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La Rocca Malatestiana di Rimini

1855 - 1860

Schede

Giuseppe Ravegnani (Rimini, 1832 - 1904), La Rocca Malatestiana di Rimini, olio su prima tela, cm. 36,4 x 52,4. Il dipinto reca una tradizionale attribuzione a Luigi Bertelli, in realtà difficilmente sostenibile. Si tratterebbe, in ogni caso, di opera giovanile, databile intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando il giovane Bertelli, nato nel 1833, aveva poco più di vent’anni. La prima informazione sull’attività pittorica di Bertelli si deve a Giuseppe Bellentani, il quale nella recensione alla mostra del 1858 della Società Protettrice annotava che: “…anche Luigi Bertelli fece il suo Luogo montano” (Bellentani, 1858, p.45). Bellentani, professore di Filologia all’Università e “amatore delle arti”, dal 1855 pubblicava annualmente le recensioni agli avvenimenti espositivi cittadini. Non per questo si può escludere del tutto che Bertelli avesse esposto qualche suo dipinto prima del 1858, ma anche se lo avesse fatto, certamente non aveva riscosso grande interesse. Le prime opere note e sicuramente databili di Bertelli sono: Paesaggio con ferrovia, in due versioni del 1860, Pineta di Ravenna e Gli orti del convento di San Martino Maggiore del 1861 (cfr.: Luigi Bertelli…, figg.3,4,5,6, pp.117-119). Nelle prime tre tele è ancora evidente la continuità con la tradizione paesaggistica bolognese dei decenni precedenti, con una particolare attenzione verso l’eredità del naturalismo campedelliano, mentre affatto ignorata appare la variante romantica di Fontana e Venturi. Per il piccolo olio su latta con Gli orti del convento di San Martino Maggiore è, invece, inevitabile il riferimento alla galleria di vedute di Bologna lasciate da Antonio Basoli, anche se lo sguardo di Bertelli vi appare meno imbrigliato dal rigore della costruzione prospettica. La differenza più significativa tra le opere del 1860 e quelle dell’anno successivo consiste nella maggiore densità materica del colore, forse raggiunta da Bertelli dopo il confronto con altre realtà artistiche, e in particolare dei macchiaioli, che aveva avuto occasione di vedere alla prima Esposizione Nazionale tenuta a Firenze nel 1861, alla quale aveva partecipato con tre dipinti. Più volte è stata sottolineata l’importanza dell’incontro con la pittura dei macchiaioli per comprendere la svolta di Bertelli verso il “realismo integrale”, ovvero verso una pittura di paesaggio totalmente aliena da ogni minima correzione o abbellimento del dato osservabile. Anche l’opera qui esposta sembra seguire tale percorso, ma in maniera del tutto estranea alle esperienze toscane.

Per comprendere questa luminosa veduta bisogna, infatti, rifarsi all’evoluzione della pittura a Bologna nel corso del sesto decennio. Non, però, cercandone le radici nell’evoluzione del naturalismo dell’ultimo Campedelli, bensì rifacendosi al vedutismo urbano di matrice prospettica e, in particolare, all’aggiornamento della lezione basoliana condotto da Francesco Cocchi, da quando, nel 1842, era rientrato a Bologna per ricoprire l’insegnamento di Prospettiva all’Accademia di Belle Arti, dopo una brillante carriera condotta in varie città europee. Per gli allievi di Cocchi, tra i quali lo stesso Ravegnani, anche la disciplina prospettica doveva affrancarsi dalle più astratte esercitazioni lineari per confrontarsi con il motivo studiato dal vero. Erano anni nei quali la pittura iniziava a riflettere su se stessa stimolata dal confronto con la fotografia. La fedeltà al vero garantita dal nuovo mezzo meccanico sembrava ad alcuni irraggiungibile, ma una giusta applicazione della scienza prospettica, unita alla capacità di rendere con il colore la vibrazione atmosferica della luce, appariva ad altri una necessaria ed adeguata risposta. Una problematica di tal genere, particolarmente rilevante per la pittura di paesaggio e il vedutismo urbano, aveva con ogni probabilità interessato anche il giovane Bertelli, ma quando quest’ultimo ha dipinto (dipinse) le due tele con Paesaggio con ferrovia e La pineta di Ravenna era ancora troppo nell’orbita di Campedelli per non aggraziare la realtà con alberi e cespugli ben disposti, mentre nella veduta degli orti di San Martino Maggiore rivela un certo imbarazzo nella costruzione prospettica. Difficile, dunque, pensare che anni prima lo stesso artista abbia potuto dipingere un’opera che appare di passo più sicuro e maggiormente innovativa nel rapporto con il vero rispetto a quelle appena citate. Una tela che rivela una certa vicinanza di intenti ed esiti con la presente è la Veduta di Dozza, esposta da Pietro Poppi alla mostra della Protettrice del 1863, e probabilmente dipinta nello stesso anno (Grandi, 1983, p.212, fig. 125). Dopo poco, Poppi avrebbe abbandonato la pittura per dedicarsi esclusivamente, e con successo, alla fotografia, ma negli anni Cinquanta il suo impegno come pittore di paesaggio era stato costante e di buon livello, anche se i suoi dipinti, oltre a quello ricordato prima, sono noti solo dalle fonti. Coetaneo di Bertelli e, quindi, più giovane di un anno di Ravegnani, anche Poppi era stato allievo di Cocchi e, dopo un inizio sotto il segno del paesaggio romanticamente visionario di Ferdinando Fontana, a partire dal 1858 si era orientato verso un vedutismo più asciutto e fedele ai motivi presi dal vero. Nell’opuscolo dedicato alle mostre tenute a Bologna in quest’ultimo anno, Bellentani, infatti, scrive: “Un Paese nelle vicinanze di Bologna, ove scorre un canale, ha molto verde monotono e triste forme: tuttavia arieggia bene, fa respirare la frescura, e mostra assai linee di verità. Pietro Poppi dipinse” (Bellentani, 1858, p.43).

Alla stessa mostra era presente anche Ravegnani con L’ingresso della dogana a S. Francesco -ora nelle collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio di Bologna insieme a Il fianco settentrionale della chiesa di S. Francesco, esposto, sempre alla Protettrice, nel 1857 (cfr. Grandi, 1983, p. 172, figg. 92,93)-, davanti al quale Bellentani non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: “Giuseppe Ravegnani primeggia coll’Ingresso della nostra Dogana, in cui, oltre il movimento degli uomini, è verissimo l’aspetto del luogo, il quale offre il piacevole contrasto delle biancheggianti moderne muraglie di recinto colle antiche tinte, che rendono veneranda la sorgente facciata di San Francesco.” (Ibidem, p.46). Basterebbe la sottolineatura del contrasto di luminosità tra i vecchi e i nuovi muri per attribuire la presente opera a Ravegnani, ma strette vicinanze si osservano anche nelle figure, nella stessa esecuzione tecnica e nella concezione prospettica, ed in maniera ancora più evidente se si sposta il confronto con Il fianco settentrionale della chiesa di S. Francesco, reso con identica tecnica da una diagonale che attraversa tutta la tela, da sinistra a destra. Per non tacere, infine, di un elemento esterno, ma non privo di significato, come l’appartenenza del motivo alla città natale dell’artista. Sfogliando le recensioni di Bellentani alle esposizioni bolognesi dal 1855 al 1858, la figura di Ravegnani emerge come quella di un artista che, pur in un genere considerato minore, si era affermato come uno dei più coerenti interpreti delle istanze veriste che si andavano lentamente affermando anche a Bologna. Nel recensire le vedute prospettiche di interni presentate dagli allievi di Cocchi nel 1856, Bellentani, infatti, ha scritto: “.. il Cortile di un palazzo Spada, presentava tutto ciò che possa l’arte in simil genere, essendoché l’aggiustatezza della lineare ed aerea prospettiva, la luce del sole che batte sull’alto, e perfino l’umidità dell’erba parassita e dei muri, non che lo sfondo che dà nella strada, ti rendono il vero” (Bellentani, 1856, p.39) A distanza di più di venti anni appare ancora giusta l’intuizione di Renzo Grandi, il quale ricostruendo il percorso di Pietro Poppi, e riferendosi al 1867, ha concluso che “A quella data il Poppi era soltanto fotografo; ma è credibile che negli anni immediatamente precedenti avesse giocato, accanto al coetaneo Bertelli, ed anzi in breve anticipo su di lui, un ruolo di punta nella svolta che seguì sul ’60, facendo per qualche tempo di Bologna quasi una più rustica “enclave” macchiaiola, dimessa ma con un suo riconoscibile timbro” (Grandi, 1983, p.212). Ma ai due nomi ricordati dallo studioso bisogna aggiungere quello di Ravegnani, con un ruolo di iniziatore, in anni che precedono, anche se di poco, il 1860.

In collaborazione con Galleria de' Fusari, Bologna. Testo tratto da: Claudio Poppi (a cura di) 'Da Antonio Basoli a Luigi Busi: Bologna, Ottocento ...Senza macchia!', 2005.