricordo del percorso in bici vi è un aereo con due fusoliere (a “due code” come lo chiamavamo) che volava basso mitragliando. Sempre grazie a mia madre andavo a lezione da una maestra che stava nelle vicinanze (la Maria) molto brava e capace di insegnarmi molte cose. Avevo consumato le scarpe e i miei, trovati due zoccoli, mi fecero con tessuto militare verde alla meglio due scarpe delle quali mi vergognavo; le ho poi miserabili”.

I Bombardieri. Quando si udiva il rumore delle formazioni aeree le vedevo poi apparire da Est e potevo seguire il loro procedere ordinato, sia pure sempre con timore che cadesse qualche bomba. Il monotono rumore dei numerosi motori, che ricordo ancora, unito al pensiero che andavano a bombardare, annunciava pessime notizie. Al loro passaggio si accompagnava spesso il lancio di pagliuzze argentate che noi bambini raccoglievamo e che poi imparammo che servivano per ingannare i radar. Quando i bombardamenti avvenivano su Bologna, a poco più di 20 km da me, avvertivo confusi i rumori degli scoppi delle bombe e di sera vedevo anche i lampi e il cielo tinto di fuoco.

I caccia. Spesso comparivano in cielo i caccia che potevano mitragliare o lanciare piccole bombe. Quale riparo contro il mitragliamento? Semplice: la trincea a 7, che avevamo naturalmente scavata ben esposta e ben visibile dagli aerei in aperta campagna. Ma in quale parte si doveva stare? In quella perpendicolare o in quella nella direzione dell’aereo? Si discusse fra noi bambini di questo e non ricordo se chiarimmo il dubbio.

I Bengala, Pippo e i riflettori. Di bengala ne ho visti pochi, ma quando è capitato ho rilevato la loro grande capacità di illuminare il cielo quasi “a giorno”. “Pippo” era un piccolo aereo che di notte volava seminando paura fra i tedeschi e i civili. Quando si sentiva di sera il suo caratteristico rumore si spegnevano le luci e si rimaneva chiusi in casa. Nemici di Pippo erano i riflettori che con il loro fascio di luce potevano renderlo visibile bersaglio per le contraeree. Né i bombardieri, né i caccia, né Pippo si interessarono mai della Tombazza.

La fuga dei tedeschi. Era tanto che si aspettava l’arrivo degli alleati fermi da tempo sulla cosiddetta linea gotica; una mattina ci sembrò che i tedeschi stessero smobilitando. Caricarono tutto quello che potevano sui loro mezzi, innescarono l’incendio di un camioncino carico che non andava in moto e partirono. Mio padre si accorse subito dell’inizio di incendio e corse a prendere della sabbia da buttare sul fuoco riuscendo rapidamente a spegnerlo. Per fortuna non c’era materiale esplosivo, altrimenti poteva saltare il magazzino e io rimanere orfano di padre. C’erano soltanto salsamenterie che poi vennero ritirate dai partigiani.

L’arrivo degli alleati. A breve arrivarono gli alleati. Tutta la popolazione della Tombazza era schierata, alcuni con bandierine, altri con quello che avevano, per salutare i soldati alleati che nel timore che ci fosse ancora qualche tedesco nascosto in agguato procedevano armi in pugno dietro e a fianco di un carrarmato che li proteggeva. Il solito bene informato sparse la voce che i tedeschi potevano tornare, il che spense un po’ l’entusiasmo del momento. In effetti il fronte si fermò alla Gaiana e rimase fermo lì per tre giorni prima del totale ritiro tedesco. Però si fece un po’ di festa lo stesso. E il giorno dopo io, mio padre e mio nonno mangiammo a mezzogiorno le sei uova di tagliatelle a lungo agognate.

Giancarlo Caroli

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 15, dicembre 2017.