Memoria e ritratto - l’impiego funerario della fotografia vetrificata

Memoria e ritratto - l’impiego funerario della fotografia vetrificata

1900 | 1920

Scheda

Nel primo decennio del Novecento la fotografia si diffonde rapidamente, diventando lo strumento ideale per testimoniare viaggi, incontri e avvenimenti ma soprattutto uno strumento accessibile a molti, dal momento che sul mercato si trovano facilmente apparecchi non molto costosi. Essa non è ancora il fenomeno di massa di oggi ma non è neanche più la pratica elitaria della seconda metà dell’Ottocento. Ha un ruolo determinante, in questa fase della storia della fotografia, il ritratto. Come ricorda Italo Zannier, “il processo di massificazione dell’immagine iniziò con la diffusione del ritratto, che moltissimi potevano permettersi per merito della fotografia. La clientela era naturalmente quella dell’ambiente borghese e intellettuale, i contadini ottennero il diritto e la conquista della loro immagine più tardi, verso la fine del secolo, quando iniziò la grande emigrazione verso le Americhe, specie in Italia e nei paesi europei sottosviluppati. La fotografia personale, il ritratto, diviene una necessità per l’identificazione e non solo un modo per specchiarvisi o per farsi ricordare in futuro”. Con l’avvento della Grande Guerra, nel 1915-1918, la fotografia entra a far parte di un vero e proprio “processo comunicativo di massa”, diventando veicolo di documentazione, racconto della prima guerra moderna, e si consolida come originale protagonista sia in quanto testimonianza che in quanto opera artistica.

L’ingente patrimonio fotografico relativo alla Grande Guerra oltre a comprendere le fotografie ufficiali prodotte a scopo di propaganda e di documentazione, quelle scattate dagli uomini del Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito o da professionisti accreditati, commissionate e controllate dallo stesso Comando Supremo e sottoposte al vaglio della censura, comprende anche le fotografie dei paesaggi delle zone operative, eseguite per scopi puramente bellici e strategici, e le cosiddette fotografie di consumo, con funzione di informazione e di sostegno alla guerra e alle sue ragioni, di valorizzazione dello sforzo bellico, destinate alle riviste. A queste si aggiunge un gran numero di fotografie private, prodotte da professionisti o da semplici fotoamatori, che vanno a riempire gli album di famiglia o le raccolte private e che hanno avuto una funzione di comunicazione tra i soldati al fronte e le famiglie a casa. Una componente significativa di tale patrimonio sono i ritratti fotografici su ceramica dei caduti, che compaiono sui monumenti commemorativi o sulle tombe e che mantengono viva la memoria delle vittime della Grande Guerra. La tecnica più usata per mantenere durevole il ricordo è la poco enucleata fotoceramica, detta anche fotografia vetrificata o pirofotografia, che fu definita da P.N. Hasluck, nel 1905, «l’arte di produrre su oggetti di ceramica un’immagine fotografica, che, cotta al forno, si incorpori nella superficie dell’oggetto». Questa nuova tecnica venne messa a punto poco oltre la metà dell’Ottocento, come vedremo in seguito più nel dettaglio; essa rispondeva da una parte all’esigenza di rendere inalterabile e duraturo il positivo fotografico e dall’altra favoriva il passaggio di testimone tra miniatura e fotografia. La nuova tecnica fotografica applicata all’antichissima produzione ceramica si prestava, e si presta tutt’ora, a un vasto impiego nella produzione manifatturiera di oggetti decorati, dai monili alle stoviglie. Ma ci si rese anche conto che la sua inalterabilità, la durata e i costi contenuti potevano essere sfruttati per un impiego esterno e funerario: comparvero così sulle tombe le cosiddette placche ceramiche con l’effigie dei defunti, che rappresentavano un’alternativa, più modesta ed economica, al ritratto scolpito. Non sappiamo se sia lecito pensare che l’impiego cimiteriale sia stato incentivato dai numerosissimi lutti della Grande Guerra, vero è che già nel 1934 Rodolfo Namias nei suoi scritti affermava che la fotoceramica «è un processo che ha larghissima applicazione e che tende ad aumentare perché l’uso di mettere sulle tombe il ritratto fotografico della persona defunta va generalizzandosi». Con la fine della prima guerra mondiale, in moltissime città italiane sorgono i cosiddetti cimiteri e monumenti di guerra. A Bologna, la maggior parte delle tombe dei caduti si trova nel Chiostro VIII della Certosa e nella corsia ad esso annessa; tutte riportano il fotoritratto su ceramica del defunto. Tre fotografie vetrificate sono anche nell’Ossario, monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, eretto solo nel 1933: probabilmente nel trasferimento dei resti dei soldati caduti dalle tombe individuali alla nuova sistemazione collettiva qualche famiglia ha voluto mantenere la fotoceramica che in precedenza ornava il primo sepolcro. Le fotoceramiche maggiormente diffuse in questi spazi della Certosa sono quelle con supporto di forma ovale, convesse (secondo il formato tipico del ritratto in miniatura); le più recenti invece sono anche di forma rettangolare, piana.

I fotoritratti riproducono generalmente il defunto in divisa, immortalato prima della partenza per il fronte, generalmente all’interno di uno studio fotografico, oppure durante la guerra. Nel primo caso il fotografo ritrattista, conservando la matrice della fotografia, utilizza quella stessa matrice per realizzare la fotografia vetrificata, nel secondo caso invece, la fotografia vetrificata è la riproduzione di un ritratto fotografico, probabilmente spedito dal fronte, dal soldato ai suoi familiari. Come scriveva C. Brogi, già alla fine dell’Ottocento, «il coscritto che va al reggimento appena indossata la divisa militare si dà premura di mandare la fotografia ai suoi ed alla ragazza che ha lasciato inconsolata al proprio paese». I soldati fotografavano la guerra, in qualità di fotografi dilettanti, e si facevano fotografare nei luoghi di guerra per immortalare la loro partecipazione all’evento bellico e poter ricostruire una personale memoria della guerra, ma soprattutto per spedire un ritratto alle proprie famiglie, come testimonianza del loro essere ancora in salute e in vita ma anche dell’ininterrotta, consolatoria, relazione affettiva (vedi la frequente iconografia del “soldato che legge o scrive lettere alla madre”). Il ritratto non ha in tal caso funzione autorappresentativa o rituale, come accade nell’iconografia fotografica risorgimentale e ottocentesca o in quella fascista e partigiana, e non rimanda a un rito di confermazione o iniziazione. Nessuna fierezza decisa appare nella posa, al contrario, trapelano, a volte con molta evidenza, lo smarrimento e la paura della persona ritratta, che spesso appare impacciata di fronte all’obiettivo fotografico. L’unico desiderio del soldato è quello di certificare a sé e agli altri il proprio stato di salute e soprattutto la propria esistenza, e ciò non fa altro che confermare «la forza individualizzante di traccia che l’immagine fotografica possiede». A differenza delle fotografie “ufficiali” della prima guerra mondiale, in cui il fotografo sfruttava una serie di espedienti per conferire un aspetto drammatico ai luoghi e alle azioni immortalate (punto di vista ribassato, densi chiaroscuri e viraggio delle foto), questi fotoritratti rivelano un fedele realismo e una puntuale aderenza alle caratteristiche del pittoricismo, manifestando una certa competenza tecnica da parte del fotografo. I ritratti esaminati, infatti, riproducono fedelmente l’aspetto della persona immortalata, sfruttando quella componente realistica che è tradizionalmente attribuita alla fotografia.

Come avveniva per la produzione pittorico-miniaturista della prima metà dell’Ottocento, il ritratto fotografico privilegia il mezzobusto, esaltando facilmente la relazione fisionomica col modello; inoltre propone spesso uno sfondo neutro che fa risaltare «eminentemente la figura quasi al fine di concentrare meglio i valori evocati dal volto». Questa tipologia di raffigurazione trae origine dalla scultura classica e dalla medaglistica romana, ma anche dalla ritrattistica rinascimentale, che a sua volta interpreta le due precedenti. Come la fotografia di paesaggio si è ispirata al vedutismo, il fotoritratto si è ispirato, e gradualmente è subentrato, al ritratto dipinto o al busto-ritratto, mutuandone, in certi casi, l’accuratezza con cui venivano preparati gli sfondi e le pose, curando la messa in scena e cercando di rendere al meglio, oltre alla fisionomia, il carattere della persona raffigurata. Tipica di questo pittoralismo “di mestiere”, ma anche coerente all’ideologia del fotoritratto funerario, è la pratica del ritocco, adottato per migliorare la qualità della fotografia, quando non del soggetto stesso, ma soprattutto per rendere più leggibili certi particolari. Significativi risultano certi ritratti che propongono la figura fiera del soldato in divisa a tre quarti o a figura intera, in tal caso “dichiarando” in maniera immediata ed esplicita il corpo istituzionale di appartenenza del caduto in guerra. Questo aspetto è ancor più avvalorato dalla presenza sulle singole lastre di marmo, oltre che del nome del defunto e delle date di nascita e decesso, il grado di servizio, le onorificenze meritate, spesso accompagnati da frasi commemorative. Alle più comuni fotoceramiche si aggiungono poi quelle che presentano caratteristiche particolari o comunque più elaborate dal punto di vista delle decorazioni. Di un certo interesse è la lapide a parete, di marmo bianco, della famiglia Lollini, situata nel braccio nord-est del Chiostro IX. Essa presenta una estesa decorazione in bronzo raffigurante un ramo di quercia che si intreccia, dal centro al fondo, con un ramo di alloro. L’ornamento racchiude due fotoceramiche in alto e una nella parte centrale: quest’ultima è il ritratto di Ivo Lollini, combattente della Grande Guerra, come riportato nell’iscrizione incisa sul marmo. In questa tomba si può notare come il bronzo sia caratterizzato da una diffusa ossidazione e da annerimento, mentre la fotoceramica continua a conservare quasi intatte le sue caratteristiche. Esemplificativo di un diverso “modello” compositivo e ornamentale è anche il caso in cui le immagini sono inscritte all’interno di ovali definiti che presentano intorno sottili ed eleganti decorazioni dorate. È possibile poi trovare particolari oggetti “ornati” dalla fotoceramica. La lapide a pavimento della famiglia Crocco, situata nel Chiostro VIII, è corredata da una elaborata fioriera che riporta il ritratto fotografico di più defunti della stessa famiglia; le fotografie vetrificate sono inserite in cornici di bronzo lavorato. La maggior parte dei fotoritratti in ceramica presenti in certosa recano una sottoscrizione autografa che conferisce all’oggetto un ulteriore valore storico-documentario. Sul bordo interno di un gran numero di placche di ceramica si può riscontrare, infatti, una firma autografa che consente di individuare l’autore-fotografo, responsabile del processo creativo dell’opera, oppure le altre professionalità che sono intervenute nei passaggi di produzione. In alcuni casi si tratta proprio dell’indicazione del nome del fotografo produttore, e ciò fornisce un tassello utile nella ricostruzione della storia dello studio fotografico in questione, in altri casi il nome che compare è quello della ditta di marmi che ha realizzato la lapide; probabilmente il marmista che si occupava della struttura in marmo pensava anche al suo corredo, incaricando direttamente il fotografo per la realizzazione della fotoceramica (come peraltro avviene oggi).

Quanto ai nomi dei fotografi maggiormente presenti, si può affermare che si tratta di fotografi attivi a Bologna e provincia nel dopoguerra, ma anche di professionisti provenienti da altre città del nord Italia. La produzione di fotoceramica faceva parte delle attività più redditizie degli studi fotografici, insieme alla realizzazione di servizi commissionati in occasione di battesimi, cresime e matrimoni oppure, dal 1920, alla produzione di fototessere. Quasi tutti i fotografi, pertanto, offrivano questo servizio all’interno dei propri studi; naturalmente qualcuno risultava essere più abile tecnicamente, distinguendosi e coprendo il mercato in maniera più costante. Fra i fotografi attivi a Bologna in quegli anni, il nome che compare più volte sui ritratti presi in esame è quello di Giuseppe Camera. Lo Studio Camera è attivo a Bologna dal 1865. Giuseppe, figlio del fotografo Giovan Battista Camera, era già impegnato nel mondo dell’arte antiquaria e cominciò a lavorare con suo padre nel 1896, dando vita allo “Stabilimento artistico, fotografico e di pittura” (1901). Lo Stabilimento Camera era famoso già prima della guerra per i suoi ritratti in studio a luce artificiale, grazie anche alle abilità nel ritocco della moglie di Giuseppe, Clelia Ferri, e risulta essere stato un grande luogo di produzione di fotoceramiche. Altro celebre luogo di produzione di fotografie vetrificate era lo Studio Villani: Achille Villani apprese l’arte del ritocco fotografico proprio da Giuseppe Camera e da sua moglie, e fondò il famoso studio bolognese nel 1921. Tra gli altri fotografi attivi a Bologna in quegli anni ricordiamo i Fratelli Bolognesi, Fotografia Bolognese, Luigi Lanzoni, Pietro Poppi. Altre firme autografe di fotografi che ricorrono sulle fotoceramiche esaminate sono: “Foto L. Garagnani-Bologna”; “Cesari & Bergamini, Oberdan 10, Bologna”; “F. Lamberti”; “Foto Ditta Nazionale Bologna”; “Davide Venturi e figlio-Bologna”. I nomi più diffusi dei marmisti sono: “Coop marmi”, “Parimar” e “Bargossi Marmista”. Tra le iscrizioni riportate direttamente sulla placca di ceramica funeraria, oltre ai nomi degli autori, troviamo spesso anche il nome dello stesso defunto, completo di grado di servizio e di data di morte, come sulla lapide di Bruno Cavalieri, collocata nella corsia annessa al Chiostro VIII. La fotoceramica, pur essendo tecnica minore, si rivela tuttavia di grande interesse perché costituisce un documento prezioso della nostra storia. Essa palesa la maestria e l’abilità del fotografo produttore, dell’artista, inoltre esprime tutta una serie di contenuti non solo storico-artistici ed estetici ma anche di carattere propriamente sociale.

Pur essendo espressione di una commemorazione pubblica, la fotoceramica esprime un lutto privato. Il ritratto fotografico del proprio caro, caduto, proprio per la sua particolare referenzialità garantita dalla procedura meccanico-ottica della riproduzione, viene investito del compito di sostituire e rappresentare a vari livelli l’assente, «corrispondendo emotivamente alla definizione che ne avrebbero dato i semiologi, di impronta e traccia di un reale, intuendo sentimentalmente che l’immagine fotografica è letteralmente un’emanazione del referente», in grado di assicurare il perpetuarsi del ricordo. È quello che Roland Barthes, nel suo saggio del 1980, definisce come il «noema della fotografia», che ha la capacità quasi magica di riuscire a stimolare «valori affettivi, sentimentali, prossimi alla concettualità e all’evocazione». La fotografia della persona irrimediabilmente perduta acquisisce la capacità di rendere presente e tangibile chi ormai non c’è più nella realtà, conserva il ricordo della persona cara ma rinnova anche, ogni volta, in colui che guarda «lo stupore di una presenza assente e non per questo meno viva e affettivamente efficace e toccante, dolorosa e stupefacente al massimo grado». Il fotoritratto del defunto evoca inevitabilmente nei parenti, negli amici e nei conoscenti un malinconico senso del passato che non torna, ma nello stesso tempo sottrae colui che non è più in vita alla caducità, in quanto sostituto dell’assente, tentativo di duplicare la vita per sottrarla alla morte, acquisendo un’aura che la rende quasi come una reliquia. Da qui l’importanza della funzione del ritratto fotografico nella elaborazione del lutto. Quando si perde una persona amata, si rivela un determinante appoggio e supporto all’elaborazione psichica del lutto guardare continuamente le fotografie del defunto; ciò consente al familiare di vivere nel ricordo, che è l’unica maniera di razionalizzare la morte e continuare a vivere e «permette a chi rimane in vita di costruire una appropriata elaborazione del lutto, per superare la contraddizione insanabile della morte in una condizione in cui le stesse cerimonie, la stessa ritualità era sminuita o sottratta dall’assenza della salma». Non bisogna dimenticare però che il fotoritratto esposto su una tomba, in un cimitero, passa dalla sfera privata a quella pubblica e da simulacro privato diventa pubblica icona. Esso dà l’illusione di rendere pubblica e tenace una memoria privata, debole, acquistando una funzione rammemorativa e documentaria ma anche celebrativa ed ideologizzante, ad esempio le fotografie di ufficiali o decorati al valore riferiscono l’onorificenza ottenuta. Da una dimensione di ricordo privata si passa ad una dimensione in cui viene invece valorizzato il valore positivo dell’atto eroico, sanzionato ufficialmente dalla decorazione, e in maniera del tutto indipendente dall’esito individuale. Queste fotografie non solo si limitano a costruire la memoria della guerra, o a essere fonte per la storia della guerra, ma ci permettono di ricostruire l’essenza stessa della storia e lo spirito del tempo.

La fotografia vetrificata: accenni sulle origini e la tecnica | A lungo la fotografia vetrificata è stata prodotta manualmente, raggiungendo fra i due secoli un altissimo livello artigianale, poi anch’essa è entrata a far parte dell’industria fotografica testimoniando, visti anche i risultati ottenuti, una significativa capacità tecnica da parte del fotografo produttore. Tale procedimento richiedeva l’impiego di materiali particolari rispetto alle più comuni stampe ai sali d’argento, sensibili e non resistenti alle alte temperature del forno di cottura della ceramica; il risultato era un’immagine fotografica non alterabile nel tempo né per effetto della luce, né del calore e dell’umidità. Il materiale di supporto più utilizzato era (e continua ad essere) la porcellana. I metodi che venivano impiegati nella tecnica della fotoceramica erano differenti. I principali, dettagliatamente esplicati da A. Montagna nel 190527 e da Paul N. Hasluck nel 1934, erano il procedimento alle polveri e le sue varianti, il procedimento al carbone modificato, quello per sostituzione e quello fotomeccanico. Il primo brevetto della fotoceramica reca la data 1854 e il nome di P.M. Lafon de Camarsac, ceramista già esperto nella cottura delle tradizionali miniature manuali: l’11 giugno del 1855 venne pubblicata una sua comunicazione nel “Comptes rendus de l’Academie des Sciences”, che sarà il punto di partenza dei diversi procedimenti utilizzati successivamente. In un primo momento si è attribuita la paternità di questa scoperta ad Alphonse Poitevin, il quale era riuscito ad ottenere un’immagine su vetro, a fissarla e a trasportarla su un altro supporto mediante un velo di collodio, utilizzando una miscela di percloruro di ferro e acido tartarico e una polvere di ossidi metallici. Lafon de Camarsac non aveva mai accennato a tale operazione di trasporto, il che ha fatto pensare che non l’avesse mai utilizzata prima di Poitevin. In realtà quella di Lafon de Camarsac e quella di Poitevin erano due varianti dello stesso procedimento, quello alle polveri. La tecnica di Poitevin permetteva di ottenere l’immagine da un negativo anziché da una diapositiva, come per gli altri procedimenti alle polveri. Lo svantaggio era che le sue immagini risultavano deperibili a causa della estrema alterabilità del percloruro di ferro in condizioni di umidità atmosferica variabile e della fragilità del velo di collodio, data dal fatto che non si utilizzava una matrice rovesciata. Il metodo più diffuso rimaneva però quello indicato da Lafon de Camarsac, il quale utilizzava sostanze organiche mescolate a un bicromato invece del percloruro di ferro. Come ricorda Gilardi, ebbe grandissima diffusione dal 1880 alla fine del secolo anche la “fotoceramica su carta”, quella che lui stesso definisce come «l’antenata più sofisticata della corrente fototessera».

Il supporto in ceramica, avendo forma convessa, non favoriva la realizzazione dell’immagine sulla sua superficie, era pertanto necessario produrre l’immagine prima su un supporto provvisorio piano, una lastra di vetro, e poi trasportarla sul supporto definitivo di ceramica. Il fototipo si stampava per contatto. Si posizionavano in un torchietto la lastra fotografica sensibilizzata, accuratamente pulita e asciutta, e una matrice diapositiva (successivamente negativa nel caso di Poitevin); poi le si esponeva alla luce diffusa. Per ottenere la riproduzione della diapositiva in positivo si procedeva con lo sviluppo e il fissaggio, eseguiti cospargendo la lastra con delle sostanze liquide appropriate e con una polvere vetrificabile impalpabile. A questo punto si passava al distacco dell’immagine dal supporto originale, operazione per la quale era necessaria la massima cautela, e al suo trasporto sulla placca di ceramica. Era indispensabile ribaltare l’immagine ottenuta nell’acqua e far si che il lato collodionato entrasse a contatto con la ceramica, per evitare il distacco dell’immagine durante la cottura. Fatti i dovuti ritocchi l’immagine era pronta per la cottura, il cui scopo era quello di fondere l’immagine stessa e incorporarla alle sostanze vetrificate della placca di ceramica, facendole assumere quel caratteristico aspetto brillante. A questo procedimento se ne aggiunsero poi altri: quello al carbone modificato, detto anche ai pigmenti, e quello di sostituzione. Il primo consentiva di produrre immagini applicando alla fotoceramica il procedimento al carbone36, in uso per la produzione di immagini fotografiche dalla metà del XIX secolo. Sostituiva ai pigmenti ordinari dei pigmenti vetrificabili che venivano mescolati anziché alla gelatina, che non avrebbe sopportato le alte temperature, a un miscuglio di miele e gomma. Queste due sostanze venivano poi mescolate alla polvere e alla soluzione di bicromato. Si proseguiva con la sensibilizzazione della lastra, la sua asciugatura, l’esposizione, lo sviluppo, il trasporto provvisorio su carta e il trasporto definitivo su supporto ceramico. Come avveniva per il procedimento al percloruro di ferro di Poitevin anche in questo caso il positivo si otteneva direttamente da un negativo. Del procedimento di sostituzione, invece, esistevano diverse varianti. La più comune prevedeva la produzione di un positivo al collodio umido: dal momento che le sue caratteristiche non gli consentivano di sopportare le alte temperature di cottura, si procedeva fissando l’immagine servendosi di una soluzione al 5% di bicloruro di mercurio; la lastra, ulteriormente lavata, veniva poi immersa nel bagno di sostituzione. In realtà la si sottoponeva a viraggio e le sostanze dell’immagine non adatte alla cottura venivano sostituite da platino o oridio. Si procedeva con il distacco della pellicola dell’immagine che veniva trasportata sul supporto definitivo con il lato collodionato rivolto in su, e non verso la ceramica (come per gli altri procedimenti). Si lasciava asciugare la pellicola, si asportava nella maniera corretta lo strato di collodio e infine si cospargeva di fondente. L’oggetto era pronto per la cottura. Con il passare degli anni, le tecniche sono state perfezionate fino ad arrivare ai procedimenti fotomeccanici, che permetteranno di ottenere un gran numero di riproduzioni fotoceramiche in poco tempo e ad un costo ancora più basso. La fotoceramica delle impressioni fotomeccaniche mostra buona resistenza solo quando si usano i migliori inchiostri indelebili.

Rosaria Gioia

Testo tratto da 'Memorie della grande guerra: le tombe dei caduti nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna', Minerva, 2007.

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Alla scoperta del cimitero di Bologna, il più grande complesso monumentale della città. A cura di Museo del Risorgimento Bologna con la partecipazione di Associazione 8cento. Con il contributo dell'IBC Regione Emilia-Romagna e di Bologna Servizi Cimiteriali. Realizzato da WildLab Multimedia.

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