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Professori antifascisti espulsi dall’università

Politico 24 Dicembre 1925

Schede

La fascistizzazione della scuola e del mondo della cultura - iniziata con la pubblicazione del “Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, redatto a Bologna il 21.5.1925, al termine del Convegno per la cultura fascista - si concluse nel 1931, quando i professori universitari furono costretti a giurare fedeltà al regime.


Parlando al secondo Congresso nazionale degli istituti di cultura fascista, il 21.11.1931, Giovanni Gentile disse: «L’intellettuale sbandamento, ecco finalmente, grazie all’art.18 del Decreto di agosto sull’Istruzione superiore, sparisce dalle nostre università, dove rimase sino a ieri annidato, e la pace necessaria al lavoro torna nella scuola».

Molto compiaciuto aggiunse: «Il fascismo ha vinto e l’Italia è tutta fascista».
Una pesante cappa di piombo calò sulla scuola e sul mondo universitario, all’interno del quale molti Maestri erano riusciti a tenere accesa la fiamma della libertà e conservare una certa autonomia dal regime, nonostante i ripetuti provvedimenti liberticidi del governo fascista.
Il primo, risalente al 24.12.1925, prevedeva l’allontanamento di tutti i funzionari statali - insegnanti compresi - che si fossero posti «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo».
Due anni dopo fu esteso ai professori universitari l’obbligo del giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, anche se, nella realtà, i professori giuravano di non appartenere alla massoneria.
Il colpo di grazia, con la resa della quasi totalità del corpo insegnante, fu dato con il decreto del 28.8.1931, n.1.127, dal titolo «Disposizioni sull’istruzione superiore», pubblicato sulla “Gazzetta del regno” dell’8.10.1931, n.233.
Ispirato da Gentile e preparato dal ministero dell’Istruzione Balbino Giuliano, era composto di 90 articoli. Il 18° recita: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al regime fascista. Giuro che non appartengo ne apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilia con i doveri del mio ufficio».

All’inizio dell’anno accademico 1931-32, quando i 1.225 cattedratici universitari furono invitati a firmare un modulo, con il testo dell’art.18, solo 12 non si piegarono all’imposizione e rinunciarono all’insegnamento. Altri, non molti anche se non si conosce il numero esatto, chiesero di essere collocati anticipatamente a riposo.
All’interno del mondo cattolico prevalse l’orientamento favorevole al giuramento, anche se alcuni docenti si sottomisero con “riserva mentale”, secondo l’indicazione di padre Agostino Gemelli.
Il 14.12.1931 “L’Osservatore romano”, pur invitando i cattolici a giurare, scrisse che esisteva una notevole differenza tra il giuramento allo stato e quello per l’insegnamento universitario «Come appare evidente dalla lettura delle due formule». «Per dissipare del resto qualsiasi dubbio» - aggiunse - «basterà osservare che il contesto medesimo della formula del giuramento, mettendo sullo stesso piano il Re e i suoi Reali successori e il Regime fascista, mostra con sufficiente chiarezza che l’espressione “Regime fascista” può e deve nel caso presente aversi per equivalente all’espressione “Governo dello Stato”. Ora al Governo dello Stato si deve, secondo i principi cattolici, fedeltà e obbedienza, salvi s’intende, come in qualunque giuramento richiesto ai cattolici, i diritti di Dio e della Chiesa».


La decisione del governo fascista suscitò la protesta dei docenti universitari di tutte le nazioni democratiche. Voti di solidarietà con gli insegnanti universitari italiani furono espressi negli atenei inglesi, francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, belgi e americani. «L’Ateneo italiano è condannato a morte nel confronto di tutti gli altri», così scrisse, il 15.10.1931, “La Libertà” di Parigi. E si chiese: «Prevarrà nei Maestri il bisogno spirituale, ormai fatto una seconda nobilissima natura, di comunicare coi giovani, di addestrare i giovani alla scienza e alla vita, a prescindere anche da qualunque angusto calcolo di interesse o di carriera? O, per contro, prevarrà l’idea che non c’è insegnamento efficace presso i giovani che quello che si accompagna con l’esempio della vita?».


Il 10.12.1931 il giornale pubblicò il primo incompleto elenco dei docenti che non si erano piegati. Scrisse: «Onore a quegli eroi e veri martiri della libertà di coscienza che anzi di giurare hanno preferito abbandonare le loro cattedre e affrontare il destino di miseria e di persecuzione che è il loro retaggio. Rispetto anche a quelli che, vincolati con vincoli di carne, alla loro scienza, ai loro gabinetti, alla gioventù che li circonda, hanno creduto di poter risolvere il conflitto con leali dichiarazioni che essi restano quello che sono, quelli che furono, ributtando sul fascismo la odiosità e la vergogna di un giuramento domenicano che non può avere un contenuto di obbedienza perché incivile e impossibile. Noi non possiamo neppure inveire irrispettosamente contro gli altri che hanno subìto l’onta. Sotto la tirannide, la vita è così complicata!

Le responsabilità della coscienza individuale così terribili! Il nostro odio e il nostro disprezzo è tutto per il fascismo, questo mostro estraneo alla civiltà moderna».


A Bologna non giurarono Bartolo Nigrisoli, ordinario di clinica chirurgica generale; Filippo Cavazza, libero docente di zoologia; Antonio Gnudi, libero docente di patologia medica; Ignazio Brunelli, libero docente di diritto costituzionale; Nino Samaja, libero docente di patologia medica. Luigi Silvagni, ordinario di patologia medica dimostrativa, pare che sia andato in pensione anticipatamente per evitare il giuramento.
Fiero oppositore del fascismo sin dall’inizio del regime e firmatario nel 1925 del manifesto di Benedetto Croce contro la dittatura, Nigrisoli, come scrisse in seguito, decise di compiere «nessun atto, né segno di adesione mia al fascismo» perché il significato della sua «vita (era) di puro ospedale e di scuola».
Il 15.12.1931 il ministro dell’istruzione gli comunicò che era stato rimosso dall’insegnamento per essersi «col rifiuto del giuramento messo in condizioni di incompatibilità con le direttive politiche generali del governo».

Nigrisoli ha scritto della sua destituzione nel saggio Parva. Perché e come fui clinico e dopo dodici anni deposto, in “Fatti e teorie” n.3, 1948. (Il saggio è stato ristampato dalla Clueb nel 2001).


Cavazza motivò il suo gesto in una lettera al rettore Alessandro Ghigi, nella quale, tra l’altro, si legge: «Sono profondamente addolorato di non poter aderire all’invito per uno scrupolo morale (forse) di coscienza, tanto più, com’è noto alla S.V., io non mi sono mai occupato di politica né ho mai fatto atto contrario alle direttive delle Superiori Autorità. Ben al contrario, in passato ed ora, ho creduto sempre doveroso il mettere a servizio del mio Paese quel pochissimo di attività e di conoscenze tecniche che in alcuni campi possiedo e ciò col solo intendimento di dare un piccolo contributo all’opera di utilità comune. Non mi credetti mai autorizzato dalla mia coscienza a legarmi ad un partito politico (e naturalmente ho sempre aborrito ogni società segreta), perché per promettere la propria fedeltà non solo di atto, ma anche di pensiero, bisogna essere profondamente sicuri di sé». Aggiunse di avere rifiutato la tessera del PNF sin dal 1923, quando gli fu offerta.
In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1932-33, il rettore Ghigi, parlando dei docenti che avevano cessato l’insegnamento - per i motivi più diversi - così liquidò il caso Nigrisoli: «...ci ha pure volontariamente lasciato il prof. Bartolo Nigrisoli, ordinario di Clinica Chirurgica».
Il mensile bolognese “L’Università Italiana”, diretto da Pietro Albertoni e Raffaele Gurrieri, dopo avere pubblicato l’elenco dei 12 cattedratici italiani che non avevano giurato, così scrisse: «Non facciamo commenti al provvedimento; ognuno ha già fatto il suo. Notiamo solo che fra gli usciti sono Uomini di alto valore, veri, provati patrioti, fedeli alla Casa Regnante». (“L’Università italiana”, n.3, marzo 1932, pp.61-2). Si trattò di un grande atto di coraggio, se si considera che Leandro Arpinati - ministro dell’Interno e principale esponente del fascio bolognese aveva diffidato i docenti bolognesi a esprimere la loro solidarietà a Nigrisoli.
Il docente che gli successe nella cattedra poté pronunciare il suo nome - nel discorso inaugurale dei suoi corsi - dopo avere chiesto il permesso a Mussolini. I presenti, quasi tutti studenti, acclamarono a lungo il grande clinico.
Dopo la Liberazione, i docenti allontanati furono invitati a riprendere l’insegnamento.
Il 3.7.1945 il rettore Edoardo Volterra inviò questa lettera a Samaja: «Ho il piacere di comunicarle che il Ministero della Pubblica istruzione, da me interessato per la regolarizzazione della Sua posizione di Libero docente presso questa R. Università, ha risposto che considera come dovuto a cause di legittimo impedimento il periodo in cui Ella si è allontanato dall’Università e la conseguente mancanza di attività didattica, in quanto Ella fu costretta a ciò per motivi politici e per non prestare il giuramento al governo fascista.

Poiché la Sua abilitazione risulta già confermata, Ella potrà senz’altro riprendere lo svolgimento dei corsi liberi».
Le lettere inviate ai docenti erano diverse nella forma, ma uguali nella sostanza. A causa dell’età - aveva 86 anni - Nigrisoli non accettò la carica di rettore, alla quale era stato designato dal CLN, né riprese l’insegnamento. Declinò l’offerta il 7.5.1945, quando gli fu rivolta dal commissario straordinario del sindacato dei medici di Bologna e il 13.7 quando fu nuovamente invitato da Armando Businco*, preside della facoltà di medicina. [O]