L'esilio di Isabella Colbran

L'esilio di Isabella Colbran

1837-1845

Scheda

Ho visitato il luogo, in questi giorni, quasi per caso, condottovi da un amico cortese il quale volle farmi la sorpresa di portarmi su di una sontuosa automobile – la sua, naturalmente – alla lontana, dimenticata e deserta villa di Castenaso che fu il nido d'amore e l'amarissimo esilio della prima moglie di Gioacchino Rossini. Il luogo è veramente bello; un rifugio da innamorati con tutte le delizie del recondito silenzio agreste: un gran parco di alberi secolari, un laghetto tra l'ombre discrete, una villa settecentesca con due terrazze laterali che guarda, per la distesa dei campi, lontano, fino alla cerchia delle colline che cingono Bologna. Vi si giunge tra il portento di una campagna doviziosa di messi sotto il sole trionfale, ma alla svoltata dello stradone che va da Castenaso a San Lazzaro, dritto e lungo a perdita d'occhio, si resta un po' sorpresi tanto il viottolo che conduce alla villa è disadorno. Ci si immagina di vedere, di lì a poco, una piccola casa di campagna; invece, davanti al cancello lo sguardo è rapito dalla magnificenza del sito. La villa grandeggia maestosa in fondo e il bosco la incorona. A far da capanna al loro cuore innamorato i due sposi s'erano scelti una piccola reggia, illusi, forse, nel primo impeto della passione travolgente, di dovervi vivere tutta la vita. Il tempo, almeno, prova, che essi erano nati apposta per vivere l'uno lontano dall'altra. 

La storia del primo matrimonio di Rossini è una specie di romanzo intercalato da episodi rivelatori di miserie poco edificanti; ma bisogna pur dire che anche il secondo non fu dei più esemplari: almeno per quel che riguarda il carattere della signora Pelissier. L'autore del Barbiere di Siviglia non conosceva la donna. Sentimentale (anche lui?!) come tutti gli artisti e buon goditore della vita si lasciava incantare dalla bellezza, più che dalle doti morali delle sue innamorate. Un bel seno, due bei fianchi e un bel paio d'occhi, lo mandavano in visibilio, ed egli si gettava nella avventurosa via della felicità amorosa, goloso di ogni gioia e schiavo involontario dei suoi inganni. Il fondo cinico della natura di lui è una leggenda che nessun biografo s'è mai sforzato di distruggere. Fu scambiato per cinismo l'egoismo fisico di quest'uomo che non stimava nulla al mondo più del godere in tranquillità doviziosa quanta più gioia può dare la vita: e l'arte gli forniva, per allettamento, il superfluo aureolato di gloria. Rossini era anche lui, alla maniera sua propria, un fantastico. Possedeva una sensibilità raffinata e sapiente e tanto ne abusò, lui gabellato da certi storici per un sibarita senza cuore, che a Parigi, dove era scappato dopo la sciagurata avventura del Generale tedesco capitatagli qui a Bologna proprio come una tegola sul capo, finì con l'ammalarsi di nevrosi, di cui guarì a stento. Amava le donne e le subiva; e quelle tra le tante, che egli sposò, furono due guai autentici. La Pelissier, con la quale a Parigi il maestro tradiva la moglie insopportabile, era avara e dispotica, una egoista talmente fredda e cattiva che un cronista bolognese, attribuendole la colpa di molte brutte figure fatte dal maestro, non si peritò di chiamarla “vilissima.” La Colbran aveva difetti di natura opposti e però meno odiosi che quelli. Intanto era bella: alta, formosa, bruna, come la spagnola di razza pura, e due occhi quali di rado madre natura concede in dono alle sue creature preferite – sono anche queste parole di un cronista ammiratore, senza dubbio, dell'arte e della grazia di Isabella – ma gli impeti del suo sangue ed il fervore della gioventù ella guastava con una prodigalità irragionevole, una boria superata soltanto dal perenne desiderio di fasto e di grandezza. Viveva nella realtà quotidiana come sulla scena e quando le mancava il pubblico dei plaudenti in platea aveva bisogno di una coorte di ammiratori in casa propria. Il nome che ella portava, la gloria del marito, l'amore dei lui, non le bastavano. Era una donna incontentabile. Possedeva il talento delle dissipatrici, che, più hanno, più inventano favole e capricci per spendere ancor più e subordinando tutto a questa loro mania insoddisfatta di lusso, di gioie, di vanità, stancano a lungo andare anche l'innamorato più devoto e più disposto alla condiscendenza. In questo errore cadde la Colbran ubbidendo ciecamente all'istinto invincibile della sua femminilità calda di sensi e di fantasia, viziata dalla scena e, da principio, anche dal marito arrendevole. 

Quando un uomo è innamorato e, come tale, subisce il fascino della donna amata, tutti gli eccessi si spiegano, ma alla fine sono sempre dolori perché, o finiscono i denari o si comincia a dosare la volontà di spenderli.  Rossini, per non andare in malora, s'attenne alla dosatura dei rifornimenti. E non per mero calcolo. Tra festini, banchetti e signorili baldorie ci si trovava bene anche lui, e il fatto che avesse comprata la villa di Castenaso, con l'annessa tenuta, dice che sapeva anche lui essere gran signore o prova come il suo danaro sapesse spenderlo bene. Spenderlo, sissignori; non buttarlo via! E poi, tutto, nella corte di nobili spasimanti, di scrocconi e di clienti, finì col venirgli a noia. Ma prima che a lui, non solo a noia, ma venne a dispetto il disordine scialacquatorio di Isabella, al padre del maestro, Giuseppe Rossini, il quale dovette brontolare e incitare non poco perché lo sperpero si tramutasse in una giudiziosa amministrazione della casa, del patrimonio e della tranquillità domestica. Il maestro, a poco a poco, si lasciò condurre dal carattere e dai consigli ad una ripresa di vita più ragionevole; però tra il dire e il fare c'era di mezzo una questione suprema, proprio la tranquillità domestica e la pace con la moglie. La quale moglie non era donna da rinunzie. Il buon senso non sta di casa in un animo nato alla grandezza e ci si accomoda male con l'ambizione di una cantante abituata ai favori della folla ed alle cortigianerie degli adoratori. Infatti furono rimbrotti, musi lunghi, bizze, gelosie, rabbuffi e liti furentissime. Infine Rossini se ne andò a Parigi, prima di tutto per mettere tregua a tanta irrequietudine, poi per provvedere al recupero della pensione che il nuovo Governo di Francia, regnando Luigi Filippo, gli aveva tolta inopinatamente. 

La Colbran rimase a Bologna sotto la tutela amministrativa del suocero, e la rottura totale tra moglie e marito trovò nella lontananza, per entrambi, l'ultima cagione. A parigi Rossini si innamorò di Olimpia Pelissier; a Bologna la Colbran, continuando a vivere peggio di prima, offrì al consorte la giustificazione bastevole all'intervento di un notaro per legalizzare uno stato di fatto irreparabile. Se tra suocero e nuora, presente il marito, i rapporti erano stati cattivi, via il marito diventarono pessimi. Le lettere che Giuseppe Rossini scriveva al figliolo traboccavano di collera e sono costellate di ingiurie contro Isabella. Tra le lettere ve n'è una che reca questo brano – documento psicologico che basta da solo a spiegare la catastrofe nelle sue cause iniziali e concomitanti – : “Voi conoscete – dice – più di me il naturale della vostra signora; essa è tutta grandezza nel suo pensare, io sono piccolissimo nel mio, ad essa piace scialacquare e far godere la mia tranquillità.” Il quieto vivere era dunque aspirazione suprema in casa Rossini e il padre, dotato di modesto ingegno e di tendenze parsimoniose, tutto quello spendere stima tanto odioso e tanto folle, che, mutato il rancore in odio ed il brontolio inutile in collera, per illuminare il figlio sulla condotta della moglie, non risparmia più gli epiteti ed accusa senz'altro Isabella di essere, non solo superba e dispendiosa, ma anche infame. La madre del maestro è morta? Isabella l'ha fatta crepare di dolore e, dice sempre il vecchio "desso vorrebbe far crepare anche me” facendo cose “che non si fanno in Turchia.”

Nel frattempo Rossini, a Parigi, ha avuto modo di innamorarsi, di convivere maritalmente con la Pelissier, di disgustarsi dei francesi e di decidersi a tornare a Bologna. Come intendesse la sua amante questo ritorno, le cronache non dicono; in ogni modo, volente o nolente, ella segue il suo uomo; come si contenesse la Colbran si sa benissimo. E ce n'è d'avanzo per farne i più svariati commenti. La presenza dei due amanti a Bologna, nel palazzo di via Mazzini, stuzzicò la passione non sopita, generò dispetto e desiderio di vendetta, ma l'astuzia e la fierezza suggerirono alla spagnola il più garbato e rischioso dei giochi. Far la parte dell'abbandonata dolente in faccia al mondo, al marito ed alla rivale, ella non volle. S'attenne quindi al partito più originale ed elegante: volle diventare l'amica della Pelissier e ci riuscì, almeno nelle apparenze, in modo così perfetto che lo stesso Rossini ne rimase stupito. Ma se ne stupirono anche i buoni bolognesi e non furono scarse le mormorazioni. Non contenta di avere ospitata la Pelissier nel ritiro di Castenaso, di accettare il ricambio, inviti al palazzo di città, la Colbran spinse l'audacia fino a farsi vedere in pubblico coi due adulteri; e quel “menage a trois” proprio nel tempo in cui si svolgevano le pratiche per la separazione legale, mise in imbarazzo Rossini, il quale non poteva persuadersi che sua moglie facesse proprio sul serio. Le cose, secondo il disegno di Isabella, andarono tanto bene che tutti furono costretti a piegarsi alle cortesie di lei, persino il vecchio Giuseppe con i suoi scrupoli e la sua irriducibile ostilità verso la nuora. Tutto andava bene perchè tutto doveva in breve tempo sistemarsi in modo che alla dissipatrice non sarebbe restato più nulla da fare in casa Rossini. Infatti, firmato l'atto di separazione nel settembre del 1837, Isabella si allontanò per sempre e si ridusse a vivere, sola, coi ricordi del suo amore a Castenaso, nella villa che il marito, con un ultimo tratto di generosità, le aveva donata, aggiungendo alla rendita della tenuta un assegno mensile.

Quanti sospiri, quante lacrime versarono gli occhi neri della bella Didone! Ormai convinta non le restasse altro che rassegnarsi a tramontare melanconicamente in quell'esilio tanto penoso dopo tante gioie ivi godute in pieno tripudio di giovinezza. Resistette otto anni, così, illanguidendo giorno per giorno, lottando disperatamente contro il destino che la scherniva con tanta crudeltà dopo averla ricolma di onori e lusingata con le più inebrianti promesse del cuore. L'esilio, vissuto al mondo di una castalda in vedovanza forzata, mentre il marito dava ad un'altra il fiore della maturità e della ricchezza sua gloriosa, fu per lei crudele castigo agli errori commessi ed alla superba intemperanza del carattere; tanto che ne morì. Ma prima di lasciare per sempre la vita Isabella Colbran volle rivedere Gioacchino Rossini. L'amava ancora; l'amava sempre. Rossini avvertito a villa Corneti che la moglie era agli estremi e voleva parlargli, corre a Castenaso. Cosa si dissero lei e lui nel colloquio supremo? Non lo si seppe mai. Ma la Pelissier che aveva voluto accompagnare il “suo” Gioacchino a Castenaso, lo vide scendere nella loggia dove l'attendeva, pallido disfatto, col viso irrorato di lacrime: e dentro di lei dovette patire una ben forte umiliazione! Quale delle due il Grande artista aveva amata di più?

SEBASTIANO SANI, L'esilio della Colbran, in "Il Comune di Bologna", luglio-agosto 1936. Trascrizione di Zilo Brati 

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