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Palazzo Sampieri Talon

Di rilevanza storica

Schede

Palazzo Sampieri Talon si differenzia dagli edifici che fiancheggiano Strada Maggiore perché leggermente arretrato rispetto alla via e, soprattutto, perché privo del portico che connota gran parte dei fabbricati. L’immobile in muratura intonacata e tinteggiata, a tre piani fuori terra, presenta il prospetto principale scandito dal ritmo regolare delle semplici aperture in asse fra loro ai vari livelli, con il portone d’accesso, in posizione centrale, inserito in un’incorniciatura ad arco a tutto sesto.

Alcune finestrelle ad oculo, chiuse da un’inferriata metallica, si aprono ai vari piani sul lato sinistro dell’edificio che è coronato da un cornicione a dentelli. La semplicità della facciata conferma che il palazzo è il frutto di rimaneggiamenti che si sono succeduti nel corso dei secoli, a partire dal 1542, quando l’edificio, di proprietà di Camillo Paleotti, è acquisito da Vincenzo Sampieri, membro di un’autorevole famiglia bolognese, stabilitasi in città fin dal Trecento, il cui ramo principale, che ha la propria residenza in Via Santo Stefano presso la Loggia della Mercanzia, ottiene stabilmente la dignità senatoria da papa Sisto IV nel 1590.

Vincenzo, coniugato con Elena Fantuzzi, avvia subito lavori di ristrutturazione dell’edificio, intervento che si protrae almeno fino all’agosto del 1554, quando è registrata una concessione a suo nome ed ai banchieri ebrei Abramo e Isacco del fu Emanuele per la costruzione, di comune accordo, di un muro lungo il vicolo che da Strada Maggiore si dirigeva verso nord. Uno dei sette figli di Vincenzo ed Elena è il conte Astorre, abate di Santa Lucia di Roffeno e canonico di San Pietro che, dopo essersi laureato in diritto ecclesiastico nel 1584, si reca in qualità di nunzio a Napoli, dove si trattiene fino al 1592. Ritornato in città, nel 1593, per abbellire alcune stanze al pianterreno della dimora di Strada Maggiore, chiama i tre Carracci, i fratelli Agostino (1557 -1602) ed Annibale (1560 - 1609) ed il cugino Ludovico (1555 - 1619), i pittori più acclamati in città nell’ultimo scorcio del Cinquecento, che perl’abbate S. Piero, lavorano insieme per l’ultima volta, prima che le loro strade si dividano.

Gli affreschi, ricordati per la prima volta da Lucio Faberio nel febbraio del 1603, nell’orazione commemorativa di Agostino Carracci, morto a Parma l’anno precedente, rappresentano una novità per i tre, rispetto ai fregi narrativi dei saloni di Palazzo Fava e di Palazzo Magnani. La scarsa altezza dei vani e la copertura a volta ribassata costringono, infatti, gli artisti a realizzare al centro del soffitto, scene ispirate al mito di Ercole con arditi scorci di sottinsù che s’ispirano alle Storie di Ulisse dipinte da Pellegrino Tibaldi a Palazzo Poggi una quarantina di anni prima. Se Faberio assegna sicuramente ad Agostino l’Ercole ch’aiuta Atlante a sostener il mondo, il Malvasia ritiene indistinguibile la mano dei tre negli affreschi di casa Sampieri. Spetta a Marcello Oretti, nel XVIII secolo, l’assegnazione dell’affresco della volta della prima sala e del relativo sopracamino a Ludovico Carracci, della seconda sala ad Annibale e della terza ad Agostino. La medesima attribuzione, oltre ad essere ribadita dal pittore Domenico Pedrini nell’inventario redatto nel 1776 per Ferdinando Sampieri, compare a margine delle incisioni di Carlo Antonio Pissarri per la Raccolta de’ Cammini…dipinti da Ludovico, d’Annibale e d’Agostino Carracci. Sia gli affreschi delle volte che quelli dei camini delle tre sale, i cui soggetti derivano dalle opere di Ovidio, sono inseriti in ricche incorniciature in stucco dipinto e parzialmente dorato eseguite da Gabriele Fiorini (1570 - 1595), plasticatore di fiducia dei tre Carracci con i quali aveva già collaborato a palazzo Fava (dove, purtroppo, nulla resta del suo intervento) e a Palazzo Magnani.

Nella prima stanza di Palazzo Sampieri realizza la splendida cornice ottagona che, al centro di quattro lati, presenta putti con conchiglie, quasi a tutto tondo, in vari atteggiamenti, mentre all’interno di cartigli arricciolati, vi sono quattro scenette a chiaroscuro. Al centro Ludovico rappresenta Ercole accolto da Giove nell’Olimpo: su uno sfondo di cielo, diviso tra nubi tenebrose ed intensa luce dorata con le costellazioni astrali della Lira e del Leone, si campisce la muscolosa figura dell’eroe, dal plasticismo quasi michelangiolesco. Sul sopracamino, entro un’elegante cornice a rilievo coronata dal cartiglio con la scritta USQUE MANET GLORIA FORMAE, è raffigurata Cerere alla ricerca di Proserpina con la dea delle messi con il capo coronato da spighe di grano, che avanza quasi a passo di danza cercando la figlia, rapita dal signor degli inferi.

La seconda sala presenta, nella volta, entro l’elaborata cornice quadrilobata di Fiorini, laVirtù che dischiude ad Ercole la via del cielo, opera di Annibale, come le storiette dal vivace tratteggio dell’incorniciatura. La scena sul camino con il Gigante Encelado travolto dai massi colpiti dalla folgore di Giove è stata variamente attribuita dalla critica o a Ludovico (da Malaguzzi Valeri alla Fiegenbaum) o ad Agostino (Mahon e Posner), iscrizione questa ribadita più recentemente da Riccòmini che nota come la torsione del braccio della massiccia figura ritorni pressoché puntuale nell’Ercole ed Atlante della sala seguente, sicuramente del maggiore dei due Carracci. Qui è il dipinto sopracamino, sormontato dalla scritta NULLA FUGAM REPERIT FALLACIA e raffigurante Ercole e Caco,ad essere assegnato, in una virtuale partita a ping pong, ora ad Agostino ora ad Annibale.
L’abate, erroneamente chiamato Giovan Battista da Petronio Bassani, nell’incompiuta Guida di Bologna pubblicata nel 1816, affida ai tre artisti anche la realizzazione dei sovrapporte delle stanze. Le tre tele raffiguranti Cristo e a Cananea (Ludovico), Cristo e l’adultera (Agostino) e Cristo e la Samaritana (Annibale), vendute ad Eugenio di Beauharnais, sono conservate dal 1811 alla Pinacoteca di Brera.

Nel 1849 l’ultima discendente dei Sampieri, Carolina, figlia di Francesco e di Anna de Gregorio, sposa Denis Talon, della nobile famiglia francese di origine irlandese. Nel 1865, la nobildonna chiama un “esperto” toscano perché stacchi gli affreschi: il progetto è prontamente bloccato dall’autorità competente, ma i Talon sono recidivi e più volte, fra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, tentano l’operazione di distacco ai fini dell’alienazione. Fortunatamente, i dipinti dei Carracci sono ancora al loro posto, in buone condizioni di conservazioni grazie anche al restauro di Maricetta Parlatore.

L’appartamento attualmente contiene numerose opere di grande interesse. Tra le tante si segnalano, due succhi d’erba, cioè arazzi realizzati con colori di origine vegetale ad acqua su tessuto di lino o di seta, senza preparazione e con poco legante, che cominciano a diffondersi in Francia dalla seconda metà del Seicento. Per la trasparenza dei colori, che li fa sembrare quasi acquerelli fuori scala, queste tappezzerie hanno molto successo anche nel Settecento, essendo molto meno costosi degli arazzi tradizionali e più facilmente utilizzabili per esposizioni temporanee, per esempio, in occasioni di solennità religiose. I soggetti dei due succhi d’erba, con rari episodi relativi ai profeti Giona ed Ezechiele, sono probabilmente connessi ai riti penitenziali della Settimana Santa. Alcune grandi tele con scene di paesaggio punteggiate di minuscole figurette che servono soltanto a dare un tocco di vivacità alla rappresentazione, spettano al marchigiano Antonio Francesco Peruzzini (1643 o 1646 - 1724), attivo anche a Bologna, dove esegue tanti dipinti di questo genere per il conte Annibale Ranuzzi. Da segnalare il grande paravento cinese. Questi manufatti laccati che, che possono arrivare ai 3.50 m. di altezza, godono di un grandissimo successo in Europa dal XVII secolo al XIX secolo. Vengono spesso chiamati di Coromandel dal nome della Costa orientate del Dekkan indiano, dove sono immagazzinati nei porti della Compagnie delle Indie, che poi si occupa del loro trasporto alle destinazioni europee. Sono realizzati applicando su un fondo bruno una tela sottile, su cui si stende una serie di strati di lacca: la decorazione (rami con uccelli, fiori, come peonie, crisantemi, papaveri, paesaggi animati di personaggi, giardini con specchi d'acqua) è realizzata ad incisione e le parti incavate sono riempite di colori intensi ed opachi.

Daniela Sinigalliesi

Bibliografia: G. P. Cammarota, Gabriele Fiorini, Uno scultore all’Accademia degli Incamminati, in “Atti e memorie dell’Accademia Clementina”, Bologna 1986; AA.VV., Annibale Carracci,Catalogo della mostra, Bologna 2006; E. Riccomini, L’Ercole trionfante - I tre Carracci a Casa Sampieri, Bologna 2006.