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Scultura in Certosa dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale

1891 | 1920

Schede

I monumenti della prima guerra mondiale alla Certosa di Bologna nascono da un terreno ricco di germi artistici, spesso opera di scultori impegnati nello stesso luogo per tombe di diverso tenore che in questo caso specifico piegano alla volontà delle famiglie il loro linguaggio, trattando un’iconografia particolare. Questo rapido itinerario tra le tombe più significative del cimitero comunale realizzate dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento, quando fu commissionata la maggior parte dei monumenti ai caduti presi in esame, si propone di evidenziare alcuni dei momenti, dei temi e degli artisti più significativi del periodo per meglio comprendere lo sfondo e la cultura da cui derivano gli oggetti specifici di studio del volume. La fine dell’Ottocento, caratterizzata da una continuità del realismo, è ben espressa a Bologna negli anni Ottanta da Carlo Parmeggiani, autore del Pellegrino Matteucci del Chiostro maggiore. Il motivo classico e rinascimentale del gisant si attualizza nella scelta di collocare il defunto su un sarcofago con la fiancata occupata da un paesaggio africano, disteso su una pelle di leone e con indosso l’abito da esploratore, ad enfatizzare l’inquietudine di chi volle conoscere a prezzo della vita. Lo stesso drammatico senso della realtà impronta, quasi dieci anni dopo, i capolavori di Enrico Barberi nella Galleria degli Angeli, in particolare il monumento Bisteghi. Qui troviamo, sapientemente combinati dal maestro di una generazione di scultori attivi nel Novecento in Certosa, il realismo dei predecessori Carlo Monari e Salvino Salvini4 insieme con l’attenzione al recupero neorinascimentale e medioevale che proprio in questi anni Rubbiani stava elaborando e che sfocerà nei restauri architettonici bolognesi e nell’esperienza collettiva dell’Aemilia Ars. Un’esperienza che trova largo spazio in Certosa, a cominciare dal monumento Cavazza, col grande Cristo crocifisso di Barberi che domina la Galleria degli Angeli da un altare neomedievale sui cui gradini un raffinato artista della gilda ha steso un tappeto intagliato nel marmo e sontuosamente colorato nel fondo di rosso, un damasco di pietra carico di melagrane. Il realismo continua nel chiostro VII, ben aldilà dell’esperienza di Carlo Monari, nei busti di Alessandro Massarenti per le tombe Minghetti e Zanichelli, dove all’immagine vibrante del defunto si contrappone lo spazio riservato al fantastico e al revival che si riempie di girali e candelabre neorinascimentali e di puttini in uno stile robbiano modernizzato. Gli artisti indagano con attenzione anche il tema dell’infanzia perduta, giungendo ad esiti indimenticabili nella fanciullina Minelli, seduta sul cippo nel Chiostro VII, o nel bambino di Veronesi per la tomba Gancia, col suo abitino alla marinara e col cappello educatamente stretto nella mano, che si alza sulle punte dei piedi per un tenero bacio.

Col procedere verso il nuovo secolo si fanno avanti istanze simboliste e poi decisamente liberty. Un preannuncio simbolista isolato rimane il monumento Comi (1898) di Giorgio Kienerk che nella nuova sala di S. Paolo anticipa figure dalle movenze sinuose e lievi stiacciati che riprendono sì la scultura rinascimentale, ma gareggiando con la pittura sfumata dei simbolisti italiani, da Pellizza da Volpedo a Segantini. Del resto Kienerk era e sarà, soprattutto in seguito, anche un pittore. Quasi di fronte alla Comi la tomba Ronzani di Pasquale Rizzoli mescola idee liberty al potente realismo di discendenza michelangiolesca che Bistolfi e De Carolis contribuiranno a diffondere in città nei primi decenni del Novecento e che diverrà carattere distintivo dello scultore bolognese fino alla fine, elemento indelebile del suo linguaggio figurativo. Qui la figura del Lavoro, muscoloso atleta in riposo che si appoggia ad una ruota dentata, si compone con l’angelo sfuocato dalle linee sottili, decisamente simbolista, e col busto del committente, dalla vivace resa ritrattistica. Lungo il profilo dell’arco i motivi fitomorfi sono ripresi dal monumento Comi, mentre il mazzo di spighe alla base della mensola che sostiene il busto, allusive all’industria della birra da cui Ronzani trasse la sua fortuna, si apre in tre, simmetricamente, diventando un prezioso motivo floreale. Dal realismo al liberty passa anche il linguaggio del cesenate Tullo Golfarelli11 che dagli inizi, segnati dal potente fabbro Simoli (1892), istantanea del Labor che giorno per giorno costituisce la fortuna del lavoratore onesto e intraprendente, si alleggerisce nelle figure eteree delle celle contigue Gangia e Cillario. Qui il marmo si colora dei riflessi policromi e dorati del mosaico delle decorazioni Aemilia Ars, disegnate da Achille Casanova, ripresa anche dalla scelta stilistica neorinascimentale dell’architetto, Attilio Muggia. Apice di questo nuovo momento espressivo è la piccola ma raffinatissima stele Ferrero dove il profilo entro un tondo della fanciulla Adriana è circondato da svelte figurette alate, più simili a fate che ad angeli. Allungate ed eleganti figure liberty popolano dalla fine del secolo anche la Galleria e il Chiostro VI: ormai gli scultori locali si sono adeguati al nuovo linguaggio e lo impiegano abbondantemente nei nuovi spazi edificati a queste date, che si popolano di sculture. Giuseppe Romagnoli lascia in Certosa pochi, preziosi monumenti, perfettamente in linea con il nuovo gusto. Il grande angelo Saltarelli, sotto la cupola della Galleria, si protende in avanti, il motivo grafico delle ali a fargli da sfondo, tra due siepi di papaveri, i fiori dell’oblio e della morte (1900). La sua fanciulla Albertoni muore con grazia, quasi svenisse tra le braccia della compagne, in mezzo a candidi gigli allusivi alla purezza verginale e alla morte troppo precoce (1908). La donna di Marco Sarto per la tomba Sabbioni esce da una siepe di rose come una figura di Segantini (1917 ca.), avvolta in una atmosfera indefinita che deve molto a Leonardo Bistolfi, già attivo in questi anni a Bologna per il monumento corale a Giosuè Carducci18. Angeli in volo rapiscono figure femminili simboleggianti l’anima in un abbraccio che si fa sempre più sensuale. Esemplare la cella Magnani (1904), dove Pasquale Rizzoli ambienta il suo gruppo bronzeo contro un fondo di mosaico azzurro, movimentato dalla luce che piove dall’alto. Avvolgenti panneggi di velo mostrano e nascondono le membra allungate e l’abbandono della morte assume ambiguità palpabili. Angeli solitari svettano sulle tombe, delicate icone femminili che additano il cielo o, come nella tomba Magnani di Golfarelli (Chiostro VI), portano un dito alle labbra a chiedere silenzio per chi riposa. In questo novero rientra anche l’Angelo della Resurrezione di Stefano Galletti per il monumento Bevilacqua del 1896 (Chiesa di S. Gerolamo, cappella dell’Annunziata) che anticipa elementi liberty nella sveltezza del gesto e nell’impiego di materiali diversi, nella commistione del marmo bianco e del mosaico policromo. Quando è il dolore a parlare lo fa nei panni di una figura femminile, già presente nell’età del realismo, ma non più abbigliata all’ultima moda o conducente per mano un bambino, bensì sola e annichilita, vedova disperata ai piedi del feretro nella tomba Berselli di Veronesi (1902, Campo VII) o scarmigliata femme fatale dai capelli sciolti e dalle vesti scomposte nel monumento Montanari di Diego Sarti (1891, Campo VII). A volte a disperarsi è un bambino, come nel cippo Fabbri dove Colombarini chiude un piccolo snello ignudo, che ricorda i fanciulli di Kienerk, entro un profilo rettangolare da cui tenta disperatamente di evadere (1906). Raramente il defunto è rappresentato sul letto di morte, e dove ciò avviene, come nella tomba Spettoli di Massarenti (1891), l’immagine è monumentale, ancora realista, e in alto, a rubarle la scena, lo scultore inserisce un elegantissimo ramo di palma e un tondo con una Madonna col Bambino che sembra tradurre in scultura i dipinti sacri di Niccolò Barabino. Palme, melograni, papaveri e capsule di papavero, gigli, rose in boccio e più modeste rose canine, scolpite o incise nel marmo, spesso dorate, a volte in mosaico, sempre comunque stilizzate nel gusto Aemilia Ars, incorniciano i ritratti dei defunti in un sapiente contrapposto di realistico e di simbolico. Il delicato grafismo di questa stagione è ben espresso da Gaetano Samoggia nei suoi rilievi, come quello Calzoni (1900) nel Chiostro VI, e compare anche nell’anonima tomba Sanguinetti dal coronamento arrotondato in cui si isolano raffinati papaveri a rilievo. I complementi indispensabili delle celle, in ferro battuto, si devono a ditte come Maccaferri e Mingazzi, insuperabili nel tradurre le idee Aemilia Ars in metallo, capaci, nei cancelli e nelle lampade sospese, di veri capolavori floreali in perfetta armonia con la progettazione globale delle cappelle di famiglia dove il lavoro dei singoli artisti si armonizza in un unicum perfetto.

La tomba di questi anni primo novecenteschi è ancora innalzata da imprenditori viventi a se stessi e alla propria famiglia e documenta un momento particolare della società italiana, quello positivista e progressista dell’avvento di una solida borghesia di commercianti e industriali che non badano a spese per evidenziare il ruolo di spicco raggiunto nell’economia cittadina25. A seconda della collocazione topografica incontriamo cippi monumentali, cappelle, celle, spesso dominati dal ritratto del capostipite cui si deve la fortuna della famiglia. Basta pensare alla tomba del panificatore Atti nel Chiostro VI, col busto circondato da un girotondo di allegorie con in mano mazzi di spighe, a quella Ronzani di cui abbiano già detto, a quella dell’editore Zanichelli che si fregia del logo delle sue edizioni come se fosse uno stemma nobiliare o del sarto Agostini che fa diventare le forbici aperte, strumento del mestiere, elemento araldico del blasone di famiglia. Anche i materiali cambiano, col passaggio al nuovo secolo. Dall’uso quasi esclusivo del marmo bianco si passa al bronzo, vero co-protagonista della scultura del Novecento in Certosa. Lo usano Rizzoli e Montaguti, Colombarini e Sarto, meglio se contrapposto alla cromia scintillante del mosaico come nella cella Baroni di Rizzoli (1912, Chiostro VI) o al colore del serpentino o di altri marmi policromi come nella tomba Bonora (1921), dove le figure in bronzo di Borghesani sfilano ripetitive contro il fondo in basalto. Innegabile è l’influsso neomichelangiolesco di due artisti la cui presenza a Bologna incide sulla scuola locale: Leonardo Bistolfi che in questi anni lascia alla Certosa il busto mobilissimo del direttore d’orchestra Ferrari ma che sarà più incisivo con il monumento a Carducci i cui bozzetti sono divulgati già nel 1908, e Adolfo de Carolis che inizia i lavori degli affreschi in palazzo del Podestà nel 1911. Le potenti figure di questi artisti, oltre a Rizzoli, incideranno su Montaguti e Romagnoli che ne sono debitori rispettivamente nella tomba Rimini e in quella Guizzardi. Michelangiolismo non è però solo muscolosità e potenza ma pathos forte e drammatico che spira da tanti monumenti del Campo Carducci come quello Riguzzi (1919) di Montaguti o quello Bartolini di Rizzoli (1925, Chiostro IX, Lato Sud). Attorno al primo decennio del Novecento le forme liberty si semplificano fino a sfiorare un anticipo del Déco che si coglie già nell’immenso monumento Francia di Samoggia e in tanti monumenti del muro perimetrale del Campo Ospedali, lungo il canale di Reno, dove le figure si fanno imponenti, con una tendenza alla geometrizzazione e specialmente nei cancelli, nelle lampade e nelle fioriere si fa strada un linguaggio decisamente schematico.

In questo contesto storico-artistico pur rapidamente tracciato, si collocano i monumenti e le memorie ai caduti della prima guerra mondiale all’interno della Certosa. Il tema unificatore è comunque e sempre la morte, in questo caso eroica, che unita alla giovinezza e al sacrificio per la patria si presta a fornire agli scultori un tema nuovo anche rispetto alle tombe risorgimentali, memorie di patrioti, eroi di moti insurrezionali, garibaldini, liberi pensatori che con la loro esistenza avevano fatta grande la città e l’Italia. Raramente le tombe risorgimentali sono infatti altisonanti, come se si affidasse ai monumenti da collocare al centro di piazze e giardini il compito di una commemorazione più retorica e si riservasse al cimitero la sola memoria visiva, circoscritta ad un busto, a un medaglione con il profilo o più modernamente il tre quarti del personaggio. Si distaccano da questa prassi e spiccano nel contesto della Certosa risorgimentale la tomba Pepoli Murat di Vincenzo Vela con il suo poderoso eroe che sfida il Colombario e il monumento ai martiri dell’Indipendenza di Carlo Monari, posto nell’esedra della sala delle Tombe. 

Un motivo frequentemente impiegato nel caso dei caduti della prima guerra mondiale sarà quello della figura distesa (gisant) che si prestava bene a una celebrazione drammatica, ponendo l’osservatore davanti all’eroe morto in uniforme, supino sul feretro e composto per la cerimonia funebre, offerto alla meditazione come un sacrificio immolato sull’altare. A questo gruppo possiamo riferire in particolare il giacente Roversi-Monaco di Borghesani e lo straziante giovane ufficiale della tomba Bordoli in Campo Carducci di Arturo Orsoni. Nella tomba Roversi-Monaco l’ufficiale rappresentato a rilievo, disteso, tiene tra le mani composte sul petto una grande spada. Lo scultore lo colloca all’interno di una nicchia, quasi un basso arcosolio rasente il terreno, che si affaccia sulla ampia lapide a terra. Il volto girato di lato e non rigidamente rappresentato di profilo garantisce maggiore naturalezza alla posa. Ma è proprio nella lapide terragna Bordoli che il motivo dell’eroe caduto per la patria trova la sua più toccante rappresentazione. Giovanni Leone Bordoli, giovane avvocato morto per setticemia e ferite nel 1917, è rappresentato in uniforme, disteso sul feretro, con il capo e i piedi appoggiati a due cuscini con nappe. La resa a bassissimo rilievo, l’utilizzo combinato di marmo bianco e bronzo e il naturalissimo scorcio del capo piegato di lato rimandano come già notato anche dai critici del tempo a modelli del XIV e XV secolo tra cui emerge evidente la tomba di Domenico Garganelli, oggi presso il Museo Civico Medievale di Bologna, la cui ideazione è attribuita a Francesco del Cossa. Lo stesso piano di appoggio del feretro, a grata metallica, dimostra una dipendenza che non può considerarsi casuale. Il monumento, visibile dal 1882 all’interno del museo civico di piazza Galvani, era già stato oggetto di studi attributivi importanti che avevano attirato su di esso periodicamente l’attenzione del pubblico.

La tipologia più utilizzata dagli scultori per i monumenti dei caduti è comunque quella del ritratto a mezzo busto. I morti di guerra sono rappresentati vivi e spiranti, in divisa entro medaglioni scolpiti, tra immancabili fronde d’alloro e di quercia, con aquile dalle ali spiegate e nastri svolazzanti, tra oggetti allusivi al loro ruolo militare (eliche, mitragliatrici, pugnali). Eroi di cui si sottolinea la giovinezza e la sventura: molti di loro cadono sulla soglia della pace in un ospedale da campo, lontani dalla famiglia dolente, altra protagonista dei nostri monumenti, parlante nelle lapidi, assente nell’immagine, per lasciare all’eroe soltanto l’intero campo visivo. Quando sono rappresentati fisicamente i genitori si dispongono ai lati del figlio cui è riservata la posizione centrale, come nel monumento Guermani dove spicca il busto a tutto tondo di Luigi o nella lapide Bonfiglioli dove Deodato è solo tra rami di quercia, da un lato, in opposizione alla coppia dei genitori. Il ritratto è circoscritto prevalentemente da un medaglione e rappresenta il giovane caduto a rilievo, più spesso in bronzo, assorto in meditazione, il capo scoperto come nella terragna tomba di Ariondo Andreini. Non mancano però gli esempi di ritratti in uniforme completa, con l’elmetto o il berretto calato sulla fronte. In pochi casi l’immagine del defunto lascia il posto ai simboli che qualificano il suo ruolo militare, dall’aquila e dall’elica simbolo dell’aviazione nei monumenti Clerici e Miti, alla mitragliatrice della tomba Carpi, che nel breve spazio di un rilievo assomma gli attributi di un reggimento, compreso il motto latino. Il cippo Tugnoli, nel Chiostro del Cinerario, con il busto del caduto entro un tondo e le altre decorazioni allusive all’eroismo (il gladio) e alla gloria (le fronde di quercia), presenta nella struttura architettonica una sintesi di elementi formali mediati attraverso la semplificazione del gusto déco. Più raramente il caduto è associato, come avverrà invece di frequente nei monumenti commemorativi per le piazze italiane, ad una figura allegorica. Accade nel monumento Carnevali dove il ritratto del caduto riceve dalla Patria l’omaggio della bandiera o nel rilievo Torchi col medaglione centrale tra avvolgimenti liberty, fiancheggiato dalla Vittoria e dalla Patria. In tutte queste realizzazioni si osserva l’impiego di materiali diversi associati, secondo la prassi del tempo, con esiti cromatici gradevoli, dati dalla contrapposizione del rosso del granito o del verde serpentino al bianco di Carrara e al bronzo, a volte parzialmente dorato. In un caso, nella tomba Capponi, si utilizza anche il mosaico dorato per campire la figura bronzea e ieratica del Cristo, promessa di resurrezione per i due caduti raffigurati nei medaglioni ai lati. L’iconografia religiosa, presente sia nel Monumento Capponi di Borghesani sia Mater Dolorosa del cippo di Sabino Sibani nel Chiostro VIII, appare comunque rara in rapporto alla commemorazione laica e civile dell’eroe. Interessante è il caso dei pochi monumenti che alla Certosa si inseriscono in un contesto preesistente con il quale si potevano creare contrasti stilistici, abilmente risolti nella scelta di un’immagine commemorativa valida per la memoria ma collocata in una posizione defilata, non in diretta concorrenza con l’esistente. È il caso della tomba nata in origine per il profumiere Bortolotti in Colombario, dove l’immagine del giovane Giuseppe è collocata nello zoccolo tra rami di palma, raggiungendo un gradevole equilibrio visivo. O come nel caso della tomba Garagnani in Sala Ellittica; qui il busto bronzeo del bersagliere Ugo è collocato discretamente sulla parete di sinistra senza disturbare la struttura architettonica pensata dal Marchesini nel 1835 circa per la cella di famiglia. Lo stesso vale per la tomba Salaroli che inserisce la piccola memoria scolpita del defunto ai piedi dell’imponente tomba dipinta del Chiostro III, assolvendo al compito della commemorazione dell’eroe senza sacrificare l’impianto neoclassico della decorazione dell’arco. Nelle tombe della Certosa la commemorazione è dunque in tono basso, affidata prevalentemente ad un ritratto in uniforme, fotografia o scultura a seconda delle possibilità economiche, ma soprattutto alle parole incise nella pietra che ricordano in tono più o meno retorico la breve, dolorosa storia di un singolo e di una famiglia all’interno di una grande pagina della storia europea. 

Antonella Mampieri

Testo tratto da 'Memorie della grande guerra: le tombe dei caduti nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna', Minerva, 2007.