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Ritratti di Giuseppe e Anna Paolini

1817

Schede

I due ritratti, firmati e datati, hanno fatto la prima apparizione nella recente asta Finarte, a Milano, il 10 novembre 2015. Come informano le iscrizioni riportate sul verso della tela con calligrafica diligenza, presentano l’immagine del quindicenne Giuseppe Paolini, prima di partire per Roma, alla fine di novembre del 1816, ed entrare nel noviziato tra i chierici regolari di San Paolo detti Barnabiti, e quella della sorella Anna, diciannovenne, a sua volta in procinto di ritirarsi nel noviziato delle monache Carmelitane di Bologna nel febbraio del 1817. La loro età trova conferma nei documenti battesimali. Figli di Giovanni Battista Paolini dottore in legge e di Marina Minghetti, furono rispettivamente battezzati il 30 settembre 1801 (con il nome completo di Gioseffo Michele Girolamo) e il 5 aprile 1797. Se il ragazzo, impostato di tre quarti, volge lo sguardo all’osservatore, per un attimo distolto dalla lettura del libretto che tiene nella mano destra, mentre l’altra mano, secondo una consuetudine rappresentativa del tempo, è infilata sotto il bavero della giacca, la giovane, colta frontalmente, con altrettanta immediatezza ferma il lavoro di ricamo sospendendo nell’aria l’ago con il filo di cotone per fissare con espressione di matura serietà i suoi familiari, insieme committenti e destinatari dell’opera. Si tratta di ritratti di una notevole intensità affettiva, eseguiti a ricordo di due giovani in procinto di lasciare definitivamente l’abitazione e la famiglia per abbracciare la vita religiosa. La compresenza della persistente grazia settecentesca nell’arricciatura dei polsini e del collo della veste della giovane, mossi dal mirabile gioco dei bianchi, e dell’adesione invece alla sobrietà ottocentesca nell’abito del ragazzo sembra visualizzare la posizione ambivalente dell’artista, che si era formato in età pre-napoleonica nell’insegnamento tradizionale dell’Accademia Clementina, sulle premesse tuttavia di un virtuoso apprendistato veneziano, e nello stesso tempo si mostrava sensibile al rinnovamento del gusto in direzione neoclassica, secondo i nuovi principi estetici.

Il legame che unisce i due ritratti nell’elevata luminosità (l’essenziale bicromia di rosso e bianco in un caso, che mette in risalto la collana e l’orecchino di corallo; il più basso accordo tra il blu fondo della giacca e il bianco della camicia dell’altro) subito si interrompe nel contrasto tra l’applicazione femminile al ricamo, che rinvia ai dipinti settecenteschi di Giuseppe Gambarini e Stefano Ghirardini, e la disposizione del ragazzo alla lettura, come pure tra la frontale presentazione della giovane, nella concessione all’impasto gandolfiano dagli effetti schiumosi, e il taglio laterale del ragazzo, confrontabile, nella vitrea fermezza e nell’essenzialità del disegno, con gli esempi di Pelagio Pelagi, come il coevo Ritratto di Petronio Montanari o il più tardo Ritratto del maestro Asioli del 1832 circa, entrambi del Museo d’Arte Moderna di Bologna. Di quell’irrisolta dialettica tra i due secoli, l’artista, che non intendeva chiudere con il passato, aveva già fornito testimonianze nella tela del 1797 con San Giovanni evangelista nell’isola di Patmos della Pinacoteca Comunale di Budrio, nella quale la tradizione antica faceva i conti con la presenza a Bologna del Filottete ferito sull’isola di Lemmo donato da James Barry all’Accademia Clementina nel 1770, in occasione dell’aggregazione; e prima ancora della premiata Morte di Virginia delle Collezioni Comunali d’Arte risalente al 1791, nella quale l’insegnamento di Gaetano Gandolfi incisivamente presente cede all’avanzare delle suggestioni neoclassiche che meglio interpretano i risvolti pedagogici del celebrato eroismo degli antichi, nell’adesione specifica al clima della tragedia alfieriana che era stata rappresentata a Bologna pochi anni prima, nel 1785.

Cesare Masini, nell’elogio dell’artista pubblicato alla sua morte nella “Gazzetta di Bologna” il 9 febbraio 1850, ricorda che “molti fece ritratti per prezzo e per amicizia”; in effetti, scorrendo la sua, peraltro incompleta, Memoria di lavori di pittura risalente al 1837 circa, si incontrano oltre trenta ritratti distribuiti sull’intero arco produttivo; ritratti di ecclesiastici (dal cardinale arcivescovo Carlo Opizzoni ai monsignori di Curia, fino ai modesti parroci), di nobili (la marchesa Magnani), di collegiali del collegio dei Nobili di Santa Lucia allora retto dai padri Barnabiti, di pittori (Antonio Beccadelli), di parenti (il cognato Lodovico Orsi) e di numerosi esponenti della borghesia cittadina, fino ai componenti di un’intera famiglia (“Per la sig. Teresa Felicori, ritratto di Essa, come pure del figlio maggiore sig. Angelo Felicori, e poi del secondogenito Vincenzo, e della sorella Marianna Felicori”). Pochi sono i ritratti noti. Risalta, con quello dell’amico Vincenzo Martinelli dell’Accademia di Belle Arti e con l’Autoritratto ora alla Pinacoteca Nazionale, il Ritratto di Giacomo Rossi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, forse del 1787 quando lo scultore fu aggregato all’Accademia Clementina, sebbene, come è stato acutamente osservato, “l’abbigliamento sobrio e l’ostentata fierezza, sapientemente esaltata nella pittura dalla veste vermiglia, evochino piuttosto i successivi tempi dell’ardente impegno politico repubblicano”. Meritano inoltre di essere ricordati il Ritratto di Elisabetta Bentivogli Magnani presso la sede USL di Bologna, identificato con quello registrato dall’artista tra le opere degli anni 1785-1787, che mostra relazioni strette con i rapidi pastelli di Angelo Crescimbeni realizzati negli anni Settanta, ad esempio con il Ritratto di anziana signora di collezione privata bolognese, già in collezione Paglia, firmato e datato 1777, abbinato al ritratto del marchese Centurioni fatto eseguire dal nipote, sempre a Crescimbeni, nel 1775; inoltre il singolare Ritratto del dottor don Pietro Magnoni, parroco della chiesa di Sant’Isaia e fratello del pittore Antonio Magnoni, eseguito alcuni anni dopo la scomparsa sulla base di qualche testimonianza figurativa superstite; mentre dell’ufficiale produzione matura si possono indicare il Ritratto di Carlo Codronchi Argeli del 1835 e il Ritratto di Giuseppe Rossi dell’anno successivo, entrambi per il Collegio dei Nobili di Santa Lucia (ora nel Collegio San Luigi) al quale l’artista aveva già fornito quello del marchese Vincenzo Amorini, verosimilmente nel 1818, e quello del maceratese Lazzarini, con tutta probabilità due anni dopo . Sorprende incontrare nella galleria dell’iconoteca del Collegio San Luigi un secondo ritratto di Giuseppe Paolini, di identica impostazione, ma con l’effigiato nella veste di chierico regolare di San Paolo, eseguito nella mesta occasione della sua scomparsa all’età di diciotto anni nel dicembre 1818, a meno di nove mesi dalla professione religiosa che gli impose il nuovo nome di Alessandro, come riporta l’iscrizione in calce. Lo stato di conservazione mediocre non impedisce di restituire la tela, tuttora priva di riferimenti attributivi, a Pietro Fancelli, in quegli anni attivo per il Collegio. Non citato nella sua Memoria di lavori di pittura, sarà da includere tra i ritratti eseguiti non “per prezzo”, ma “per amicizia”, cui allude Cesare Masini, essendo committente con tutta verosimilianza la stessa comunità dei Barnabiti.

Intensa è l’attività dell’artista negli anni 1816 e 1817, le date che ricorrono sul verso delle tele in esame. Alle decorazioni di Palazzo Ranuzzi, in palazzo Solimei, in palazzo Ratta e in casa Ambrosi si aggiungono dipinti come Polissena condotta al campo dei Greci per essere immolata alla tomba di Achille e, soprattutto, la pala di altare con la Predica del Battista per la chiesa parrocchiale di Minerbio del 1813-1815, che si pone tra i suoi quadri sacri più impegnativi, come peraltro conferma l’entità del compenso.

Testo tratto dal volume “Felsina sempre pittrice” a cura di Angelo Mazza, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna - Genus Bononiae. Musei nella Città, Bononia University Press, 2016. Trascrizione a cura di Lorena Barchetti.