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Monumento a Giosue Carducci

1908 | 1928

Di rilevanza storica

Schede

Il Consiglio comunale di Bologna, che subito dopo la morte del Poeta, avvenuta nel febbraio del 1907, affrontò il compito di erigergli un monumento, ebbe a risolvere tre ordini di problemi: un monumento funerario o onorario? Commissione di esso per concorso o per “chiara fama”? E quale il luogo dell'installazione? I primi due problemi furono di soluzione abbastanza agevole: il costume dell'epoca vietava ormai che a un cittadino, seppure illustre, si potesse dare sepoltura in luogo diverso dal cimitero comunale; e poi ostavano le precise volontà testamentarie espresse dal Carducci stesso: il monumento, in quanto eretto in luogo diverso dalla Certosa, non poteva che essere onorario. Quanto poi alla scelta dell'artista, il nome del Bistolfi aveva ormai raggiunto un sufficiente quoziente di “Chiara fama” così da imporsi naturalmente. (...) Assai più complessa invece, e non priva di agganci con problemi di fondo su cui sarà bene soffermarsi un poco, la questione della località in cui far sorgere il monumento. Si distinsero subito due partiti, l'uno favorevole a una soluzione integrata nel contesto urbano, e anzi identificata nel centro storico; l'altra, a una soluzione periferica, legata all'espansione della città e alla sua possibilità di darsi un volto nuovo. A favore della prima tesi militava la considerazione che un poeta tanto vicino alla sensibilità e all'affetto della cittadinanza dovesse immedesimarsi col centro stesso di Bologna, con la sua “anima”, anche per poter essere continuamente sotto gli occhi di tutti. Ostava invece la considerazione che sarebbe stato ben difficile stilisticamente inserire un monumento abbastanza omogeneo al compatto tessuto architettonico medievale-rinascimentale. Caddero quasi subito le ipotesi di una collocazione sotto le due Torri, o in Piazza della Mercanzia, o nelle piazzette laterali di via Zamboni; zone troppo anguste, e troppo condizionate dagli edifici già sorgenti; appariva invece suggestiva l'ipotesi di una collocazione in piazza Re Enzo, anche in vista del riordinamento urbanistico di via Rizzoli; una soluzione, diciamolo subito, che certo avrebbe portato a un inserto provocatorio, scomodo, incongruente, ma che d'altra parte non avrebbe consentito di dimenticare o di emarginare il Monumento, come di fatto è avvenuto.

L'altra soluzione aveva dalla sua, prima di tutto, ragioni affettive: la Casa ove il Carducci aveva abitato sembrava essere il luogo naturale da cui far partire il monumento celebrativo; e inoltre si presentava l'opportunità di spazi più ampi, anche in vista della ristrutturazione di quella zona. Fu decisivo, a favore di questa soluzione, il parere dell'artista stesso, che certo vi intravedeva la possibilità di operare in modo più libero, con una buona integrazione tra natura e artificio; lo sollecitò subito la presenza spontanea, presso la casa del Poeta, di un rialzo naturale che quasi costituiva una mini-acropoli, già coperta in parte da vegetazione; del resto, pur senza accusarne chiara consapevolezza, Bistolfi si conformava in tal modo ai migliori caratteri del liberty, che identificò quasi sempre le sue sorti con la proiezione urbanistica della città verso la periferia, verso i quartieri residenziali, oltre la vecchia cinta di mura. Purtroppo quella che sulla carta appariva come un'ottima scelta, per ragioni affettive e urbanistiche, per possibilità e compenetrazione tra natura e architettura, fu all'atto pratico contrastata da una serie di fatti che non scattarono, o scattarono in misura controproducente. La ristrutturazione della zona non avvenne con quell'ampio respiro che si poteva prevedere; fu aperto si un ampio piazzale prospiciente il Monumento, ma sulla sua sponda si attestò una edificazione di villini molto modesti, che di fatto lo chiusero, ne fecero un'area morta; mentre l'acropoli naturale, appoggiata ai ruderi delle vecchie mura e rafforzata oltretutto dalla bastionata vegetale cresciuta cogli anni, ebbe l'effetto di nascondere il Monumento all'anello della circonvallazione, ove invece scorre il traffico. In sostanza, il Monumento fu sottratto all'attenzione del pubblico, come avevano previsto i seguaci dell'altro partito. (…) Tutti questi problemi preliminari si potevano considerare risolti alla data del 9 luglio 1908 (Atti del Consiglio Comunale), e da quel momento Bistolfi poté procedere all'ideazione dell'opera, questa si espresse in una relazione inviata. In data 10 novembre 1909, al sindaco Tanari, e poi data alle stampe. In essa compaiono alcuni elementi tipici della poetica dell'artista, accentuati dall'occasione quantitativamente ingente del Monumento, il più vasto da lui affrontato fino a quel momento (e che tale sarebbe rimasto anche in seguito).

Si parte da un accenno al cumulo di “memorie” di cui la casa del Poeta è serbatoio, donde viene anche l'obbligo di mantenere una “semplicità di esecuzione”; semplicità qui vuol dire che le infrastrutture architettoniche non devono farsi invadenti, così da cancellare la “natura” del luogo. Ma soprattutto è preziosa l'indicazione di un procedimento antiunitario, volto cioè a “disseminare” le figure, e a collocarle in modo “non simmetrico”, ricercando anche un'integrazione con i motivi di verde già esistenti: “i cipressi, i lauri, i cespi di rose e le aiuole colorate”. Bistolfi, anzi procurerà un loro arricchimento, piantando altri alberi, secondo una pianificazione che accomunerà appunto natura e arte; per questo gli sarebbe stata impraticabile la soluzione “cittadina”. Per quanto, bisogna ammetterlo, la pianta del complesso monumentale non è pari all'intuizione, e neppure al grado di libertà intrinseca raggiunta nei vari pezzi; non si va al di là di una leggera asimmetria dei due gruppi avanzati, rispetto a quello del Poeta e al Trittico retrostante; nulla di simile alla invenzione scatenata di un Gaudì, p. es. nel Parque Guell di Barcellona; il paragone non è del tutto peregrino, perché per capacità sfrenata di invenzione e di delirio nelle figure Bistolfi non era da meno dell'artista catalano. Sempre in quella relazione erano delineati, seppure in modo sommario, i nuclei iconografici dell'opera, che poi si sarebbero articolati nel corso dell'esecuzione. Se dunque quella relazione stessa costituisce il punto d'avvio della vicenda tematica, ne possiamo considerare come atto conclusivo l'ampia analisi riservatele dal Cozzani nel '28 che ci guiderà nella breve esposizione che segue, senza trascurare che alcune essenziali indicazioni risultano dalle scritte nei piedistalli delle varie parti del monumento.

Si hanno dunque dapprima i due corpi avanzati dell'opera, cui è affidato principalmente l'effetto di asimmetria; a sinistra per chi guarda, “il senso panteistico della vita” emergente dalla poesia carducciana, ovvero l'Amore della natura. Successivamente questo primo nucleo si sarebbe precisato in tre figure: la Natura (distesa in bellissimo ramo di parabola, quasi valva aprentesi nel masso, e coinvolgente anche la figura del Poeta; mentre la statica figura del fauno, molto distanziata, fa quasi da contrappeso al dinamismo rotante degli altri due elementi, e dimostra di quali arditi decentramenti sia capace l'artista, all'interno del gruppo scultoreo; quegli ardimenti che invece, come si è detto, hanno solo un debole corrispettivo nel piano architettonico generale). A destra risponde, ma appunto in modo non simmetrico, il più imponente gruppo del Sauro destrier della canzone, (le sue misure finali saranno di m. 2,40 di altezza x 4 di base, con un peso di 300 q. di marmo), cavalcato dalla Libertà e retto, a destra e a sinistra, dalla Rima e dal Ritmo (ma il Bistolfi inizialmente parla genericamente di Grazie, mentre è caduta l'idea di farlo precedere dalla Giovinezza). Il baricentro dell'opera è ovviamente la figura del Poeta, non posta tuttavia al centro ideale-geometrico, ma arretrata verso il Trittico, quasi a rinforzarlo e a rinforzarsi a vicenda, perché l'assetto parietale di questo lo rende assai meno coinvolgente che non i due anticorpi, meno estesi materialmente, ma più densi.

Anche per il Trittico (misure finali: m. 2.60 di altezza x m. 12 di base, peso 500 q.) Bistolfi ha già le idee chiare nelle sue generalità: esso “deve rappresentare la sintesi dell'opera letteraria (del Carducci)”, “la parte sinistra dedicata all'opera giovanile; la parte centrale all'Ode Barbara, la terza alla canzone patria e agli ultimi canti”. Ed è già anche previsto che “le tre parti del trittico (siano) divise da due lesene leggermente più rilevate del fondo e su cui… intendo significare i caratteri morali che formano la base dell'opera carducciana: la Bontà ( poi, più precisamente, l'Amore, nella didascalia incisa nel piedistallo) e la Forza”. Già interamente definito è l'aneddoto centrale: il Poeta che afferra le Strofe “per l'ala a volo... si volge / ella e repugna”; unica circostanza in cui il Bistolfi per sua stessa ammissione, offre una specie di sceneggiato molto diretto dei versi del Poeta, mentre in tutti gli altri casi preferisce darci delle libere interpretazioni analogiche. Nel complesso, comunque, le indicazioni iniziali per il Trittico contenute nella relazione del 1909 appaiono le più ellittiche fra tutte, dato anche che si tratta, al contrario, della parte dell'opera più complessa e ricca, sul piano tematico se non su quello stilistico. All'atto conclusivo, l'intera sequenza del Trittico si articolerà in almeno una ventina di figure, opportunamente distribuite nelle tre categorie della tipologia stilistica bistolfiana; l'emersione quasi “a tutto tondo” dal non-finito del masso; la plasticità aggettante dell'altorilievo; lo “stiacciato” del bassorilievo. La sequenza di sinistra, o del periodo giovanile del poeta, comprenderà la figura inginocchiata dello “spirito italico che si desta alla voce della poesia classica”, citazione quasi letterale da qualche Prigione michelangiolesco, e nello stesso tempo prologo “fuori quadro”, realizzato quasi “a tutto tondo”, così come anche, all'estremo opposto, altre due figure tenderanno a uscir fuori dalla cornice e ad aggredire lo spazio con moto avvitato. La Poesia classica è un altorilievo molto stereotipato, quasi motivo ornamentale di gusto neo-classico per teatro, e già pienamente inserito nel riquadro, da cui invece tentano di evadere le “muse della collera e della rivoluzione”, l'una prendendo uno staffile, l'altra una torcia, e trascinando nel loro moto ascensionale “il popolo”. Nel loro insieme queste tre figure delineano una specie di nicchia sottostante ove frana con bel “la luce della tristezza” mentre subito dopo una figura successiva balza in piedi con incedere danzante o levitante “Primavera della musa e delle rime nuove”. Tra le due si incunea la figura greve del Giambo, mascherone grottesco sorpreso nell'atto di emettere un sibilo di protesta civile.

Dello scomparto di centro già si è detto mentre quello di destra è dominato, a un terzo della sua lunghezza dalla Canzone patria, che distende le braccia in gesto simmetrico, determinando due cavità, anche perché il movimento ascendente è ripreso al momento giusto, quando cioè rischia di farsi convergente, da quello complementare delle ali dell'aquila, che lo propaga in ritmo ondulatorio (come in basso fanno anche le pieghe della tunica, esasperate come le torsioni di una gigantesca conchiglia esotica). Nella cavità di destra sboccia in bassorilievo la Rinuncia, figura allegorica femminile recante la corona del regno d'Italia, che Carlo Alberto restituisce con l'abdicazione (“Dio rendi l'Italia / agli Italiani”). In quella di sinistra si appiattisce quasi una proiezione di “stiacciato” del quasi contemporaneo Monumento a Garibaldi di Savona, mentre in basso si distende in “scivolata” la figura di un eroe ferito, sostenuto da un altro, entrambi abbastanza aggettanti. Infine, quasi a simboleggiare il disagio dell'artista nell'attenersi al modulo parietale-rettangolare, si colloca “l'ascensione dell'idea divina”, cioè, come già si diceva, il ritmo avvitato di due corpi che si continuano, via via con slancio maggiore e più coraggio nel fuoriuscire, fino quasi a costituirsi in gruppo plastico autonomo.

La stessa essenzialità di indicazioni, lacunose sul piano del dettaglio, ma esaurienti su quello della concezione complessiva, che è riscontrabile nella relazione scritta, si trova anche nel bozzetto con cui l'artista la accompagnò. Considerato anche tenendo d'occhio lo stato finale dell'opera, si deve ammettere che i giochi di masse erano già stati interamente previsti, ma senza che fosse possibile “leggerli” in distesi termini iconografici; segno questo che il motivo tematico non condizionò troppo l'invenzione del Bistolfi, o che almeno questa precedette la determinazione dei vari aneddoti. Merita inoltre osservare che il bozzetto stesso è pure un buon indizio dell'aspirazione bistolfiana a una concezione plastica totale, infatti in quel caso gli è possibile modellare non soltanto le parti propriamente scultoree e architettoniche, ma anche il rilievo naturale e perfino gli alberi, a riprova che la massa di terra e di vegetazione entrava come parte costitutiva dell'opera; il sogno dell'autore sarebbe stato di poter modellare gli alberi e il leggero dosso così come poteva fare col gesso o col marmo. Naturalmente è comprensibile e giustificabile la perplessità degli amministratori, che videro il bozzetto prima in foto, e poi mandarono una commissione a visionarlo nello studio dell' artista. Era oggettivamente una realizzazione assai sommaria e generica, confrontata alla vastità, e all'importanza anche economico-finanziaria dell'impresa. Si fece portavoce del comune sconcerto Giuseppe Albini in un discorso che tenne in Consiglio comunale nel giugno del 1910 (Atti del Consiglio comunale); ma bisogna pur lodare il rispetto che finì per prevalere nei confronti della libertà dell' artista, il quale del resto aveva precisato che gli sarebbe stato troppo faticoso scendere a determinazioni più esplicite; tanto più che non rientrava nelle sue abitudini, e nelle sue doti, valersi dell'arma tipicamente progettuale del disegno. Bistolfi, fu infatti abbastanza raro e modesto disegnatore, preferendo appunto l'improvvisazione nella creta, a conferma di una visione fatta soprattutto di plasticità e dinamismo, mal riducibile ai valori di superficie.

Pare tuttavia che la coscienza professionale dell'artista lo portasse a dare al più presto uno sviluppo più disteso a quel primo “embrione” (come l'aveva chiamato l'Albini). Così il Thovez, nell'articolo del 14 aprile 1910, riferendo di una sua visita alla “Loggia”, dichiara che l'artista gli lumeggia l'intero progetto, oltre che colla parola, “coi bozzetti parziali in cui ha impresso la sua visione dei varii gruppi”. Invece l'Ambrosini, in un articolo uscito poco dopo, dà conto solo della visione del bozzetto embrionale, ma riporta una frase del Bistolfi, “Ho già fatto il bozzetto più in grande e ne sono soddisfatto”. Infine l'articolista del “Corriere della Sera” che si firma AC., circa un anno dopo, dichiara con una perentorietà che presuppone una conoscenza diretta, che l'artista “...ha finito l'altro dì di modellare il grande trittico”. Comunque, terminata questa prima sistemazione a livello di bozzetti, i lavori non dovettero procedere molto intensamente, a differenza di quanto avveniva nell'opera “gemella” del De Carolis; ma bisogna tener presente il diverso grado di ufficialità dei due artisti; il più anziano, che si poteva considerare già pienamente “arrivato”, doveva essere oberato di lavoro. Per quanto, si deve tener fede a una sua lettera posteriore del 2 dicembre 1921 alle autorità bolognesi, almeno il Gruppo della Libertà era già in esecuzione fin dal '15. Poi sopraggiunge l'interruzione della guerra, molto più lunga nel caso del Bistolfi che in quello del suo “omologo”. Poi ancora le solite difficoltà finanziarie; c'è da ricordare a questo proposito che la sottoscrizione pubblica, aperta negli anni '10, aveva dato un risultato piuttosto misero; del resto, fondi comunali e fondi privati, negli anni del dopoguerra, risultavano totalmente bruciati dall'inflazione; e anche in questo caso, come in quello del De Carolis, il Sindaco di Bologna, in data 14 novembre 1919, si rivolge alla Cassa di Risparmio per ottenere un mutuo di L. 280.000, che viene accordato il 30 marzo dell'anno successivo. Ma solo nel febbraio '24, si giunge a stipulare un nuovo contratto con l'artista, dal quale risulta che fino a quel momento nulla era ancora stato consegnato nella traduzione finale in marmo; nel tentativo di sollecitare i lavori viene fissato come termine ultimo di consegna dell'intero complesso la data molto improbabile della fine del '25.

Occorre però precisare che se alle soglie del '24 nulla era nelle mani del Comune di Bologna, molto invece era già stato fatto dall'artista, costretto del resto a tempi lunghi dalle complesse modalità tecniche di esecuzione, scaglionate in varie fasi, non sempre poste sotto suo controllo diretto. Un tardo “conto della spesa” inviato in data 30 marzo 1928 al Podestà di allora permette infatti di chiarire tali e numerosi passaggi, con i relativi oneri. Vi si parla di “operai puntatori per la messa a punto in grande del bozzetto”, di “aiutanti scultori per il compimento dei modelli originali”, nonché di spese per modelli e modelle in carne e ossa chiamati a posare. Vengono poi le spese di “formatura per inviare i calchi alla riproduzione in marmo”, operazione che a sua volta si suddivide nei due tempi della confezione delle forme madri e dei “getti”. Seguono le spese per la spedizione dei calchi a Carrara, e quindi per la loro traduzione in marmo, affidata, questa, allo scultore Giuseppe Niccoli e alle sue maestranze, con successiva e finale spedizione in casse a Bologna, che avviene man mano che i pezzi componenti i vari gruppi sono pronti. La squadra del Niccoli si assume anche il compito della messa in opera in loco. Come si può ben comprendere, viene da tutto ciò una girandola di date in cui non è facile raccapezzarsi. Risulta comunque abbastanza preciso l'ordine dei lavori, che vede al primo posto il Gruppo della libertà, già ultimato in studio nel '21 e subito inoltrato a Carrara, da cui partirà alla volta di Bologna, eseguito in marmo, nel luglio del '24.

Segue il Trittico, ovviamente la parte più laboriosa, sul cui conto oltretutto l'artista ebbe alcuni ripensamenti. Nel corso del '25 risulta che sono già a Carrara le Cariatidi e il primo pannello del Trittico, mentre il pannello di destra impegna ancora l'artista alla “Loggia” (dove d'altronde è costretto al riposo per qualche tempo da un disturbo agli occhi). In quello stesso anno licenzia la statua del Poeta, mentre dichiara di attendere al gruppo della Natura, ultima fatica. Puntualmente si ha notizia, l'anno dopo, della traduzione in marmo sia del Poeta, sia della prima delle due parti del Trittico, e della loro spedizione a Bologna. Infine, nel '27, anche il Gruppo della Natura è eseguito, assieme alla terza parte del Trittico. Frattanto si erano infittiti i viaggi di Bistolfi nel capoluogo emiliano, anche assieme all'architetto Mario Labò, per seguire i lavori di sistemazione delle parti architettoniche e di recinzione, che furono anche queste laboriose e richiesero lavori di consolidamento. L'inaugurazione ufficiale avvenne in forma solenne nel giugno del '28, alla presenza dei Sovrani.

Renato Barilli, Isabella Molinari

Testo tratto da: Il Liberty a Bologna e nell'Emilia Romagna, catalogo della mostra, GRAFIS, Bologna 1977. Trascrizione a cura di Lorena Barchetti