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Mingazzi | ferro battuto

1895 | 1980

Schede

Negli ultimi anni sono stati dedicati studi e ricerche che hanno messo in luce la qualità della produzione in ferro battuto di Mazzucotelli, Calligaris e Bellotto. Cui possiamo aggiungere Carlo Rizzarda, i faentini Matteucci o il più giovane Emilio Prazio. La figura bolognese di Sante Mingazzi, sebbene spesso citata nelle fonti, non ha ancora ricevuto la giusta attenzione e resta per molti aspetti tuttora sconosciuta.

Mingazzi nacque a Ravenna nel 1867. Le poche notizie pervenuteci raccontano di un bambino attratto fin dalla tenera età dall’arte di plasmare il ferro. Rimasto orfano, giunse nel 1890 a Bologna, dove risiedeva un suo familiare, Saturno Mingazzi (le fonti non ci hanno ancora svelato il grado di parentela), che con ogni probabilità lo introdusse nell’ambiente lavorativo della città. Saturno era un ingegnere che da lì a poco sarebbe divenuto noto in tutta Europa per un sistema di impalcature mobili, di sua invenzione, talmente all’avanguardia da poter essere considerato l’antesignano dei celebri tubi Innocenti. Nella capitale felsinea la lavorazione del ferro aveva un nome: Maccaferri. Fabbri da generazioni, come suggerisce lo stesso cognome, nel 1879 avevano fondato a Lavino la propria officina. Tra le principali personalità si ricordano Ermete Maccaferri, famoso per la realizzazione del chiosco in stile Liberty della ditta Buton all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 (suo anche il delicato orologio della Reale Grandine Compagnia Italiana di Assicurazione, sulla facciata della Palazzina Pepoli), e Pietro a cui si deve il cancello decorato con farfalle e melagrane, disegnato da Giuseppe de Col e presentato all’Esposizione delle Arti decorative di Torino del 1902. La produzione di Pietro si riconosce per il carattere piuttosto “massiccio” dei manufatti, con un tipo di lavorazione in cui prevale la fucinatura rispetto alla loro modellazione a freddo. Sotto di loro Mingazzi iniziò il suo apprendistato, perfezionandosi nella lavorazione artistica del ferro grazie alla quale cominciò a farsi un nome nel panorama locale. Se ne accorsero gli stessi Maccaferri che nel 1895 gli affidarono la conduzione di una nuova bottega in via San Vitale. Le forme delicatissime che Mingazzi riusciva ad ottenere raffiguranti petali, fiori e steli, “sì leggeri che parevano pronti ad animarsi al più leggero soffio”, attrassero l’attenzione di Alfonso Rubbiani che decise di commissionargli due torcieri con gigli per l’altare di sant’Antonio in San Francesco. Era il 1898. La zona di Bologna in cui sorgeva l’antico mercato di mezzo era in fermento, il primo piano regolatore di lì a poco ne avrebbe mutato definitivamente il volto con l’abbattimento delle fatiscenti case medievali sostituite da grandi e moderni edifici destinati ad attività commerciali. Alle soglie del nuovo secolo il futuro appariva roseo e ricco di possibilità. Ogni giorno l’Ufficio Edilità del Comune di Bologna riceveva da negozianti centinaia di richieste per aprire o modificare le vetrine delle proprie botteghe, pubblicizzarne l’attività attraverso tendoni e “mostrine”, illuminarne gli ingressi con lampade ora elettriche. Il 30 dicembre Carlo Maccaferri, proprietario dell’edificio progettato da Attilio Muggia (1896) in via Indipendenza 69, faceva richiesta per attaccare tre bracci con globo per illuminare l’ingresso del portico prospiciente il Caffè Teatro Eden (oggi Hotel I Portici). All’interno i ferri battuti e gli apparati illuminotecnici disegnati da Muggia furono affidati proprio al giovane Mingazzi, che per la prima volta si trovò impegnato in un’impresa di così vasta portata. La collaborazione con Muggia sarebbe proseguita negli anni successivi con la realizzazione di alcune cancellate per le tombe disegnate dall’architetto alla Certosa (Cappella Gancia, Cappella Cillario). Mentre le vie del centro si adornavano di insegne colorate, si inauguravano attività specializzate in promozione e réclame: era l’età d’oro della pubblicità. Il 26 maggio 1899 Edmondo Chappuis, proprietario della più innovativa officina litografica bolognese – per la quale lavorarono i più noti illustratori del tempo come Marcello Dudovich, immortalato con Mingazzi in una foto dell’archivio – richiedeva il permesso per affiggere al numero 17 di via Cartolerie la sua insegna. Il 31 marzo 1900 fu Alfonso Rubbiani a fare domanda per collocare “sulla facciata del deposito-vendita Aemilia Ars di via Ugo Bassi 21, chiusura e vetri sagomati con l’indicazione della ditta Aemilia Ars”. Anche per Mingazzi era giunto il tempo di fare il grande salto e mettersi in proprio. Sopra l’uscio della sua nuova bottega, situata al n. 28 di via Santo Stefano, l’insegna recitava: “Sante Mingazzi artefice più volte premiato per lavori in ferro”. In una città in cui il mercato era saldamente in mano ad un’unica famiglia, Mingazzi intuì che per essere competitivi occorreva ritagliarsi un proprio ambito specifico.

L’analisi delle oltre 500 lastre in vetro appartenenti all’archivio dell’officina Sante Mingazzi, donato alla Cassa di Risparmio nel 1985 da una delle figlie, Angela, ci permette di ricostruire l’attività di un artista altrimenti destinato all’oblio. Un amplissimo catalogo di manufatti dallo stile fortemente personale, riservati principalmente al mercato delle famiglie patrizie bolognesi, lo stesso a cui si rivolgeva la società Aemilia Ars, di cui Mingazzi fu uno dei primi e più celebrati collaboratori. L’introduzione di nuove modalità costruttive porta a una stretta collaborazione fra artisti di vari settori, dall’architetto al decoratore d’interni, dal fabbro all’ebanista, e a un sensibile incremento in tutta la penisola delle scuole professionali di Arti e Mestieri in cui questi artisti si formavano. Fra i più noti artisti-artigiani del ferro del periodo Art Nouveau, va ricordato per primo Alessandro Mazzucotelli. A Udine seguì le sue orme il più giovane Alberto Calligaris, il quale, durante la Grande Guerra, fu chiamato al fronte mentre moglie e figli si trasferirono a Bologna. È forse in questo contesto che Calligaris conobbe Mingazzi, come dimostrano due fotografie conservate nell’archivio di famiglia, inviate da Sante ad Alberto in ricordo della loro amicizia. Non è un caso se esuberanti tralci di rose, riecheggianti esemplari dell’artista friulano, cominciarono a inserirsi nell’apparato decorativo di alcune creazioni del nostro che certamente si teneva aggiornato sulla produzione dei più noti maestri attraverso riviste come “Emporium”, “Le Arti decorative e industriali”, “L’artista moderno”, “Per l’arte”, su cui egli stesso pubblicò diverse opere. Anche un altro grande interprete del ferro frequentò Mingazzi a Bologna durante la guerra: Umberto Bellotto, qui sfollato insieme alla famiglia, celebre soprattutto per il connubio di ferro e vetro che brevettò insieme al pittore Cesare Laurenti, e che lo stesso Mingazzi adottò per alcuni dei suoi lumi da tavolo. A riprova dell’affetto e della stima che legò i due, nell'archivio fotografico delle Collezioni Fondazione CaRisBo esiste una poesia che Bellotto scrisse per la figlia di Mingazzi, Angela, che così recita: Angelina Mingazzi Fia del Santo quelo che bate il fero come incanto, quelo che sa fa dei fiori che par veri, quello che lampade fa, che fa doppieri, pestei, farai tutto quel che vol, quel che a Bologna: “Re del ferro Xe”.

Il 31 gennaio 1899 la Società Aemilia Ars, “protettrice di arti e industrie decorative nella regione emiliana”, promulgava il famoso bando composto da “24 concorsi a premio”, che vedeva, nei fatti, la nascita della società medesima. Ben 8 fra questi riguardano la lavorazione del ferro. Si richiedono progetti per pomelli, maniglie, toppe, letti, culle, portalumi, lumiere a sospensione, bastoni reggitende, parafuoco per stufe e custodie copricaloriferi le cui forme si ispirino al mondo vegetale, in conformità alle nuove tendenze europee. Leggendo alcuni dei regolamenti sembra quasi di sentire la descrizione delle creazioni del Mingazzi. Era evidentemente l’uomo giusto al momento giusto: si aggiudicò ben due premi e iniziò così la fruttuosa collaborazione con la famosa art & crafts bolognese. A quello stesso anno risale l’esecuzione di una delle sue più note realizzazioni: la lampada a corona, su disegno di Achille Casanova, per la Cappella votiva per la pace dei popoli, nella basilica di San Francesco così celebrata sulle pagine del “Resto del Carlino” da una fantomatica Damigella Povertà, pseudonimo sotto il quale si cela forse lo stesso Rubbiani: Chi non ha visto, là in alto, sotto le volte d’azzurro stellato, di sopra le siepi d’oro dei cancelli (…) davan ti l’altare sacro alla pace dei popoli la lampada votiva sospesa ieri in San Francesco, non ha visto una piccola meraviglia (…) Tubalcain è il nome che ha il mio amico nello studio di S. Francesco; al secolo si chiama Sante Mingazzi, ed ha la sua bottega là presso la vecchia basilica di S. Stefano (…) In verità codesta lampada, in ferrobattuto, è molto più che un ordegno di ferro. Pensata in un silenzio delle cose da un piccolo ammiratore di Tolstoi, pazientemente disegnata da un altro amico mio, il Casanova, essa vuol essere un poema, e lo è. [firmato] Damigella Povertà

Dotato di una innata vocazione imprenditoriale, Mingazzi appronta un metodo di lavoro altamente vantaggioso basato sulla capacità di differenziare e moltiplicare la produzione. Basta scorrere le fotografie per capire come utilizzando pochi elementi decorativi in voga all’epoca, quali iris, rose, gigli, anemoni, foglie di quercia o di vite, egli sapesse declinarli in maniera sempre nuova ed originale, rendendo ogni oggetto una vera e propria opera d’arte. I materiali grafici giunti sino a noi raccontano di un metodo di lavoro che doveva essere consueto nell’officina: un disegno originale, in molti casi realizzato da un artista esterno (Tartarini, Rubbiani, Casanova, Sezanne, Collamarini), veniva utilizzato come modello per trarne sagome in ferro battuto poi assemblate fino ad ottenere il manufatto finito. La grande varietà di esemplari composti da medesimi elementi indica come tutto il lavoro di forgiatura e curvatura delle parti strutturali dell’oggetto fosse frutto della maestria di Mingazzi e della sua capacità d’improvvisare in corso d’opera. Come scrive Mario Bianconi, nella sua autobiografia: "i fiori di Mingazzi si differenziavano da quanti mai vidi fatti da altri. La sua martellata era inconfondibile al pari d’una firma, come i suoi modelli. La rosa di Mingazzi io saprei distinguerla fra venti altre. Scomporre un fiore in natura e sintetizzarlo nel ferro fu una sua particolarità che io non vidi mai resa più semplice e perfetta. Un giorno portò in bottega un fiore esotico difficilissimo a riprodurre. Mingazzi lo scompose; ci pensò sopra poi lo ritrasse nel ferro in modo perfetto senza che fosse affatto uguale: era un fiore di Mingazzi!" La necessità di conservare questo standard qualitativo fece sì che Mingazzi non riuscisse mai ad ampliare la bottega, mantenendo sempre un numero ridotto di operai. Chi lo conobbe lo ricorda severo e inflessibile. Si dice che avesse posto uno specchio di fronte alla sua incudine per controllare i giovani lavoranti anche di spalle, in ogni momento della giornata. Per Bianconi, Mingazzi era “tremendo”. “Mi trattava con asprezza – scrive – Quando mi passava vicino diceva di sentire il puzzo di fiacca. E io sudavo tutto il giorno, oltre che per la fatica, per la soggezione che sentivo del lavoro e di lui”. Una vita votata alla professione nella quale rientra la sua riconosciuta abilità imprenditoriale, come si evince dal modo con cui sapeva promuovere i suoi prodotti attraverso la pubblicità e la stampa. Leggenda vuole che nelle serate al Teatro del Corso, posto di fronte alla sua bottega, egli tenesse aperto per permettere al pubblico di vedere le sue creazioni. Un intuito che lo portò a capire, prima di altri, l’enorme potenziale propagandistico insito nel mezzo fotografico, nell’ottica di quella che sarebbe diventata la comunicazione di massa. Il fondo in nostro possesso non è altro che il catalogo che egli usava per mostrare i propri prodotti ai clienti, un vero e proprio campionario per immagini, realizzato nel corso degli anni da fotografi professionisti che immortalavano i prodotti allestendo la scena come fossero ritratti di persone, una pratica dispendiosa ma lungimirante che ci restituisce un personaggio in possesso di un grado di consapevolezza, di sé e del proprio lavoro, fuori dal comune. La già ricordata capacità di declinare uno stesso motivo in diverse varianti è evidente nel caso dei bellissimi portabiciclette, non pensabili se non richiamando le volute in ferro realizzate da Victor Horta a Bruxelles. Siamo ai primi del XX secolo, quando la passione per le due ruote contagia i bolognesi. Già nel 1886 si era tenuta nell’anello della Montagnola la prima gara internazionale di velocipedi e in seguito a quell’evento nella vicina piazza VIII Agosto erano state aperte alcune botteghe di noleggiatori. Col diffondersi della nuova moda cominciarono anche i furti dei velocipedi lasciati incautamente appoggiati ai muri dai loro proprietari, tanto che nel 1903, come risulta da un documento presso l’Archivio Storico del Comune, tal Enrico Bergonzoni si offriva di realizzare a proprie spese delle “nuove custodie per biciclette” da collocare in città. È in questo momento che Mingazzi fiuta probabilmente l’affare progettando questi raffinatissimi oggetti le cui forme ricurve, culminanti in splendidi fiori, niente hanno da invidiare al famoso coup de fouet Art Nouveau.

Quando nel 1904 l’Aemilia Ars chiude, Mingazzi, che aveva impreziosito coi suoi ferri le principali esposizioni della società (Torino 1902, Venezia 1903, Milano 1906), era ormai un artigiano affermato, anche fuori dai confini locali: commissioni provenivano dai principi Torlonia di Roma, dal principe tedesco Bernhard Von Bülow, dal Grande Teatro di Alessandria d’Egitto. Nel 1900, colpito dall’assassinio di re Umberto di Savoia, forgiò i due portaceri disegnati da Alfredo Tartarini con motto di Rubbiani: “Umb. Reg. Pax” collocati al Pantheon l’anno dopo, come ricorda una cartolina che Mingazzi si premura di stampare. Al 1903 risale la tiara donata dalla diocesi di Bologna a papa Leone XIII in occasione dei suoi 25 anni di pontificato. Negli stessi anni Mingazzi cominciava a collaborare coi principali architetti e ingegneri del movimento Liberty in Emilia, come Arturo Prati (per cui realizza i lampadari per il teatro di San Felice sul Panaro e per l’altare del duomo di Modena) e Paolo Sironi. Tra il 1904 e il 1915 si datano a nostro avviso la maggior parte delle cancellate e degli arredi funebri destinati alle tombe della Certosa. Tra queste ricordiamo la cancellata con sinuose foglie di oleandro per la tomba di Carlo Massarenti e quella della Cappella Rizzi la cui decorazione complessiva, opera del giovane Roberto Franzoni, rimane una delle vette più alte del Liberty bolognese. Agli stessi anni va fatta risalire anche la famosa pensilina retta da due mensoloni con intrecci di grappoli d’uva e melagrane, per la pasticceria Rovinazzi, in via d’Azeglio 34, oltre ai ferri per il sotterraneo della Cassa di Risparmio su disegno di Augusto Peli. Nel 1911 Mingazzi realizza i lampadari per la Sala Bologna all’Esposizione di Roma e nel ’15 quelli per la profumeria Ferdinando Goselli, progettata da Sironi nel nuovo palazzo Ronzani, all’angolo tra via Rizzoli e Piazza Maggiore. Ancor oggi in loco, spiccano per il celebre motivo dei due pavoni attorno alla fontana, ideato da Achille Casanova per un merletto dell’Aemilia Ars, ripreso in quell’occasione da Giorgio Ramponi.

Nel 1912, il coronamento di una carriera: fu infatti insignito, dal ministro Francesco Saverio Nitti, della croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Nella nuova insegna, prontamente forgiata, si leggeva un lapidario: “Cav. Sante Mingazzi Lavorazione del ferro battuto”. Oggi è esposta al Museo d’Arte Industriale Davia Bargellini. Morì nel 1922, ancora relativamente giovane. Ma la bottega non chiuse: fu condotta prima da Emilio Prazio e dal ’24 direttamente dalle due figlie che la gestirono fino al 1980. Negli anni successivi, al fine di salvaguardare la memoria del padre, Angela procedette con le donazioni: l’archivio fotografico alla Cassa di Risparmio e alcuni manufatti, tra cui l’insegna di cui sopra, al museo Davia Bargellini. Nel 1982 il Comune di Bologna, accogliendo una proposta del Comitato per Bologna Storica e Artistica, decideva di rendere omaggio a Mingazzi intitolandogli una rotonda in zona Roveri, giustamente tra via del Fonditore e via del Fresatore. Dall’officina di Sante uscì anche un altro valente fabbro, Antonio Prata, il cui nipote Pierluigi, in questo stesso momento, nella sua bottega di via Caldarese in pieno centro storico, continua a forgiare, a colpi di martello, morbidi petali di rose brunite, tenendo alto e vivo il sapere di una tradizione secolare che ha disseminato la città di raffinati oggetti, solidi e silenziosi, che ancora oggi sono lì ad adornare un angolo di strada, la facciata di un palazzo, la vetrina di un negozio.

Benedetta Basevi, Mirko Nottoli

Testo tratto da Leggero come il ferro - L’arte di Sante Mingazzi nell’archivio fotografico delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Bononia University Press, 2015