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Remigio Mirri

1 Ottobre 1867 - 18 Giugno 1946

Scheda

Remigio Mirri (Imola, 1 ottobre 1867- Imola, 18 giugno 1946), figlio dell'architetto Pietro, e nipote del generale Giuseppe Mirri, si laureò ingegnere civile nel 1893 e due anni dopo ottenne il diploma di architetto. Associò a una intensa attività professionale nel campo dell'architettura incarichi in altri ambiti: fu insegnante, poi direttore e infine presidente della Scuola d'arti e mestieri Francesco Alberghetti; diresse la fornace Galotti di Bologna portandola a un elevato livello produttivo grazie all'introduzione di nuovi procedimenti costruttivi; svolse attività di perito presso alcune famiglie imolesi e in particolare fu tecnico di fiducia dei conti Ginnasi; partecipò insieme ad altri notabili della borghesia cittadina alla costituzione di società cooperative e di società per azioni. Nel 1929 fu incaricato dal Comune di Imola di realizzare un progetto mirato alla sistemazione del centro cittadino, ma nel 1931 venne sollevato dall'incarico. Con disposizione testamentaria giunsero nel 1946 alla Biblioteca Comunale di Imola 122 libri e 72 incisioni, oltre a 93 disegni e progetti.

"Allorchè il Comune di Fontanelice volle onorare la memoria dell’architetto Giuseppe Mengoni, nel centenario della nascita, con l’erigere e l’intitolare al suo nome un nuovo edificio per le pubbliche scuole, diede incarico del progetto e dell’esecuzione all’architetto Remigio Mirri, che faceva già parte del Comitato Esecutivo per le onoranze: e l’edificio, cui lo scultore Barberi arricchì di un busto del commemorato, fu inaugurato il 28 ottobre 1930. Scelta più giusta, il Comune e, per esso, il Comitato non potevan fare. A parte la notorietà dell’architetto imolese, autore di molte e grandiose costruzioni nella città natale e nei comuni limitrofi, nessun altro architetto può dirsi non pure educato così a contatto con l’architettura mengoniana, ma anche partecipe con più istintiva adesione del suo gusto.

Giuseppe Mengoni fu una figura così rappresentativa di un momento, di un periodo della evoluzione dell’arte del costruire, che non par certo eccessivo attribuirle l’importanza dell’esempio, per i giovani d’allora. Il Mirri aveva appena compiuti i nove anni, allorquando si inaugurò, nel 1876 la Cassa di Risparmio di Bologna: ma quel palazzo, imponente come masa, prezioso di materiali, fu allora – e rimase ancora per molti anni – l’edificio principe, la costruzione vogliamo dire, di gran lunga la più significativa ed importante di quante fossero sorte in Bologna, nell’ultima metà del secolo. Tuttavia, allo stile di codesto palazzo, come ad alcunchè di già definito nello spirito di Giuseppe Mengoni, non si può pensare se non in dipendenza degli studii per la piazza del duomo di Milano, iniziatasi nell’anno della sua prima andata in quella città, nel 1862; e quindi dei progetti della Galleria Vittorio Emanuele II, che poterono dirsi compiuti, allorchè, il 7 marzo 1865, ne fu solennemente collocata la prima pietra. Evidentemente fu a Milano e nella Lombardia che il gusto del Mengoni ebbe modo di aderire prontamente ad una forma d’arte. Il Filarete, i Mantegazza, l’Amadeo segnano i limiti delle conoscenze che possono avergli detto alcunchè di edificante. Onde il suo ricordo stilistico non può prescindere da quel caratteristico fiore dello spirito nordico italiano, ch’è l’architettura lombardesca: mescolanza i rinascimento e di reminiscenze romanico -gotiche che ha le testimonianze maggiori nell’Ospedale di Milano, nella Certosa di Pavia e nella Cappella Colleoni a Bergamo: profusione di ornati, loggette, lunette, lesene e cornici usate non come elementi di pura ossatura e di funzione, ma come mezzo chiaroscurale. Il senso plastico, quindi, mescolato anche con gli effetti proprii della policromia dei marmi, dalle rare insistenze lineari, dalle masse tormentate, dallo sboccio della decorazione che vela la nitidezza delle cornici acquista alcunchè di estremamante mobile, vario, indefinito. Perfino il Bramante, uscito dal ceppo del classicismo quattrocentesco toscano, fiorito ad Urbino e raffinato a Firenze, non potè sottrarsi alla suggestione di quelli esempii; e pur rattenendo l’aerea leggerezza delle masse, moltiplicò le occasioni per complicati giochi di luce. L’architettura – aveva confessato il Mengoni in quella lettera d Emilio Treves del 25 maggio 1876, ch’è la base più sicura per ricostruire l’attività ed il temperamento dell’architetto, anche co’ dati errati che stranamente presenta, rivelati da Giulio Ricci nella sua monografia commemorativa – l’aveva studiata ‘viaggiando molto e visitando i monumenti dappertutto in Europa, ove eravi qualcosa da ammirare’. Ma occorre dir subito che ogni elemento appreso in tal modo si trasfuse e si confuse nell’atto di adesione all’arte nostrana, lombardesca, chè nulla, assolutamente, di forestiero potè serbare il suo senso architetonico. Similmente studiò all’Accademia bolognese di Belle Arti, ma nessun profitto sentì di vaer tratto da quei metodici studii di pura manualità, se è vero che, sapendo di dire falso, escluse, nella lettera ricordata, di essersi assiso ai banchi di quella scuola. (…)

Non pochi di siffatti aspetti del temperamento mengoniano – mi sono poco attardato a descriverli, unicamente per questo – riguardano direttamente anche l’educazione e il senso d’arte dell’architetto Mirri. Una delle sue prime esercitazioni d’impegno è una chiesa in stile lombardesco. Fu il saggio col quale conseguì il diploma di architetto nella scuola d’applicazione fra gli ingegneri di Bologna, nel 1895. E fra le sue prime costruzioni, negli anni 1898-1900, sono le chiese di Casalino, di Pozzuolo e di Visignano, condotte col medesimo stile, anzi, specialmente quella di Casalino, ricavate in parte dal suddetto progetto d’esame. Questa sorge su di un poggio prospiciente la via Montanara, che da Imola conduce in Toscana, circa all’altezza di Riviera. E’ una chiesa completamente in cotto, materiale di superbe tradizioni locali, che poteva ben sostituire il marmo degli esempi massimi mengoniani, trattato a due colori con l’aiuto dell’intonaco. E del resto, nelle stesse chiese della fine del Quattrocento e del Cinquecento lombardo, la decorazione e anche le parti di struttura in laterizio hanno larga parte. A quelle egli si attiene anche per la pianta, a croce greca, secondo i modelli bramanteschi, ricavando ingegnosamente, e con semplice mossa su gli angoli, quattro cappelle, che reggono anche le spinte laterali del tiburio ottagonale, sul transetto, poggiato, nell’interno, su quattro pilastri, Forse l’occhio, meglio che sulla facciata, ove son pure ben proporzionati gli spazii fra lo squadro della porta architravata in mezzo alle semicolonne, il tondo e la lunetta, ma assai abbondanti d’ornati, trova un senso di euritmico riposo osservando il fianco, ove le fascie verticali innervano gli spigoli, e, nel rendere le forme più nitide, le sveltiscono. (…)

Nell’ornato del Mengoni non poca parte ha la geometria: la quale talora è sentita come una zona di riposa in mezzo alla vegetazione floreale, talaltra come guida vera e propria alla regolare suddivisione dei partiti ornamentali. Osservando il pavimento marmoreo della cattedrale d’Imola, compiuto dal Mirri nel 1900, insieme col restauro generale dell’edificio, architettato dal Morelli (salvo la facciata ch’è dell’Antolini) più di un secolo prima, e colla sistemazione del piazzale prospiciente. (…) Nel complesso lavoro di trasformazione e di ampliamento del vasto ex convento delle Domenicane a Imola, cui attese nel 1902, ci sono indubbiamente accenni ad una osservazione più attenta dell’architettura bolognese del primo Cinquecento: a ciò spinto fors’anche dall’esempio del padre, Pietro, che aveva precedentemente adattato una parte sulla via Cavour a sede delle Scuole industriali ‘Francesco Alberghetti’. Il padre era un buon architetto, legato all’indirizzo eclettico romantico, con tarde sfumature neoclassiche. (…) Il Mirri, completando la facciata, conferendo all’interno l’ampio respiro di un porticato sulle quattro facciate del cortile, variando la fronte a settentrione, ha pur saputo togliere all’edificio un aspetto castigato e monotono, che sapeva di provincia. (…) Circa alla stessa epoca, appartiene la costruzione di una casa d’abitazione fuori porta Bologna, a Imola, in cui la sottigliezza degli aggetti delle cornici e dei timpani è bene in armonia con la dosatura dei vani delle finestre, piuttosto distanti e snelle. Qualche anno più tardi, precisamente fra il 1906e il 1908, il Mirri progetta ed esegue la vasta mole del Giardino d’Infanzia ‘Principe di Napoli’, in Imola, mostrandosi, nello studio della pianta, a conoscenza delle ultime sistemazioni necessarie a’ requisiti dell’igiene e della salubrità, ed altre applicandone di nuove; sì che tutto l’edificio gode di un sistema di lavaggi e di infilate d’aria, che fu di esempio a costruzioni posteriori del genere. (…) Nell’architettura del Mirri, è la natura stessa della fabbrica industriale che crea delle condizioni di ossatura ben diversa da quelle proprie dell’edificio civile; e tuttavia là troveremo la maggior vicinanza alle forme architettoniche odierne. Si guardi, ad esempio, il grande molino per cereali della Ditta Spagnoli e Padovani, di Ravenna, eretto nel 1912. Benchè sia tutto in cotto, le masse strutturali sono ordinate in modo da farci presentire lo schema delle armature del cemento armato. Ne’ meno interessante, a tale riguardo, è l’esame del piccolo edificio di carattere utilitario, eseguito a S. Prospero, una frazione dell’imolese, circa della stessa epoca del Molino ravennate. Nessun edificio del Mirri è così ricco di vani come questo: lo spesso delle pareti è ridotto, nella parte superiore, ai pilastrini divisorii delle finestre. L’architetto ha solo cercato che l’incontro de’ piedritti con le piattabande fosse reso più aggraziato da sporgenze ricurve che richiamano la funzione delle volute del capitello. Un’aerea ricorrenza di vani è pure nel nuovo cimitero del Comune di Dozza costruito nel 1914, e la profondità dell’effetto chiaroscurale serve per l’aspetto di gravità che deve richiamar l’occhio al fondo della mesta area circoscritta. Ma è pure un accenno classico che pare avere allontanato ogni ricordo floreale. Siffatto ricordo, nel palazzo nuovo delle R. Scuole industriali ‘Alberghetti’ in via Dante, a Imola, ritorna nell’attico, ove lo scultore Sarto ha rappresentato in bassorilievo ‘Le arti meccaniche’ e ‘Il lavoro’. Altri spunti possono vedersi nelle mensole complicate di sostegno del cornicione. Ma, nell’insieme, domina chiaramente la struttura che offre materia di applicazione ad uno spunto classico. (…) Anche qui la pianta è molto elaborata lungo due ali perpendicolari alla facciata – per tutti gli usi e le necessità dell’insegnamento, conosciute appuntino dal Mirri, che fu Direttore della Scuola dal 1893 al 1905 ed assertore fra i primi dell’insegnamento artistico industriale. Ora ne è presidente. A codesti elementi appurati nella loro convenienza didattica e dispositiva il Mirri ritorna nella costruzione dell’Orfanotrofio di S. Leonardo, in Bologna, inaugurato da S. E. il Prefetto il 28 ottobre 1931, ove peraltro ha saputo trovare un centro ottico più evidente nella facciata. L’ultimo lavoro cui il Mirri ha atteso, ricevendone l’incarico dal Comune di Imola nel 1930, è il progetto per il ‘centro d’Imola’. Non è nostro compito indagare le ragioni, per le quali tale progetto, che pur avrebbe coronato nella città natale la sua attività d’architetto, non potrà essere tradotto in realtà. (Rezio Buscaroli, testo tratto da 'L'Architetto Remigio Mirri' in 'Il Comune di Bologna', novembre 1932)