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Dolore di pietra - Biografie e lapidi di caduti bolognesi

1915 | 1930

Schede

Sangue di fuoco e anima di canto / Cadde a sommo del monte e della giovinezza / Con l’azzurro nel petto e l’ombra nel pugno / La sua vita fu un inno e la morte un rogo / Il suo nome è un mito e la memoria un monumento. (Dall’epitaffio per Corrado Mazzoni, medaglia d’oro)

Morto nell’ospedale di Bertalia (Bologna) il 14 gennaio 1919 / In seguito a 22 mesi di stenti e disagi sofferti nella crudele prigionia nemica. (Dall’epitaffio per Giovanni Dalmonte)

Con una riflessione che si adatta a tutti i conflitti, William M. Thackeray, nella Fiera delle Vanità, prospettandoci con un potente colpo d’occhio la rete di sofferenze che si irradia nello spazio in tempo di guerra, rammenta come i milioni di soldati che stavano combattendo le guerre napoleoniche, nel momento in cui colpivano il proprio nemico, ferissero in modo orribile altri cuori innocenti e lontani. Il cimitero è il luogo dove questo dolore si raccoglie e resta per sempre pietrificato e, per le persone che vogliono prestare ascolto, le tombe diventano simili a libri, capaci di narrare piccoli e grandi avvenimenti, piccoli e grandi dolori: dolori privati che, in qualche modo, diventano pubblici. I monumenti commemorativi sono l’espressione più evidente dell’elaborazione collettiva del lutto, indispensabili per riuscire a metabolizzare socialmente l’immensità di una tragedia bellica; ma accanto a questi ci sono le tante tombe individuali o di famiglia che ci raccontano il dramma del singolo e di chi gli era vicino. Tuttavia, ogni persona è diversa e vive in modo differente la vita, da una parte, e il dolore della morte dall’altra. Ciò che leggiamo sulle lapidi non può che essere un racconto parziale: integrandoli con altre fonti documentali, si scopre, a volte, che è stato detto più di quanto non sia realmente accaduto, ed altre, ed è la maggior parte dei casi, che è stato taciuto molto, se non tutto.

La retorica bellica ha sempre esaltato la figura dell’eroe puro, portatore dei più nobili ideali e capace di sfidare impavido la morte. Una famiglia che perde il proprio congiunto può trovare consolazione nella consapevolezza di saperlo parte di quella schiera di eletti socialmente riconosciuti e desiderare che anche gli altri ne vengano a conoscenza. Le tombe di Corrado Mazzoni o di Ariondo Andreini esaltano il caduto ammantandolo di un’aura favolosa. Non importa raccontare i particolari, per i genitori il figlio morto è già parte del mito: Pioniere dell’umanità nuova. Araldo della Patria risorta. Cadde in vista della città santa alla testa dei fanti quando appena venti primavere erano fiorite sulla sua strada. Dopo una vita breve come un sogno e pura come un canto, ebbe una morte bella come una vittoria e ardente come un voto. Qui, segnato dalla materna pietà non senza fierezza, il suo nome brilla come una lacrima e sanguina come una ferita, ma la memoria echeggerà nello spazio come una canzone, l’idea divamperà nel tempo come un rogo. Epitaffio per Ariondo Andreini, medaglia d’argento

Ci sono genitori più concreti, che preferiscono non lasciare dubbi sul valore dei figli e fanno incidere sulla pietra un resoconto preciso delle loro azioni. Anche se non si spingono fino a citare tutte le gesta esaltanti del figlio Giuseppe - capace durante una ricognizione, di aggiustare in volo e sotto il tiro nemico il radiatore danneggiato del suo velivolo o, in altra occasione, di rientrare solo dopo aver compiuto la missione assegnatagli nonostante le centosette(!) pallette di shrapnel che avevano raggiunto l’apparecchio - ai piedi della lapide del nonno, il famoso profumiere Bortolotti, inventore dell’Acqua di Felsina, commemorano l’eroico aviatore proponendo un elenco delle sue imprese succinto ma esauriente: Tenente dei bersaglieri e aviatore – Colto gentile e amorevole a tutti – Devoto al dovere e alla Patria – come chi sa che la vita non è un tripudio ma un compito – Affrontò impavido la morte in numerosi combattimenti e ricognizioni – conseguì ben quattro encomi e tre medaglie d’argento – Fu ucciso nel fiore degli anni a Caporetto – mentre sul suo velivolo fulminava a tiro di pistola il nemico irrompente – Dio coroni il valore – consoli i genitori – che questa memoria posero – con pietà all’estinto – con esecrazione ai vili.

E’ interessante vedere però come il desiderio di esaltare la persona cara, nel tentativo di consolarsi per la sua perdita, possa in alcuni casi portare ad abbellire la realtà. Ruggero Miti è immortalato con una tra le tombe più belle dedicate in Certosa ad un caduto della Prima Guerra Mondiale: La addolorata famiglia del ventenne Ruggero Miti tenente osservatore nella 32° squadriglia aeroplani, laureato ad honorem in ingegneria dalla R. Università di Bologna, immolatosi a Dio per la Patria il 29 settembre 1918 qui ne compose gli avanzi mortali custodendo gelosa memoria perenne di sue doti preclare, di sue eroiche virtù, già vanto ambito poi doloroso ricordo.

Tuttavia, il grado di tenente e il brevetto di osservatore Ruggero non li aveva ancora ottenuti al momento della morte, che lo aveva raggiunto sotto forma di bronco polmonite durante una licenza a casa. Sulle lapidi possiamo trovare tratteggiate con rapido schizzo le fasi di un combattimento, spesso l’ultimo: Deodato Bonfiglioli rag. Fedele milite del dovere ufficiale invitto della Patria in armi, il 27 giugno 1916 gloriosamente caduto a 23 anni davanti a Monte Corno di Vallarsa in aspra lotta disuguale offrendo senza schermo ai colpi subdoli del nemico celato la sua balda giovinezza il coraggio, l’ardire, la fede. E’ un epitaffio che lascia immaginare la dinamica del combattimento, in queste poche parole viene racchiusa una battaglia. Ma a fronte di chi offre tanta dovizia di particolari, ci sono molti altri parchi di informazioni, che preferiscono mantenere sottotono le imprese dei loro cari. Sulla tomba di Bruno Cavalieri si legge: Al ragioniere Bruno Cavalieri, capitano di fanteria, il 10 marzo 1918 a soli 24 anni, caduto eroicamente contro al nemico nella grande Guerra Europea. Leggendo i documenti si scopre, invece, che Cavalieri aveva combattuto fin dal 1915 e, partecipando alla Prima ed alla Seconda battaglia dell’Isonzo, si era meritato ben due medaglie d’Argento.

I parenti di Umberto Gottarelli erano stati ancora più riservati, dedicando al congiunto un cippo commemorativo ma non inscrivendovi nulla più oltre il grado e i dati anagrafici, mentre Umberto, nel corso del conflitto, si era guadagnato una medaglia d’Argento, una di Bronzo ed una promozione per meriti. L’estrema scarsità di informazioni, dovuta presumibilmente al grande dolore provato dai genitori, che nella morte del figlio vedevano più la sciagura che un motivo di gloria, rischia di far “perdere” notizie importanti ai fini della ricostruzione storica, non solo delle singole vite ma degli eventi nel loro complesso. Senza particolari, come si potrebbe immaginare, infatti, che Mario Bugamelli (Giulia Caranti depose qui le care salme del marito Arturo Bugamelli morto il 6 maggio 1915 e del figlio Mario, morto in guerra l’anno 1915), Cesare Lambertini e Giovanni Tangerini, morti sotto il Podgora, siano caduti tutti nel corso della Terza battaglia dell’Isonzo, tutti e tre appartenenti al 35° reggimento fanteria della Brigata Pistoia – il reggimento con maggior presenza di bolognesi – e che quindi, potessero conoscersi e aver combattuto fianco a fianco?

Per altri soldati, invece, le informazioni possono essere andate perse con la realizzazione di tombe di famiglia più recenti, che finiscono con l’essere un mero elenco di nomi e cognomi. Valga come esempio per tutti la tomba della famiglia De Stefano, dove l’eroico Giuseppe viene commemorato allo stesso modo di tutti gli altri parenti, senza nulla più che il nome e le date. L’eroismo, comunque è una consolazione insufficiente quando una persona non c’è più o quando intere famiglie vengono distrutte. I genitori di Amedeo Amour dichiarano di essere inconsolabili ma orgogliosi. Ma come si saranno sentiti i genitori di Giorgio e Giuseppe Gallerani, carichi di riconoscimenti ma morti ad un mese di distanza l’uno dall’altro nella carneficina della battaglia d’arresto seguita alla rotta di Caporetto? O quelli dei fratelli Franchini, morti Antonio il 2 dicembre del 1915, Romeo il 3 aprile del ’17, raggiunti da un terzo fratello nell’agosto del 1919? Antonio fu stato insignito di medaglia di bronzo, ma sulla lapide non se ne fa menzione, e tutti i fratelli, anche quelli caduti per la Patria, sono ritratti in abiti civili. Per altri soldati, dimenticati dai libri ufficiali, invece, resta solo la lapide a testimoniare lo status di caduto di guerra: Baldini Armando, nato il 27 ottobre 1895, caduto per la Patria a Oppachiasella il 16 maggio 1917.

Se non fosse per queste righe sulla tomba, per lui e per altri come lui, non si saprebbe nulla della sua partecipazione al conflitto. Lo stesso discorso è valido per tutti coloro che, trascinandosi nella malattia per lunghi anni dopo la fine del conflitto, non hanno meritato l’onore di essere ricordati in libri ed elenchi ufficiali insieme ai loro compagni, morti con maggior “tempismo”. Come Piero Brogiotti, ingegnere ad honorem, decorato al valor militare invalido di guerra, deceduto nel ’24 per malattia contratta mentre sul Montello combatteva per la Patria. O come Romolo Rimondini, morto il 1° agosto 1932 dopo 12 anni di atroci sofferenze per malattia contratta in guerra (ritratto in uniforme). Del resto, dei 10.745 caduti di Bologna e provincia calcolati ne I morti della provincia di Bologna, solo l’8% era stato ritenuto meritevole di ricevere una onorificenza. Gli altri erano “semplicemente” morti. Magari nel corso di un terribile assalto alla baionetta a qualche imprendibile cengia rocciosa, ma senza compiere quel qualcosa in più di eclatante capace di attirare su di sé l’attenzione. E il morire può anche diventare di una “banalità” sconcertante. Sempre tra i caduti bolognesi, quasi il 50% muore di malattia: tubercolosi, broncopolmonite e, nel 1918-1919, la pandemia di febbre spagnola, spengono l’esistenza di tanti, spesso provati dalle temibili condizioni del fronte o della prigionia: Aldo Bagnoli d’anni 23 morto il 28 settembre 1918 nell’ospedale da campo 197 a Consio (Treviso). Muore di malattia, niente eroismi. Muore e basta. Come Giorgio Carnevali che, a 18 anni e ancora al campo di addestramento, muore di morbillo, e i genitori benestanti lo commemorano tra i martiri della Patria con una tomba imponente.

La luce eroica che fa brillare le figure di Corrado Mazzoni e Ivo Lollini, altra medaglia d’oro, di Lucifero Carlo Antonelli o Giuseppe Bortolotti, accompagnati dal fascino imperituro dell’aviatore, si affievolisce sempre più man mano che lo sguardo si allarga a comprendere le migliaia di vite bruciate, e l’orgoglio lascia spazio alla mesta rassegnazione, come per Giovanni Dalmonte, che si spegne nel gennaio del ’19 sotto l’ombra “infamante” di 22 mesi di prigionia, o alla rabbia: Animoso e gentile. Valoroso in guerra. Forte nella prigionia. Da chirurgo inesperto sacrificato a 23 anni quando gli sorrideva la vita. (Dall’epitaffio per Eddy Stoppani). Insieme con il diletto figlio Antonio, sacrificato sul Piave nel 1917, riposa in giusta pace Luigi Cavazza.

Si scivola così impercettibilmente verso la denuncia della guerra, laddove il padre del capitano Francesco Giuseppe Gualandi, nel libretto commemorativo dedicatogli, non si fa scrupolo di raccontare pubblicamente della ferita mortale che fa agonizzare a lungo l’eroico figliolo, che per una granata non solo ha perso l’uso delle gambe ma anche quello delle funzioni corporali. E la guerra impietosa filtra tra gli splendori della retorica bellica.

Maria Chiara Liguori

Testo tratto da 'Memorie della grande guerra: le tombe dei caduti nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna', Minerva, 2007.