Rasori Vincenzo

Rasori Vincenzo

1793 - 1863

Note sintetiche

Scheda

Di origini bolognesi è figlio del tagliapietre Petronio. Nel 1805 risulta iscritto all'Accademia di Belle Arti di Bologna per il corso di ornato e figura. Al 1810 si deve il premio di prima classe per gli elementi di figura nell'Accademia felsinea, ove contestualmente espone sia due nudi a lapis rossi, copiati da Ubaldo Gandolfi, sia una Idea d'un Monumento in disegno a lapis eseguito nella Scuola degli Elementi di Figura, colla Medaglia di Napoleone, Vittorie, Trofei, Figure, ed emblemi allusivi. Nel 1813 si aggiudica il piccolo premio Curlandese per la pittura. Ricevuto il pensionato di studi per Roma, invia a Bologna nel 1821 il suo saggio consistente in un quadro dipinto a olio ... rappresentante Caino nella grandezza naturale che inorridito del commesso fratricidio cerca inutilmente d'involarsi all'ira di Dio. Al 1823 si deve l'esposizione di un ritratto in miniatura in occasione delle annuali premiazioni dell'Accademia felsinea. Altra mostra di sue opere nel 1824: tre dipinti a olio aventi per soggetto dei ritratti. Del 1834 circa è una commissione dei Padri Domenicani di Macerata, i quali richiedono un quadro con i santi Filomena e Apollonia insieme al beato Costanzo. Dipinto che suscitò giudizi contrastanti tra sembrare composte sotto la direzione dell'Urbinate (Raffaello) e gl'imparziali che videro quell'opera esposta, sino d'allora dissero, e potevano dirlo: questa sì che è satira!.

Al 1836 si deve l'esposizione in Accademia di un grande quadro rappresentante Annibale Bentivoglio nella Rocca di Varano. Del nostro viene scritto che poich'ebbe compito questo lavoro, da pochi visto nel di lui studio, fu da esso spedito a Roma perchè vi fosse esposto. Tornato in Bologna è stato buon intendimento di chi ha bramato che facesse anch'egli parte dell'odierna Esposizione. Il soggetto è Municipio, bolognesi sono e l'Illustre Committente e l'Artista; quindi se non primi, a noi pare doveva essere permesso di vederlo e giudicarlo. Segue un'attenta analisi del dipinto in cui il momento rappresentato è la fuga in notturna del Bentivoglio sorretto dai suoi uomini. Infine si scrive come per molta parte della composizione è buona; l'assieme di bell'effetto; e l'Artista è degno di lode per avere scelto un soggetto patrio, trattato con quell'amore ch'era in suo potere di fare. Vincenzo riesce ad entrare anche nel circolo delle committenze ecclesiastiche: in San Giovanni Battista di Castenaso dipinge una pala d'altare, in S. Maria di Sabbiuno vedesi una bella tela dipinta ad olio dall’artista bolognese Vincenzo Rasori, che l’operò circa del 1835 e infine a Bologna in Santa Maria della Carità a sottoquadro vedesi un divoto sant'Antonio Abate. Nel tempo riscuote un riconoscimento ufficiale dall'ambiente artistico locale, poichè viene inserito tra i Soci d'Onore della Pontificia Accademia di Belle Arti di Bologna, e nel 1842 indicato come bolognese pittore. Attività comune a molti pittori dell'epoca è quella del restauro, e infatti Vincenzo interviene su un dipinto di Elisabetta Sirani in S. Giovanni Battista di Trebbo: restaurata con diligenza, or volgono quasi due lustri, da Vincenzo Rasori e da Antonio Muzzi, pittori bolognesi. Nel 1846 viene ricordato da Enrico Bottrigari nella sua 'Cronaca di Bologna' (Zanichelli, 1960); Così S.M. il Re di Sardegna nel giorno 31 dello scorso Agosto nominava Cavaliere dell'ordine insigne de' SS. Maurizio e Lazzaro il Pittore nostro Concittadino Vincenzo Rasori, il quale ha eseguito diversi quadri storici per ordine di quel Monarca. E' documentato anche un suo lavoro nel cimitero bolognese della Certosa. Verso il 1813 esegue insieme a Giuseppe Muzzarelli il monumento dipinto a Giovanni Atti. Muore a Bologna nel 1863 e viene sepolto proprio poco distante il suo lavoro cimiteriale, nel Chiostro III, al pozzetto 464.

Roberto Martorelli

Così viene segnalato ne 'LA FARFALLA', anno 1842 n.21, mercoledì 25 Maggio: "BELLE ARTI. L'articolo seguente è tratto da un'Appendice della Gazzetta Piemontese, nella quale si da contezza della pubblica Esposizione di Belle Arti in Torino, nella circostanza delle Auguste nozze di quel Principe Ereditario.

DIPINTI DEL PROF. RASORI BOLOGNESE. Poiché cessarono le feste di Torino, e ne raccontarono i fogli le splendide pompe, la copia degli spettacoli, l'esultanza comune, e compendiarono, per così dire, i plausi che nella fausta occasione innalzarono le Muse, è debito di giustizia consecrare alcune brevi colonne alle Belle Arti, che in questa occasione medesima fecero mostra delle loro felici creazioni. Queste divine, che, come le Muse, direbbero gli antichi, sono anch'esse figliuole del cielo, promettono da gran tempo di voler piantare il lor seggio in questa metropoli, la quale si va adornando di tutte le ispirazioni dell'ingegno e di tutte le operazioni dell'industria. E' d'uopo far plauso ai loro tentativi, che riescono a bene, e alle loro speranze, che sono vicine a realizzarsi. A noi giornalisti, che pretendiamo essere interpreti dell'opinione pubblica, spetta un uffizio assai difficile a compiersi, e di più utilità che non sia l'interpretazione; quello cioè di rettificare questa opinione medesima, quando si lascia traviare dalla moda, ed ottenere perciò il duplice scopo di giovare alle Belle Arti, e di rendere servigio ai loro amatori. Sono molti anni che in Italia si va lamentando una tal quale decadenza della pittura, e forse a questa alcuni scrittori concorrono coi loro giudizi. Nei quadri di storia noi veggiamo uniformità di soggetti, monotonia d'invenzione, e continua imitazione dei modi: l'età di mezzo, che sembra rigurgitare sulla presente: repliche sopra repliche della Francesca da Rimini, della Maria Stuarda, ec. ec.: mostre di velluti e di arazzi, di piume e di veli, di corazze e di spadoni: non più nudi, non più estremità: volti nascosti negli elmi, mani coperte da guanti ferro, piedi istivalati o deformi nelle scarpe puntute. E' moda, si dice; ma è pure la trista moda! Nei ritratti, trascurato il principale, anzi sacrificato agli accessorii; non carni, non espressione, non somiglianza; ma trine, merletti e sete screziate. Nei paesi, una natura che non è e non fu mai; e in mezzo a burroni interminabili e a piante gigantesche nane figurine che a mala pena si scernono. E' moda, si dice; ma è pure la trista moda! Osservano i pochi, cui stanno in mente le glorie antiche dell'arte, la semplicità e l'efficacia dei nostri maestri, e i mezzi diversi, ma sempre consentanei al vero ed al bello, delle prime scuole italiane. E' pure la trista moda! Io ripeto: poiché ella fa si che artisti dotati d'ingegno e di perizia sono costretti a seguirla per quel funesto bisogno che il Parini chiamava persuasore dei mali: imperroché temerebbero di non trovare ne committenti, ne compratori, senza dei quali vien meno il coraggio, e cadono all'arte le braccia. Contro a questa moda pertanto conviene levarsi, ed io mi levo, anche a costo di vedermi sopraffatto dai suoi numerosi seguaci, e non contro ai pittori che sono da lei trascinati. Ond'è ch'io chiamo felici quei pochi che sanno sottrarsi alle necessità volute da questa capricciosa potenza, se non per altro per distaccarsi dalla servilità di un sol genere ed appigliarsi alla bella varietà già seguita dagli antichi: e forse più felici ancora quegli altri pochi, che pure, sacrificando a quel genere mentovato qui sopra, nulladimeno non si dimenticano le savie norme dell'arte, e non si privano dei più sodi vantaggi ch'essa presenta. Fra questi pochi io non credo di andare errato se colloco il Rasori da Bologna, il quale, condotto da particolari riguardi a trattare soggetti pertinenti al medio evo, sa farlo con maestria e con sana ragione, come io procurai dimostrare descrivendo il suo bel quadro veduto l'anno scorso, rappresentante l'incontro di Buondelmonte colla bella fanciulla de' Donati.

Ora il Rasori ha esposto tre dipinti dello stesso genere, nei quali è manifesto non solo il valore del suo pennello, ma il senno eziandio che lo governa. Uno rappresenta Pietro l'Eremita, il secondo Marino Faliero, il terzo l'infelice Lisabetta da Messina, la cui è raccontata dal Boccaccio. Fanatismo nel primo, vendetta nell'altro, amore sventurato nell'ultimo; trilogia, per così esprimermi, di passioni, che il pittore ha colorito come un poeta potrebbe descrivere. Una figura sola per quadro, il solo protagonista, basta a rivelare l'argomento, ovvero l'azione, quanto potrebbero fare parecchie figure, che un altro avrebbe adoperato per significare il suo concetto. Tutto apparisce dall'espressione della fisonomia, dal movimento della persona, e da un semplice accessorio, se tale può dirsi una cosa che caratterizza la persona medesima. E questo a me pare il non plus ultra dell'arte. L'Eremita Pietro è un'imponente figura, tal quale ce la mostrano le cronache, il Padre Mainbourg e il Michaud nella loro Storia delle Crociate, non come la volle ideare Torquato nella Gerusalemme Liberata. Esso, l'eremita, è coperto di rozzo panno, adusto in volto qual si conviene ad un uomo che ha sfidato il sole dell'Oriente e i disagi di lunghe peregrinazioni, di tratti volgari anzi che no, come ad ignoto romito nobilitato dal suo solo entusiasmo. La fronte è corrugata, l'occhio acceso e spalancato, la mossa impetuosa, l'atteggiamento concitato: direste che un sacro furore lo prende, che invita a rannodarsi le turbe, che proferisce il formidabile grido: “ Iddio lo vuole, Iddio lo vuole.” Egli è un vecchio ancora robusto, non solo perché tale ce lo addita l'istoria, ma perché conviene all'azione; i suoi capelli cominciano a incanutire, le guance a scolpirsi delle rughe degli anni; ma il petto è vigoroso, il braccio forte, la voce tuonante. Gli è il vero ritratto dell'entusiasta. Marino Faliero è un altro vecchio, ma di tutt'altra natura; canuto, e con bianca barba prolissa, venerabile per età e per condizione, ferito profondamente come Principe e come marito nel sentimento della sua dignità e della sua affezione. L'ira e il rancore represso nell'anima si manifesta nelle ciglia aggrottate e nelle labbra contratte: non prorompe in furore, perché il doge di Venezia è assuefatto a nascondere i suoi pensamenti, perché il politico opera e non minaccia: bensì per un moto involontario stringe il pugno, e sembra con una mano scipare il calunnioso scritto di Steno, e in quello sforzo ch'ei fa, nell'atteggiamento ch'ei prende, apparisce a chiunque lo mira il disegno della vendetta, e un interno convincimento ch'ella dev'essere tremenda. La terza figura è una donna addolorata che inaffia un vaso delle sue lagrime. E' una misera giovane privata del suo diletto, trucidato a tradimento dai feroci fratelli. Essa lo ha disseppellito dalla fossa ove nascosto lo avevano gli uccisori, seco aveva portato la sua testa, e fasciata in un drappo l'avea celata in un vaso: “poi, come dice il Boccaccio coll'evidente suo stile, messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo basilico salernitano, e quegli di niuna altr'acqua che o rasata, o di fior dì aranci, o delle sua lagrime, non inaffiava giammai, e per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo desiderio vagheggiare sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascosto; e poiché molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piangea. “La Lisabetta del Boccaccio è la Lisabetta del Rasori, e ciò basta all'elogio. E' bella donna a cui l'afflizione guasterà fra poco la bellezza; è un'afflitta che piange, ma divora in silenzio le sue lagrime perché i fratelli non se ne avveggano, e non le tolgano, come fecero in fatto, questo tristo conforto: avvi nel dolore di quel sembiante un certo che di rassegnato, che fa trasparire che ormai non vi ha rifugio per lei fuorché nella tomba. Gl'intendenti cercheranno in queste tre figure i pregi dell'arte, vale dire la scuola a cui si appartiene il dipinto: diranno specialmente che nelle due prime vi ha del Tiziano, che nell'ultima vi ha qualche cosa che ci rammenta il Guercino nell'Agar piangente: io non so; ma dico che la scuola del Rasori è quella della natura. Così non istarò a descrivere i meriti dell'esecuzione, il colorito delle carni, la sveltezza delle pieghe, la correzione del disegno, la diversità dei vestimenti; ruvido l'uno, splendido l'altro; questo ne ricco, ne povero, ma quale conviensi a donna di modesta condizione, e mal suo grado adorna per non isvelare il lutto che ha in cuore. Io, in questo semplice abbozzo di descrizione, ho contemplato la pittura per lato della convenienza, e da quello della così detta estetica dell'arte. Per rilevare quanto valga il Rasori, io prego gl' intelligenti a dar un'occhiata ai due ritratti egualmente esposti. Sovr'essi io non mi dilungo perché uno rappresenta me stesso: non potendo parlare di questo, taccio dell'altro; e ciò forse è quello ch'io posso fare di meglio. D'altra parte che son mai due ritratti, per quanto perfetti sian essi, dirimpetto alle tre figure istoriche descritte qui sopra ? In quegli vi ha somiglianza, impasto di colori, naturalezza di posa: in queste vi ha la sublimità el concetto, la verità della passione; nei ritratti il Rasori è ottimo artefice, ne dipinti istorici è molto di più: gli è filosofo e poeta. FELICE ROMANI". (trascrizione a cura di Lorena Barchetti, luglio 2022).

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Documenti
Bibliografia
Collezione dei Monumenti Sepolcrali del Cimitero di Bologna
Zecchi Giovanni
1828 Bologna Giovanni Zecchi
Le chiese parrocchiali della diocesi di Bologna, vol. 1
AA. VV.
1844 Bologna San Tommaso d'Aquino