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"L'ultima del Passatore"

1855

Schede

Molti medicinesi, soprattutto quelli ora in età matura, dopo aver combinato qualche marachella, da bambini si saranno sentiti dire da chi li scopriva: “Te fàt l’ùltma dal pasadàur”, come dire: “ah.. ti ho scoperto!... Adesso facciamo i conti!”. Questa frase, detta in maniera ironica, (ma non sempre) faceva presupporre una punizione che stava per arrivare; oppure veniva usata per descrivere una situazione che andava a risolversi a sfavore di qualcuno, (ad esempio nel gioco delle carte), cioè di quello che proprio con quella mossa aveva fatto l’ultima e veniva così beffato. Si potrebbero fare altri esempi circa l’uso ironico o sarcastico della frase, ma direi che ci siamo già capiti.

Nel corso degli anni, mi è capitato più volte di sentirla pronunciare e quando ho chiesto quale significato avesse, mi è stato sempre risposto che era riferita ad un “fatto” commesso dal brigante Stefano Pelloni detto appunto il Passatore e dal suo complice Lazzarino lungo la via San Vitale, appena fuori dall’abitato di Fossatone. Lì il Passatore e Lazzarino avrebbero ammazzato un non meglio specificato “francese”, per poi fuggire e fare ritorno in Romagna dove, di lì a poco, il Passatore venne ucciso; da qui appunto il detto l’ultima del passatore. Nel punto in cui avvenne il fatto, circa un km oltre Fossatone in direzione di Bologna, all’interno della recinzione di una casa colonica, nel mezzo di un roseto vi è tutt’ora una vecchia croce di legno posta a cristiana memoria in ricordo della vittima. Da adolescente, passando davanti a quella croce, mi è stata più volte indicata come il posto in cui “al pasadàur al mazè al franzàiz” cioè il Passatore ammazzò il francese. Qualcuno indicava il francese come la vittima di una rapina finita male, mentre qualcun altro riteneva fosse anch’esso un membro della banda eliminato per qualche motivo dai suoi stessi complici. Negli anni, incuriosito dalle tanto decantate imprese del Passator cortese, ho voluto documentarmi in materia avendo conferma che Stefano Pelloni nulla aveva a che fare con la cortesia, ed altro non era che un volgare ladro ed assassino vittima solamente di se stesso e della sua triste natura... ma questa è un’altra storia. Tornando a noi dicevo che, in un libro di Francesco Serantini, mi è capitato di trovare un paragrafo in cui si accennava al fatto di Fossatone fissando l'evento alla data del 10 giugno 1855, quindi ben oltre quattro anni dopo la morte del Passatore, ucciso in uno scontro a fuoco con i Gendarmi Pontifici il 23 marzo 1851. Il fatto, realmente avvenuto il 10 giugno 1855, viene dettagliatamente riportato in altra opera, ben documentata dagli atti giudiziari dell’epoca, dal titolo “Facinorosi Pontifici”. La cronaca, tratta dalla relazione degli inquirenti presente negli atti processuali, viene così riassunta in tutta la sua drammaticità.

Dopo una serie di rapine commesse tra la Romagna, Monterenzio e Budrio i banditi Giuseppe Afflitti detto Lazzarino, nato a Cantalupo di Imola ed epigono del Passatore, Valentino Bignami detto Cunino di Budrio e Antonio Tampieri detto Pacalite di Imola, a bordo di un ‘biroccino’ percorrevano la strada che da Medicina porta a Bologna, seguiti a breve distanza da altri due mezzi con a bordo alcuni loro complici. Oltrepassato il ‘ponte di Sabbionara’, superarono una carrozza proveniente da Ravenna e diretta a Bologna con a bordo la baronessa Melania Burlon De Sarty, suo figlio Alberto venticinquenne, anch’esso barone De Sarty, cittadini francesi e tale Serafino Filoni, tutti occasionali viaggiatori. Una volta superata la carrozza, i tre le sbarrarono la strada e mentre uno di loro fermava e tratteneva i cavalli, Pacalite si dirigeva di corsa alla porta del mezzo dove, puntando la ‘schioppa’ all’interno si apprestava a rapinare i passeggeri. Contemporaneamente giungevano gli altri due calessi con a bordo Enrico Casadio detto Pasottino, Attilio Casadio detto Tiglino, Federico Caravita detto Federone, Innocenzo Fiorentini detto Passanti e Tommaso Folli detto Gagliazzino, come detto tutti appartenenti alla stessa banda. Il giovane Alberto De Sarty, che in quel momento stava dormendo, risvegliato dalle urla della madre e resosi conto di quello che stava succedendo, scese dalla parte opposta a quella in cui si trovava il bandito andandogli incontro per tentare una reazione. Immediatamente Pacalite gli sparò una fucilata al petto freddandolo all’istante. La madre del ragazzo, ‘resa furibonda da quella orribile vista’, si scagliò contro il primo bandito che aveva davanti e ‘avvinghiandosi a lui e seco lui colluttando con la forza che la disperazione le dava, lo trascinava nella fossa laterale’ finché, ‘accorsi gli altri ribaldi e datale barbaramente una percossa al capo’, la costringevano a lasciare il loro compagno. Fatto ciò i briganti frugarono i presenti, morto compreso, rapinandoli di denaro, gioielli e bagaglio; rapinando inoltre tale Luigi Bonora che sventuratamente si trovava a passare, portandogli via anche il calesse.

L’evento, per la posizione ed il casato delle vittime, ebbe eco internazionale e fu ripreso dalle gazzette di tutta Europa. Per un certo periodo i banditi restarono nascosti in una casa nelle campagne di Bubano e successivamente nei pressi di Castel Bolognese per poi trasferirsi in montagna, in quel territorio chiamato “Romagna Toscana”, cioè Castrocaro, Dovadola, Modigliana ecc. allora effettivamente sotto il Granducato di Toscana. Tutti i banditi protagonisti di quella rapina pagarono il debito con la Giustizia; alcuni finirono uccisi in conflitti a fuoco con la Forza e gli altri arrestati e fucilati. Questa la cronaca, tratta come detto, dai documenti giudiziari dell’epoca. Devo dire che i Tribunali Pontifici, seppur con tutte le contraddizioni di quel periodo storico, garantivano sempre la ‘certezza della pena’. Quando già ero documentato sul fatto, mi è capitato un paio di volte di trovarmi coinvolto in discussioni in cui il mio interlocutore non voleva sentire ragione e sosteneva con forza che il francese era stato ammazzato da Lazzarino e dal Passatore in quanto: “Mi nòna la ma sempàr cuntè acsè”. Credo che i motivi per cui è nata questa leggenda siano abbastanza intuibili.

Nel tramandarsi la storia i medicinesi, stante la presenza di Lazzarino già componente di spicco della banda del Passatore, credo abbiano per vanagloria considerato anche la presenza del Pelloni stesso, la cui fama già allora era ben nota e credo che in fondo sia giusto così, del resto in tutto il mondo ci sono leggende che si tramandano per tradizione popolare e noi medicinesi, proprio grazie ad una di queste, ne abbiamo ricavato la festa più importante del paese. Ad onor del vero devo però ammettere che non tutti quelli a conoscenza del fatto indicavano il Pelloni come autore dell’omicidio; i più informati l’attribuivano a Lazzarino senza scomodare il più famoso Passatore. Devo altresì ammettere che quel modo di dire, cioè l’ùltma dal pasadàur, è andato scomparendo, quasi come il nostro dialetto e con quello tante storie e tradizioni proprie del nostro paese. Vorrei però spendere due parole su Lazzarino, che di tutti i briganti romagnoli dell’Ottocento fu l’unico che per audacia e capacità criminale eguagliò, se non addirittura superò, il Passatore senza però conquistare la sua fama. A capo di una banda che comprendeva dai quattro agli otto briganti, più volte agì nei pressi di Medicina commettendo una serie di furti e rapine alla Riccardina, a Budrio, a Vigorso, a Castel San Pietro, a Poggio e alla Gaiana, a Castel Guelfo e il 1º ottobre 1854 sempre al Fossatone di Medicina. Giuseppe Afflitti detto Lazzarino (Lazarén) era nato in parrocchia di Cantalupo, comune di Imola e dal 1849 si aggregò alla banda del Passatore con la quale partecipò ‘con brutale ferocia e sfrontata temerità’ a tutti i peggiori misfatti commessi da quella combriccola come le invasioni dei paesi di Brisighella, Longiano, Consandolo, Forlimpopoli e Portomaggiore, oltre ovviamente a innumerevoli rapine ed omicidi commessi tra Emilia Romagna e Toscana. Nel 1855 arrivò ad avere una taglia di 3.000 ‘scudi romani’, somma che solo il Passatore poteva vantare di aver raggiunto.

L’11 gennaio 1857 fu arrestato dalla gendarmeria toscana al podere Alpicello comune di Santa Sofia ed estradato nello Stato Pontificio dove, con la sua totale confessione, fece luce su tutti i reati commessi da lui e dai suoi complici. All’alba dell’8 maggio 1857, a 37 anni, Giuseppe Afflitti fu fucilato a Bologna nel terrapieno interno alle mura tra le porte San Felice e Sant’Isaia assieme al suo correo Valentino Bignami. 

Paolo Landi

Testo tratto da "Brodo di serpe - Miscellanea di cose medicinesi", Associazione Pro Loco Medicina, n. 15, dicembre 2017.