Processo Palizzolo

Processo Palizzolo

1899 | 1904

Scheda

Raffaele Palizzolo (Termini Imerese, 1843 – 1918) è stato un politico italiano. Fu incriminato come mandante dell'uccisione del marchese Emanuele Notarbartolo (Palermo, 23 febbraio 1834 – Termini Imerese, 1º febbraio 1893), già direttore generale del Banco di Sicilia e sindaco di Palermo. Il banchiere fu ucciso con ventisette colpi di pugnale durante il tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia. Gli esecutori furono Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. Nel 1899 la Camera dei Deputati autorizzò il processo contro Raffaele Palizzolo come mandante dell'assassinio. Nel 1902 venne giudicato a Bologna, dichiarato colpevole e condannato a 30 anni di reclusione. Alla direzione di tutta la vicenda a Bologna vi era il questore Ermanno Sangiorgi che tra 1898 e 1900 era stato chiamato in Sicilia, primo a descrivere l'organizzazione mafiosa nel rapporto che scrisse per il ministero dell'interno. Il caso Palizzolo colpì profondamente l'opinione pubblica: per la prima volta si parlava apertamente di delitto di mafia. Don Palizzolo risultava infatti in ottimi rapporti con le cosche palermitane e trapanesi. Il verdetto apparve a Palermo e in Sicilia come una condanna dell’intera isola, voluta dal Nord a danno del Sud, e innescò una violentissima reazione. In difesa di Palizzolo, ritenuto vittima di un iniquo errore giudiziario e di pregiudizi inveterati contro i siciliani, si costituì, a iniziativa di Giuseppe Pitrè, un «Comitato pro Sicilia», la cui attività si concluse con successo: la Cassazione annullò la sentenza di Bologna e il nuovo processo che si tenne a Firenze lo assolse per insufficienza di prove (luglio 1904).

La Civiltà cattolica nel 1904 sintetizza così i numeri del processo: "Un'altra assoluzione che ha dato molta materia ai giornali e che avrà eco specialmente in Sicilia, è quella di Raffaele Palizzolo, già deputato di Palermo. A tutti è nota la causa e la lunga durata del suo processo. Fu accusato di mandato o di complicità nell'uccisione di Notarbartolo e del Miceli; ma dai giurati di Firenze, tanto egli che gli altri due imputati, ottennero il giorno 23 di luglio un verdetto di assoluzione con 8 voti favorevoli contro 4 sfavorevoli, sicchè furono immediatamente rimessi in libertà. Dalle vicende di questo interminabile processo svoltosi a Milano, a Bologna e a Firenze abbiamo parlato altrove. La Tribuna riporta i seguenti dati statistici: "Il processo Palizzolo a Bologna è durato 10 mesi e 20 giorni: furono interrogati 503 testimoni; il presidente della corte di Assise di Bologna fece spedire 1300 telegrammi; la corte pronunciò 77 sentenze; il pubblico bolognese fu allontanato 6 volte dalla sala; fra Milano e Bologna il processo costò all'erario 90 mila lire. La discussione di Bologna è durata dal 23 aprile al 25 luglio dell'anno passato. A Firenze sono state tenute 166 udienze; furono uditi 264 testimoni. Il Presidente ha spedito 133 telegrammi; la sala fu sgombrata una sola volta il 17 giugno. I rappresentanti della parte civile hanno parlato per 34 udienze; il pubblico ministero per sette udienze; i difensori di Trapani per quattro udienze; i difensori del Fontana per 9 udienze; i difensori di Palizzolo per 22 udienze. I testi sentiti per rogatoria a domicilio sono stati 27. Le indennità pagate ai testimoni ed ai periti ascendono a L. 40,166,19 senza contare quelle per i giurati e i magistrati". Finalmente secondo il Giornale d'Italia il solo Palizzolo per questi processi ha speso L. 313,000. Ora però, assolto in Firenze, benchè sia stato condannato a Bologna, è ritornato nella sua Sicilia, ricevuto con gli onori del trionfo!"

Nel 1902 viene edito da Zanichelli il memoriale dell'avvocato Vincenzo Tazzari dal titolo "Il processo Palizzolo - difesa di Francesco Paolo Vitale", che l'autore dedica a Giuseppe Carlo Fanti. Questi riporta la sua arringa, tra cui disse come "«oltre al Palizzolo, che fu la mente, Francesco Vitale dovette essere l'organizzatore del delitto». L'organizzatore di che? Di quel delitto forse che, nella maniera tipica delle vendette siciliane, fu perpetrato con alcune schioppettate tirate da dietro un riparo? Di quel delitto, che, testimoni e pubblicisti, hanno detto in nulla «dissimile dai soliti omicidi che contraddistinguono le rappresaglie meridionali?». Dov'è mai l'organizzazione? Quando si pensa che nell'assassinio del Miceli tutto, punto per punto, ha perfetto riscontro nei due antecedenti attentati subiti dallo stesso Miceli, non è forza riconoscere che non v'era bisogno di qualsiasi organizzazione? Quale persona non sarebbe andata senza un intoppo? Infatti nella notte del 17 luglio 1892 le fucilate, partendo all'indirizzo del Miceli, non vennero da presso quegli stessi mandorli dietro ai quali, nel 13 maggio 1889, aveva sparato il Bosco? Costui era un povero capraio: un delinquente certo d'ideazione non profonda. (...) Chi era il Miceli? Come lo presenta lo stesso Procuratore Generale Barra che, nelle sue requisitorie del 1893, fu il primo a concludere contro gli attuali accusati? Al tempo del primo processo, quando pure il raccapriccio del delitto durava più vivo, quel Procuratore Generale, dopo avere premesso che il carattere del Miceli «era di incentivo alle avversioni», non poteva a meno di seguitare cosi: «Francesco Miceli, franco e facile a trascendere a parole, era anche facile alle violenze, percuotendo e scudisciando le persone che avevano la disgrazia di fare cosa a lui poco gradita». (...) Cosi agiva il Miceli! Ma dove? Ma in mezzo a chi? In Sicilia: in mezzo a una popolazione che potrà praticare tutti i precetti morali tranne quello che insegna di porgere la guancia destra a colui che abbia percossa la sinistra. Quel popolo non tollera l'oltraggio. E sono appunto le fiere lotte e la costanza onde laggiù si sa raggiungere la vendetta che fanno fede della immensa temerità di colui che pretendeva farsi strada con lo scudiscio alla mano. «Era esposto ogni giorno al rischio di morire!» Ecco il grido dei testimoni venuti dall'ambiente infocato dell'isola lontana. (...) Ma l'organizzatore avrebbe fatto eseguire il delitto in casa propria? Dobbiamo pure valerci del buon senso. Perchè non possiamo assolutamente indurci a credere una cosa contro la quale si sono ribellate tutte le persone venute qui dalla Sicilia: perchè non possiamo dubitare della ragionevolezza di queste persone quando affermavano di non «saper nè pure concepire» che Francesco Vitale avesse potuto indursi a tollerare l'uccisione del Miceli, nel fondo stesso sul quale egli abitava. (...) L' organizzazione del delitto vuol dire l'eseguimento di un ordine da parte del Palizzolo. Ed ecco la frase con la quale si è voluto esprimere tutta una paurosa situazione di accordi. Si dice: «Francesco Vitale era il braccio destro del Palizzolo, era il bravo!». Ma, dalla frase in fuori, che cosa resta? Che cosa resta? Resta che il Palizzolo introducesse il Francesco Vitale sul fondo? Ma se lo portò là il Diliberto al principio di quella sua gabella che dal 1889 in avanti doveva avere la durata di nove anni: poi, nella viva opposizione del Palizzolo, non essendo stato omologato il contratto perchè troppo lungo, il Diliberto, costretto ad andarsene, si senti in obbligo di raccomandare il Francesco Vitale al Palizzolo, il quale non fu indotto a conservarlo se non per rendere al competitore suo meno amara la perdita della affittanza. «Collocai come custode sul fondo, disse il Diliberto, il Francesco Vitale, e precisamente ve lo collocai il 1 agosto 1889». (...) Maffioso nel sangue, di modi, era il Miceli! Perchè, chi conduceva quelle squadre di delinquenti da Monreale a Palermo se non il padre del Miceli: il famoso Turi?! Quest' uomo famigerato fu al vertice di tutti gli orrori che funestarono la provincia di Palermo nelle giornate del 66: fu il capo della ciurmaglia, la guida della fèccia, l'anima di quelle squadre che, dal massacro dei carabinieri fino all'assedio delle Grandi Prigioni, commisero ogni eccesso. Basti questo: gli storici non fanno che un nome: quello di Turi Miceli. «Era quivi, scrive Giacomo Pagano, certo Salvatore Miceli di Monreale, seguito da trecento «suoi terrazzani, il quale — con rabbia accanita —, «correva più d'ogni altro ad avventarsi contro le «Grandi Prigioni, nelle quali erano rinchiusi ben «due mila prigionieri».Là dentro il Miceli aveva la moglie, ladra. Che famiglia spaventevole!"

In collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

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Documentario - Bologna nel lungo Ottocento (1794 - 1914), 2008. La città felsinea dall'età napoleonica allo scoppio della Grande Guerra.

Bologna post unitaria
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Quadro socio politico della Bologna post unitaria nel periodo 1859-1900. Intervista ad Alberto Preti. A cura del Comitato di Bologna dell'istituto per la storia del Risorgimento italiano. Con il contributo di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. www.vedio.bo.it

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Come si diventa camorrista
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Giulio Gaggiano, Come si diventa camorrista. Estratto dal periodico 'La Lettura - rivista mensile del Corriere della Sera', Milano, 1907.

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