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Paesaggio ideale

Schede

Gaetano Burcher (o Burker) (Bologna, 1781 - 1828), Paesaggio ideale, olio su prima tela in cornice originale, cm. 69,8 x 81,8. Ricordato da Cesare Masini (1867, p.24; 1884, p.22) tra i protagonisti della pittura di paesaggio bolognese della prima metà del XIX secolo, Burcher è una delle figure rimaste forse più in ombra negli studi recenti. Come quasi tutti i pittori di paesaggio della sua generazione, non aveva mancato l’appuntamento con le “stanze a Paese”: nella Villa l’Abbadia a Castel de’ Britti nel 1812 o poco prima, insieme a Basoli e Fantuzzi impegnati in altri ambienti, e nella Villa Conti a Montichiaro, nei pressi di Casalecchio di Reno. Quest’ultima impresa, realizzata nel corso del terzo decennio, lo vide impegnato per ben quattro anni, nello sforzo di fare coincidere l’orizzonte reale visibile all’esterno con quello illusorio dipinto sui muri (Matteucci, 2002, p. 175, fig. 263, p. 440). L’interesse mostrato in quest’ultimo caso da Burcher per un effetto scenografico non è casuale, il suo curriculum vanta, infatti, una significativa attività di scenografo per il Teatro Comunale di Bologna, iniziata nel 1809 (nello stesso anno esponeva alla mostra dell’Accademia di Belle Arti un “Disegno all’acquarello di un vasto paese”) ma immediatamente interrotta, poi ripresa il 1820 e continuata anno dopo anno fino alla morte.

Durante il periodo di assenza sulle scene del teatro bolognese, opere di Burcher appaiono in diverse edizioni delle mostre di Brera (1812, 1813 e 1818), tanto da lasciar supporre che il pittore si fosse trasferito a Milano. Negli anni della Restaurazione la situazione artistica nella città lombarda non era così stagnante come a Bologna, vi era, anzi, già fiorente un mercato per la pittura da cavalletto. Le vedute ideali di Burcher, con l’inconfondibile classicismo temperato dalla naturalistica descrizione degli scenari naturali, nella tipica maniera degli allievi di Martinelli, incontrarono certamente il gusto del pubblico e dei collezionisti, come conferma la presenza fino al 1844 di copie di suoi dipinti nelle mostre braidensi. Recentemente è stato ipotizzato un interessamento di Palagi per la presenza di Burcher a Milano (R. Lazzaro, in Pinacoteca di Brera..., 1993, p. 146), circostanza in realtà improbabile, poiché il primo era giunto nella città lombarda solo alla fine del 1815, dopo avere lasciato Roma e trascorso pochi mesi a Bologna. Più probabilmente fu Carlo Filippo Aldrovandi, influente presidente dell’Accademia bolognese, a favorire Burcher nell’ambiente milanese. Il conte mecenate considerava, infatti, quest’ultimo come suo “scolaro”, alla stessa stregua di Palagi e di Carlotta Gargalli, passata alla storia come pittrice, ma forse più meritevole di memoria per l’avvenente bellezza che per le capacità artistiche.

L’attività artistica di Burcher appare, dunque, orientata prevalentemente verso la pittura da cavalletto, negli anni passati probabilmente a Milano, e l’attività scenografica, svolta con continuità a Bologna dal 1820 al 1828, mentre residuale sembra il suo impegno come decoratore di ambienti. Per tali ragioni, probabilmente, il suo catalogo, che oltre alle opere già citate annovera un paesaggio ideale ad olio, dipinto a quattro mani con Giacomo Savini, appartenuto al marchese Giuseppe Davia e ora al Museo d’Arte Industriale Davia Bargellini di Bologna (cfr. Grandi, 1987, fig.57, p.129), due tempere di analogo soggetto nelle Collezioni dell’Accademia di Brera, in deposito alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e da questa agli uffici della Questura di Milano (Pinacoteca di Brera, Tomo I, figg. 148 e 149, pp.146 e 147), oltre al grande ovale con un Paesaggio rupestre proveniente dalla sala da ballo di palazzo Baciocchi e ora nell’anticamera della residenza del Sindaco a Palazzo d’Accursio, dove i documenti lo ricordano fin dal 1933. Quest’ultima opera, databile dopo il 1821, anno di arrivo a Bologna di Felice Baciocchi, era originariamente il pendant di una tela, ora irriperibile, di analogo soggetto e quasi certamente di identiche dimensioni di Rodolfo Fantuzzi. Nel 1924 Sighinolfi le descriveva ancora in sito sulle pagine del “Bollettino del Comune di Bologna” (cfr. Matteucci, 2002, p. 196), riconoscendo ai due artisti un identico merito pur nelle differenze di stile, che in Burcher gli appariva maggiormente orientato verso una fedele rappresentazione del vero naturale, laddove Fantuzzi si segnalava per una “gigantesca immaginazione” e per gli “slanci di un ardito pennello”. L’attenzione agli effetti di prospettiva messa da Burcher nella già ricordata “stanza a paese” di Villa Conti a Montechiaro non deve, quindi, essere interpretata come una sorte di ossessione derivata dalla sua attività di scenografo, ma come la ricerca della massima fedeltà al dato di natura, sia nell’ordinato degradare dei piani che negli effetti luministici ed atmosferici.

Ed è, appunto, quest’ultimo dato a caratterizzare il presente dipinto. Si tratta con tutta evidenza di una personale declinazione del vedutismo ideale bolognese dei primi decenni del XIX secolo, caratterizzata da una particolare maniera di intendere gli effetti di una morbida e avvolgente luce aurorale sulle cose, e in particolare sulle fronde delle quinte arboree, sapientemente disposte in ordinate lontananze prospettiche. Questi elementi non riscontrabili con tale intonazione di idillio naturalistico nella analoga produzione degli altri allievi di Martinelli, si riconoscono, invece, nelle tempere milanesi, provenienti quasi certamente dalle esposizioni di Brera alle quali Burcher aveva partecipato. In particolare è nel paesaggio con un Luogo boscoso con sfondo di monti, animato da figure, come recita la scheda dei milanesi Musei del Castello Sforzesco (cfr. Pinacoteca…,1993, fig.149; p,147), che, oltre alla medesima, e già sottolineata, declinazione prospettica, si ritrova la stessa maniera con cui la luce rosata colpisce le fronde degli alberi, l’uguale diapason emotivo di una scala cromatica densa di sottili passaggi. Altro elemento importante, che peraltro consente la datazione del dipinto al terzo decennio del XIX secolo, è l’intervento di Giacomo Savini per le figure. La collaborazione fra i due allievi di Martinelli è infatti attestata, a partire dal 1820, da Il ballo delle vestali, una scena per una rappresentazione al Teatro Comunale oltre che dal già citato dipinto a quattro mani del Museo Davia Bargellini, firmato sul retro “Burcher e Savini fecero” databile non dopo il 1822, anno in cui il marchese Giuseppe Davia lo acquisì alla deliziosa collezione tutt’oggi visitabile in Strada Maggiore 44.

In collaborazione con Galleria de' Fusari, Bologna. Testo tratto da: Claudio Poppi (a cura di) 'Da Antonio Basoli a Luigi Busi: Bologna, Ottocento ...Senza macchia!', 2005.