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Tullo Golfarelli e Giovanni Pascoli

1877 | 1912

Schede

Nel 1892 Golfarelli è insignito del titolo di “Accademico di merito residente” presso la Regia Accademia di Belle Arti di Bologna. Trasferitosi definitivamente a Bologna nel 1893, nell’anno in cui la cattedra di Salvini in Accademia viene assegnata a Enrico Barberi, lo scultore prende casa in via degli Angeli al numero civico 92 pur mantenendo ancora lo studio in palazzo Bentivoglio; quindi inizia a frequentare con assiduità i circoli letterari cittadini ed entra a fare parte della ‘brigata’ carducciana stringendo un legame di profonda amicizia e di reciproca stima, fra gli altri, con lo stesso Carducci, con Andrea Costa e con Giovanni Pascoli. In particolare con il poeta avvia, fin da quegli anni, un lungo sodalizio, ispirato ai comuni sentimenti della patria comune e della giustizia sociale, di cui resta testimonianza in una fitta corrispondenza che si protrarrà fino al 1912, anno della morte di Pascoli. In realtà il rapporto epistolare è interrotto da un lungo periodo di ‘silenzio’, fra il 1892 e il 1900, dovuto verosimilmente alla decisione del poeta di escludere alcuni disegni espressamente commissionati a Golfarelli per la terza edizione della raccolta Myricae, in particolare uno che doveva rappresentare il piccolo cimitero della natìa San Mauro da inserire come «frontoncino» alla poesia con la quale si sarebbe aperto il volume: «Caro Tullo, […] se mi facessi anche per mettere come frontoncino alla prefazione – che sarà nella seconda edizione una lirica intera – un cimitero di campagna, veduto da un lato, con un cipresso che torreggi su, con intorno per la campagna pioppi già quasi spogliati e olmi quasi nudi, sotto la pioggia sciroccale spezzata dal vento… Sei mai stato a S. Mauro? Quel cimitero…».

Di fatto questa amicizia – e, di conseguenza, la frequentazione dell’enclave intellettuale e progressista bolognese – deve verosimilmente essere anticipata di quasi un decennio e fatta risalire a quel 1877 – come è stato puntualmente ricostruito da Romano Pieri nel catalogo che ha accompagnato la mostra tenutasi a Cesena nel 1989: Lo scultore Golfarelli fra il Pascoli e il Carducci – quando sia Pascoli che Golfarelli aderiscono al Gruppo B dell’Associazione Internazionale del Lavoro assieme a Severino Ferrari, Alessandro Balducci e Bartolo Nigrisoli. E, altrettanto verosimilmente – sempre a giudizio di Pieri – già alla fine degli anni Settanta Golfarelli prende parte all’«ultima raccolta», quella che «intorno al Carducci riunì i migliori e più giovani discepoli suoi, Guido Mazzoni, Severino Ferrari, Giovanni Pascoli, Giovanni Marradi, Corrado Ricci e qualche altro. Il Carducci e per via, e in campagna, o in casa d’amici, o dallo stesso Zanichelli, o al caffè ammaestrava. […] E gli incontri della Brigata spesso erano riservati a pochi intimi». Oltre ai già citati Pascoli e Ferrari, nel cenacolo figuravano anche l’allievo prediletto Ugo Brilli, Ruggero Leoncavallo che aveva musicato la lirica carducciana Nel bosco, il pittore Attilio Pratella soprannominato Pradleina che troveremo fra gli illustratori delle “Mirycae” pascoliane e, naturalmente, Tullo Golfarelli «apprezzato scultore», secondo la testimonianza di Maria Pascoli. «Ma cos’era il carduccianesimo in quel preciso momento storico? Era un atto di fede estetica e politica, e rappresentava un doveroso tributo al maestro da parte dei giovani venuti dalla provincia a studiare all’università, anche se al di là dell’ossequio ufficiale incominciavano ad emergere ben altre caratterizzazioni, come avverrà per il Pascoli. […] Dal positivismo il Carducci deriva dunque la concezione della natura retta soltanto da leggi fisiche e da indagarsi, nella poesia e nell’arte, con gli strumenti della scienza, e una visione del mondo in cui l’uomo non si accascia e il popolo ha coscienza dei propri diritti ed è deciso a lottare per la libertà, la democrazia diretta, il progresso senza fine in cui anche il lavoro viene tutelato. Questa concezione politica […] permette [NdA: sia al giovane poeta che allo scultore] di aprirsi alle forme artistiche del verismo e del cosiddetto realismo sociale» (Pieri 1989).

Tuttavia questa fase di «acculturazione» rappresentata dalla «stagione carducciana» non impedirà a Golfarelli di rimanere immune dai «successivi apporti del nuovo movimento del decadentismo, rappresentato dal Pascoli, che avrebbe provocato un parallelo sovvertimento dei vecchi valori e un nuovo punto di vista sull’arte e sulla poesia». E difatti, fin dagli ultimi decenni del XIX secolo – come si è visto e ben si riscontra in alcuni monumenti nei cimiteri di Cesena e, poi, di Bologna – lo scultore rivela un progressivo avvicinamento a un lirismo di marca simbolista e a stilemi propri del Liberty (o «nuovo gusto floreale») pur senza abbandonare mai del tutto modi stilistici e iconografie tipici del realismo sociale. L’intera sua produzione artistica è, infatti, e resterà contraddistinta dalla straordinaria capacità dello scultore di ‘sperimentare’ e praticare diverse cifre stilistiche, una sorta di «polistilismo» – denotando in questo modo anche non scontate abilità tecniche – che gli consentiranno di ‘passare’ con estrema naturalezza dal puro accademismo, al verismo e all’arte sociale, al Liberty e di ‘modulare’ i diversi codici a seconda dei diversi ‘sentire’ dell’animo: «il sublime alla sfera più alta degli ideali, il verismo alla commedia umana, il grottesco alla satira di costume, l’arte sociale alla particolare condizione dei lavoratori, il barocco all’esplosione sensuale e l’ultimo timido liberty all’edonismo della forma pura» (Pieri 1989). E questa sua attitudine ad abbracciare più correnti stilistiche è ravvisabile, talvolta, anche all’interno di una stessa opera. Ciò non deve meravigliare poiché questo eclettismo – in Golfarelli ma, come in lui, in tanti altri artisti – è l’esito di una continua ‘ansia’ di sintesi data dall’irrequietezza culturale dell’epoca. Poi, «quando la brigata si sfalda, il Golfarelli mantiene un residuo contatto con l’intellettualità dell’ambiente attraverso l’intensa amicizia col Pascoli che peraltro già nel 1882 ha lasciato Bologna perché nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera e segna in questo modo la fine di un’epoca culturale» (Pieri 1989).

Il corposo carteggio intercorso fra Pascoli e Golfarelli è, oggi, conservato in parte presso la Fondazione intitolata al poeta nella casa-museo di Castelvecchio di Barga (parzialmente pubblicato da Pieri nel 1989), in parte presso il Fondo Piancastelli nella Biblioteca comunale di Forlì (quest’ultimo integralmente edito nel 1967 a cura di Luigi Ferri). Del nucleo forlivese Ugo Barberi fornisce, in una nota dattiloscritta reperibile anch’essa nel Fondo Piancastelli, una descrizione dei materiali che verranno acquistati dal collezionista fusignanese alla morte dello scultore. Nello specifico si tratta di una trentina fra «lettere, biglietti, cartoline postali anche illustrate da Castelvecchio, e in date varie dal 1892 al 1909, comprendenti principalmente l’epoca in cui [NdA: Golfarelli] vive a Bologna. […] Allo scultore il poeta manda talvolta dei versi che ne sublimano le creazioni; talaltra lo accontenta di un epigrafe; gli da una commissione di due Santi per la sua casina di Barga e, sovente, lo assicura di un valido appoggio in alto loco. Ed è felice quando può informarlo della buona riuscita dei suoi passi: si legge fra le righe la gioia del suo cuore per il beneficio ottenuto all’amico. E, se talvolta non sa e non può fare di più o di meglio, lo rincuora alla fede nell’arte che non tradisce e, pur sapendo che dagli uomini non c’è da attendere soverchia riconoscenza, gli fa capire che, a lungo andare, la giustizia non può fallire. È insomma un carteggio interessantissimo anche dal punto di vista psicologico, oltre che letterario ed artistico. Pascoli, in parecchie riprese, chiede all’amico i disegni per decorare l’edizione delle sue poesie. E qui, dà minuziose descrizioni, misure, spiegazioni dei soggetti e del modo in cui svolgerli. Appena arrivati, se ne dichiara entusiasta e gli scrive che li terrà carissimi fra le migliori cose d’arte del suo studio. Parla di cose diverse personali, intime, anche umili; della sua Mariù, di amici, di vicende spiacevoli, di amarezze, di delusioni… Ma sempre con una misura che rivela in lui l’amico generoso. E quando, stanco della celebrità e dei relativi inconvenienti rifiuta recisamente di dare il suo nome o la sua prosa, lo fa con un garbo impareggiabile. Da buon romagnolo, mostra anche di non sprezzare i piaceri della mensa e, se l’amico lo regala della caccia o delle ciliegie di lor “dolce terra”, non manca di convitarlo a sua volta per mangiare il zampone di Castelvecchio, ammonendolo tuttavia prudentemente che “se gli piace il Sangiovese per pasteggiare, egli non l’ha”. Il poeta, l’artista e l’amico dall’anima delicata e fine, oltre che l’uomo semplice pieno di umanità, balzano vivamente da queste lettere dovunque pervase di tanta poesia, di tanta praticità e di tanto cuore». Sentimenti di profonda e sincera stima e amicizia che trovano riscontro nelle corrispondenze inviate da Golfarelli. Ne scaturisce una sorta di diario ‘intimo’ e intimista, pieno di struggente poesia.

Lo scultore, a sua volta, non manca di trasmettere al poeta cartoline di saluti o di auguri, sempre affettuosi, per l’anno nuovo o per una pronta guarigione (come nel 1912, quando oramai Pascoli è già gravemente malato); messaggi che accompagnano gli acquerelli o le piccole sculture che egli dona all’amico: forse è agli acquerelli Dolore e Solo, verosimilmente ispirati alle liriche pascoliane, che Golfarelli si riferisce nel biglietto datato 20 giugno 1896; mentre nel 1906 gli invia la bella terracotta policroma che raffigura le Najadi – le ninfe d’acqua dolce che erroneamente lo scultore associa alle Nereidi, ninfe marine – nell’atto di sorreggere una conchiglia, in cui è evidente l’ispirazione al lavoro di Mario Rutelli, impegnato fin dal 1904 nel progetto delle fontane di piazza Esedra a Roma: «un gingillo perché tu lo metta, come sopra mobile, sul tavolo del tuo studio. Nella coppa o conchiglia si versa del profumo liquido che spande poi l’odore nella stanza. Se no puoi metterci qualche viola o fiore …»; e, ancora, fotografie delle sue sculture (del celeberrimo Fabbro, della lunetta dell’Ospedale Maggiore, di una testa di Cristo – «dettaglio di una figura in alto rilievo del Divin Pastore, lavoro ordinatomi da un Vescovo […] modellai quella testa con molta passione essendo difficile assai dargli dolcezza e ardire. Che cosa ho fatto poi non lo so» –, della testina del Mietitore, dei gruppi Turbine e Vortice) richiedendo in cambio impressioni e giudizi. Lo tiene informato dei suoi progressi nell’arte, di nuove commissioni cui sta lavorando (il busto di Giosue Carducci per il Palazzo del Governo nella Repubblica di San Marino per la cui inaugurazione Pascoli è atteso sul Titano, e quello per il monumento che si va a realizzare a Trento, come, pure, del concorso per il monumento a Vittorio Emanuele II di cui lo scultore sta preparando il bozzetto da inviare a Roma), delle raffigurazioni che accompagnano le liriche pascoliane.

Ma lamenta altresì, e in più occasioni, le difficoltà economiche in cui versa, date dalla mancanza di allogagioni, e le sue assillanti preoccupazioni; invia richieste di aiuto con preghiere di intercessione. «Mio caro Giovannino, grazie, grazie della tua lettera che mi hai scritto; mi ha rallegrato l’animo che spesse volte è nero nero, pieno di dolori. La vita qui a Bologna è triste per gli artisti. Poche sono le commissioni e quelle che vengono sono pagate meschinamente. Difficile poi anche ritrovare il committente che lasci libero campo all’artista di fare ciò che sente. Col Fabbro e col monumento a Bartoletti (Il Tempo) potei fare qualche cosa di mio. Ma il più delle volte si modellano dei busti che effigiano certi tipi di ricchi borghesi venuti qui or ora chi sa da che strato sociale e in che modo, con certe orecchie ad ansa e certe bozze frontali da fornire uno studio completo ad una scuola di Frenologia. L’altro giorno per esempio ho ultimato di modellare un busto ad uno di questi signori. Se tu avessi potuto assistere a quella seduta c’era da ridere davvero. Figurati che il Signor arrivava allo studio col suo barbiere e col suo sarto. Si fece pettinare e arricciare per bene, e il sarto lo vestiva. Poi sulla poltrona si sedeva piano piano per non scomporsi e con uno specchietto in mano confrontava i rilievi che io mettevo sulla creta per raggiungere la somiglianza. Il barbiere e il sarto guardavano seri la mia mano nervosa che dava forma a quelle sembianze. Ma molte volte il barbiere diceva ah! no no professore… no non ci siamo, veda… il signore qui nella tempia destra ha quel riccetto più stretto più tirato su… così così bravo… ancora un po’ più, oh così va bene… sa non per dire ma anch’io me ne intendo un poco avendo studiato disegno. Intanto il sarto per non rimanere indietro del barbiere mi dava lezioni sul bavero del vestito ecc. ecc.. Il modello poi sorrideva di soddisfazione per vedere che il ritratto veniva perfetto. Ogni tanto mi diceva… lo faccia sorridente, grazioso che non si dovesse dire che sono stato un uomo cattivo. L’ho fatto sorridere e rimarrà sorridente sempre ma l’animo mio fece uno sforzo grandissimo per ottenere tutto quello che voleva il signore il sarto e il barbiere. Queste sono le commissioni comuni che capitano, pagate pochissimo. E pure delle volte non capitano nemmeno queste e allora si vive maluccio; e in quei momenti di crisi si corre colla mente e col cuore alla tranquilla pioggia mensile, e continua di una paguccia qualsiasi. Stare così come il passero nel bosco [NdA: l’eloquente metafora è ripresa dal libretto del «Mefistofele» (atto III) di Arrigo Boito] è un brutto vivere. Ma spero che il coraggio non mi verrà meno e che la mia mente non cesserà di sognare, trovando nel sogno un sollievo grande dell’animo. Perdona mio Giovanni questa tiritera che ti avrà annoiato… ma che vuoi… sognavo di averti qui vicino e ho ciarlato».

Ancora più mesto il tono della lettera che Golfarelli invia all’amico in occasione del compimento del suo quarantesimo compleanno, nel giugno 1892: «Caro Giovanni, […] mi dici se faccio più il nano indossando quella gran capparella… no mio caro, ho cambiato moltissimo, moltissimo e non ne ho più voglia. Mi avvicino ai quaranta, i capelli si imbiancano, piano piano sparisce anche la volontà di ridere. Allora erano tempi in cui tutto sorrideva e il mondo parea bello, oggi no. Io vivo solo, solissimo. Mi sono morti tutti tutti, non ho più nessuno. Ma lasciamo stare. Mi chiedi cosa sto facendo. Guadagno tanto da mangiare la minestra. Ho concorso a Modena al monumento a Nicola Fabrizi. Ci sono (o siamo) 24 concorrenti. Mi si dice che io posso stare tra i buoni e mi si lusinga dicendomi che potrei rimanere nella terna. La commissione che dovrà giudicare è composta così: Presidente Crispi, Mariotti quello che è nella segreteria di un ministero di Esso, poi Salvini di Bologna, poi si crede Ferrari di Roma, lo scultore. Da questi dipende la sorte chi lo sa come andrà. Ci vorrebbero degli appoggi. Certo che per me sarebbe (se la fortuna mi arridesse) un gran sollievo, un gran risveglio. È tanto che lotto. Chi sa che io non venga a trovarti;… debbo venire a Carrara per del marmo e verrei a salutarti. Ho piacere che Finali abbia fatto conoscenza con te, è buono è un’anima nobile». A Pascoli, Golfarelli riserva anche espressioni di profonda gratitudine quando questi gli scrive parole di conforto che gli infondono il coraggio necessario per proseguire nel suo lavoro.

Silvia Bartoli

Testo tratto da: Silvia Bartoli, Paolo Zanfini, Tullo Golfarelli (1852 - 1928), Minerva Edizioni, 2016. Fonti: BMRBo, Album Golfarelli.