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La Comune di Parigi e la partecipazione emiliano-romagnola

Politico 18 Marzo 1871

Schede

Fin dalla sua costituzione, la Francia fu uno dei centri propulsori dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL, la cosiddetta “Prima Internazionale”, fondata a Londra nel settembre 1864): le sezioni parigine furono più volte disciolte dalle autorità e si celebrarono nel corso di pochissimi anni ben tre processi contro i loro promotori ed aderenti. Ciò si dovette in particolar modo ad un crescente sviluppo industriale, che avrebbe visto nel 1872 la componente operaia ascendere nella sola Parigi a ben 550.000 unità. Emblematica fu la parabola del comune borgognone di Le Creusot, fulcro del bacino industriale di proprietà della famiglia Schneider, dove si venne a creare una delle maggiori concentrazioni operaie dell'intera Europa, formata in stragrande maggioranza da minatori, meccanici ed operai siderurgici. Gli stessi Schneider controllavano il corpo legislativo locale e contro di essi tra il 1869 e il 1870 si scatenarono una serie di scioperi animati da un proletariato moderno ed avanzato, alla cui testa si pose il futuro colonnello della Comune Adolphe-Alphonse Assi, operaio meccanico di origine italiana.

La guerra franco-prussiana
Lo scoppio della guerra franco-prussiana, nell'estate del 1870, segnò la fine per il 2° Impero francese: alla sconfitta di Sedan del 2 settembre seguì la cattura di Napoleone III da parte delle truppe germaniche e la proclamazione il giorno 4 della Terza Repubblica, prese il potere un governo “di Difesa Nazionale” di stampo conservatore, alla cui testa fu posto il generale Louis-Jules Trochu.

In questo frangente, le strade del futuro governo di Versailles e della città di Parigi cominciarono a divaricarsi: da un lato il primo, anche a causa dei vuoti creatisi nell'esercito, per buona parte fatto prigioniero dai prussiani, avrebbe firmato un armistizio con Bismarck il 28 gennaio del 1871. La seconda invece, secondo il principio della nazione armata, si dotò di una Guardia Nazionale per difendere la città ad ogni costo. Dopo la caduta di Metz (27 ottobre 1870), per ben due volte i seguaci di Auguste Blanqui (provenienti da quel ceto popolare bottegaio e artigiano che si rifaceva alla tradizione sanculotta) tentarono un colpo di mano contro l'Hôtel-de-Ville per istituire un governo rivoluzionario.

Come detto, nel gennaio 1871 si era addivenuti ad un armistizio tra il governo di Difesa Nazionale e i tedeschi: questo documento prevedeva la resa di Parigi e l'occupazione da parte dei soldati prussiani dei forti nord-orientali della città, il disarmo pressoché totale della Guardia Nazionale nonché una tregua di 21 giorni per permettere le elezioni di una nuova Assemblea Nazionale che ratificasse un vero e proprio trattato di pace con il nuovo Impero germanico. Le votazioni dell'8 febbraio 1871 sancirono la formazione di un corpo legislativo fortemente reazionario, per due terzi composto sostanzialmente da monarchici e legittimisti, efficacemente rappresentati da Adolphe Thiers, nominato nuovo capo dell'esecutivo. Le condizioni imposte da Bismarck ai francesi erano durissime: esse prevedevano la cessione dell'Alsazia e della Lorena, una cospicua indennità per i danni provocati dalla guerra, nonché l'occupazione di Parigi. La Ville-Lumière reagì radicalmente e molte manifestazioni furono represse dai tutori dell'ordine: di fronte a questo deterioramento della situazione in città, gran parte della medio-alta borghesia fuggì nelle campagne circostanti, mentre al contempo facevano il loro ingresso in Parigi le truppe tedesche. La reazione della Guardia Nazionale fu immediata, con l'elezione di un Comitato Centrale maggiormente rappresentativo affinché potesse guidare la popolazione ad una resistenza ad oltranza.

La Comune
Di contro l'Assemblea Nazionale impose il regolare pagamento di cambiali e pigioni: una misura eccessiva per una città abbandonata dalle autorità, in cui il Comitato Centrale della Federazione della Guardia Nazionale stava emergendo come l'unica guida disponibile per colmare il vuoto di potere. Questo Comitato, che già da qualche settimana aveva lanciato una sottoscrizione popolare per l'acquisto di cannoni, il 18 marzo 1871 difese strenuamente le sue nuove armi dal tentativo di requisizione dei soldati versagliesi. Fu questo episodio la scintilla che diede inizio ai 72 giorni della Comune di Parigi. Il Comitato Centrale della Guardia, però, non ritenendo di avere un reale mandato popolare per assurgere a governo rivoluzionario della città, decise di indire un'elezione – a suffragio universale maschile – per giungere ad un governo municipale pienamente legittimato. Il 26 marzo si presentarono alle urne oltre 229.000 persone (su un totale di circa 485.000 parigini inscritti nelle liste elettorali) al fine di eleggere gli 85 rappresentanti del Consiglio. Quello che ne scaturì fu un organo caratterizzato da una maggioranza giacobino-blanquista e da una compatta minoranza di stampo internazionalista.

Nell'arco dei suoi 72 giorni di vita, perciò, la Comune non ebbe un gruppo dirigente omogeneo, né leader o figure preminenti (l'Assemblea rurale che si era rifugiata a Versailles l'avrebbe sprezzantemente chiamato “il governo degli sconosciuti”): essa fu difatti animata da diverse correnti e tradizioni politiche, in particolar modo da quelle repubblicana (incarnata dai succitati blanquisti che si rifacevano alla Costituzione del 1793) e municipalista (lo stesso termine «Commune» esprimeva l'aspirazione all'autonomia, all'auto-governo del popolo minuto contrapposto al notabilato ed all'aristocrazia rurale versagliese), nonché da aspirazioni patriottiche (intrinsecamente legate al ricordo di Valmy ed ai successi dell'armata rivoluzionaria) e generalmente democratiche (molteplici furono i clubs che videro la luce già all'indomani del 4 settembre 1870). Questa vera e propria esigenza di democrazia si manifestò anche attraverso una forte partecipazione delle donne ai vari comitati ed unioni che vivificarono l'esperienza comunalista: si pensi in particolar modo all'Unione delle donne per la difesa di Parigi e per le cure ai feriti animata dalla giovane russa Elisabeth Dmitrieff.
Dal punto di vista economico, invece, è innegabile che alla base della Comune agivano – seppur scontrandosi fra loro – tendenze di stampo proudhoniano, federalista e anarchico.

Come si vede, la nascita della Comune non fu pianificata né deliberatamente ricercata: furono gli eventi stessi a dettare la sua creazione. Si può comprendere pertanto come nei suoi 72 giorni di vita essa non ebbe né il tempo né il modo di gettare le basi per una nuova società, in quanto il primo obiettivo era la sua stessa sopravvivenza. Tuttavia, attraverso le dichiarazioni ed i suoi atti concreti se ne può comunque delineare la fisionomia – alla quale, è bene sottolinearlo nuovamente, mancò comunque un'omogenea ideologia di fondo: l'esercito permanente venne abolito (e la bonapartista Colonna Vendôme fu atterrata su impulso del pittore Gustave Courbet); gli affitti furono condonati per il periodo ottobre '70-marzo '71; fu imposto il blocco degli sfratti; le abitazioni sfitte vennero requisite per assegnarle ai senza tetto; fu sospesa la vendita degli oggetti impegnati presso i Monti di Pietà; fu decretata la revocabilità degli eletti ed imposto un massimale agli stipendi dei funzionari pubblici; fu sancita la separazione tra Stato e Chiesa mentre la scuola – obbligatoria e gratuita – avrebbe assunto un carattere laico. Dal punto di vista economico fu imposto un limite all'orario della giornata lavorativa; fu stabilito un salario minimo; fu vietato il lavoro notturno dei panettieri al fine di restituire loro un certo grado di vita sociale; furono create macellerie comunali e soppresse multe e trattenute sui salari. Infine, le officine abbandonate dai relativi proprietari vennero confiscate dall'autorità comunale e date in gestione a sindacati e cooperative di operai.

Sdegnosamente definiti “inconnus”, la Comune fu animata da operai, bottegai, piccoli impiegati civili, funzionari municipali (oltre che artisti, giornalisti, studenti ed intellettuali): nella Ville-Lumière si assistette alla prima apparizione autonoma degli operai sulla scena della Storia. Numerosa fu la partecipazione straniera all'esperienza parigina: moltissimi erano i polacchi, i russi, gli ungheresi, i belgi, i lussemburghesi ed anche gli italiani già presenti in città ben prima del 18 marzo, ma altri ne arrivarono coscientemente proprio per dare il loro contributo alla Comune. La stessa assemblea, in occasione dell'elezione al Consiglio dell'orafo ungherese Leo Frankel, affermò che: «Considerando che il vessillo della Comune è quello della Repubblica Universale; considerando che ogni comunità ha il diritto di attribuire il titolo di cittadino agli stranieri che la servono, la Commissione ritiene che gli stranieri possano essere ammessi e vi propone l'ammissione del cittadino Frankel». L'unico altro straniero eletto al Consiglio fu Menotti Garibaldi (già comandante della III Brigata dell'Armata dei Vosgi), il quale però non assunse mai l'incarico avendo già fatto tornato in Italia.

La partecipazione italiana
Come detto, gli italiani non furono affatto estranei a questo episodio ma, come per la totalità di quest'esperienza, anche tra i cisalpini si devono distinguere diversi gradi di consapevolezza. Innanzitutto si deve registrare la partecipazione di una fetta di quella comunità emigrata, soprattutto per motivi economici, già presente da anni nella Ville-Lumière (al 1866 si contavano circa 7.000 italiani residenti in città). Parte di questa comunità attivatasi nei giorni della Comune era formata da operai e salariati del settore industriale, persone impegnate in lavori più tradizionali (come i fumisti) ed in generale appartenenti ad una classe operaia intermedia. Nelle loro scelte (come la militanza nei battaglioni federati), queste persone erano guidate da esigenze di carattere sociale in tutto e per tutto simili a quelle del proletariato parigino, esigenze evidentemente spontanee più che di carattere ideologico, ma certamente sintomo esse stesse di una reazione all'emarginazione sociale alla quale erano stati condannati dalla preesistente struttura economico-sociale. Nondimeno, non va dimenticato che molti aderirono spinti anche dalla necessità di dare un qualche tipo di sostentamento alla propria famiglia.

È innegabile poi che vi furono svariati garibaldini – già combattenti nell'Armata dei Vosgi – che rimasero in Francia o vi fecero immediatamente ritorno per prendere le armi nei battaglioni federati. Di passaggio per Parigi, il parmense Luigi Musini, garibaldino appena smobilitato e futuro deputato socialista al Parlamento italiano, notò all'ombra della Colonna di Luglio, dov'era un continuo susseguirsi di violenti discorsi da parte dei federati, che parecchi fra gli oratori «più furibondi» indossavano ancora la camicia rossa. I garibaldini erano «fatti segno alla più viva simpatia, al contrario che in provincia; levavano al cielo Garibaldi dicendo che se fosse stato quivi Parigi non avrebbe ceduto»: difatti lo stesso Generale, che aveva sconfitto i prussiani a Digione, fu acclamato il 21 marzo dal Comitato Centrale della Guardia Nazionale come proprio comandante in capo. A lui, che aveva fatto ritorno a Caprera il 16 febbraio, fu indirizzata questa lettera:

«Parigi, 21 marzo 1871 – Federazione Repubblicana della Guardia Nazionale.
Al cittadino Garibaldi.
Cittadino: I delegati dei battaglioni della Guardia Nazionale di Parigi vi hanno acclamato all'unanimità loro Generale in Capo. Cittadino, voi siete l'autentico patriota della Repubblica universale e a questo titolo appartenente alla Guardia Nazionale di Parigi che finalmente ha rovesciato un regime di disonore e di corruzione per far posto al diritto e alla giustizia. Cittadino Garibaldi, la Guardia Nazionale spera che accetterete il mandato ch'essa vi offre e che il cittadino Tibaldi si incarica di venirvi a portare personalmente.
Per l'Assemblea Generale della Federazione
I membri del Comitato Centrale, in seduta all'Hôtel-de-Ville».

L'invito, portato personalmente da Paolo Tibaldi, già difensore della Repubblica Romana nel 1849, fu però declinato dal Nizzardo. Questi d'altronde aveva ordinato al figlio Ricciotti, eletto il 24 marzo comandante militare della Comune di Lione, di osservare «attentamente questo movimento comunardo; se vedi che da esso può nascere una riapertura delle ostilità, ti autorizzo di prendervi parte; ricordati soltanto che appena so a Caprera che tu ti sei unito ai comunardi, io parto immediatamente per raggiungerti. Ma se rimane una questione tra Francesi e Francesi non te ne immischiare». Del resto, per lui, la guerra era ormai finita: solo un mese prima infatti si era dimesso dall'Assemblea Nazionale, alla quale pur era stato eletto da diversi dipartimenti.

La partecipazione emiliano-romagnola
Presentiamo ora alcune figure di garibaldini, anarchici e rivoluzionari emiliani e romagnoli che presero parte all'esperienza comunalista. Il piacentino Tibaldi, a cui abbiamo già accennato in precedenza, seppure non fu a Parigi durante i 72 giorni di autogoverno popolare, ebbe certamente un ruolo importante nei mesi precedenti l'insurrezione. Nato nel 1824, studente di scultura a Roma, nel 1848 si arruolò nel Battaglione Universitario combattendo a Vicenza: lo stesso generale Durando lo promosse a capitano. L'anno successivo fu tra i difensori della Repubblica romana e, dopo la caduta della città, protesse la ritirata di Garibaldi fino a San Marino, dove, abbandonate le armi, fu arrestato dagli austriaci. Una volta libero, scelse la strada dell'esilio, emigrando in Francia. D'indole repubblicana, Tibaldi partecipò alle sommosse seguite al colpo di stato del 2 dicembre 1851 ad opera di Napoleone “il piccolo”. Rifugiatosi a Londra, ma subito rientrato a Parigi, continuò a lavorare come ottico finché non fu arrestato con l'accusa di aver cospirato – assieme a Mazzini, Campanella ed altri – per uccidere il nuovo Imperatore dei francesi. Condannato nel 1857, fu deportato all'Isola del Diavolo (Guyana): qui conobbe Charles Delescluze, tra i futuri leaders della Comune, con cui strinse una solida amicizia. La campagna di stampa che avrebbe poi lanciato quest'ultimo una volta libero, permise anche a Tibaldi di lasciare il confino nel 1869, dopo dodici durissimi anni di prigionia. Interdetto al soggiorno in Francia, Tibaldi riparò a Londra, dove fu visitato da altri futuri capi dell'insurrezione del '71 quali Felix Pyat e Gustave Flourens. Era inoltre vicino sia a Marx ed Engels che alla Prima Internazionale. Dopo la proclamazione della Repubblica, Léon Gambetta (Ministro dell'Interno nel governo di Difesa Nazionale) lo invitò a difendere il nuovo Stato francese: giunto a Parigi, a Tibaldi fu affidato il compito di organizzare e comandare una legione (definita da Zaidman una vera e propria «Légion italienne») che pare arrivò a toccare i 10.000 aderenti. Essa però non fu armata dal governo, sospettoso della composizione del reparto (dove non pochi erano gli elementi radicaleggianti). Nonostante ciò, il 24 settembre Tibaldi lanciò dalle colonne de “Le Combat” un appello agli italiani affinché accorressero alla difesa della Ville-Lumière, associandosi al contempo a quel gruppo repubblicano-democratico che aveva iniziato a chiedere la proclamazione di una Comune. Il 31 ottobre partecipò al tentativo insurrezionale contro l'Hôtel-de-Ville che, nelle parole dello stesso piacentino, doveva «liberare la Francia, liberare l'umanità, proclamare i principi del vero patriottismo e della vera difesa del popolo» (Bassoli, p. 47). Ristabilito l'ordine a causa della mancanza di collegamento tra le forze rivoluzionarie, Tibaldi fu arrestato. Dopo la sua prigionia, che durò fino al 27 gennaio 1871, declinò la nomina a comandante in capo della Guardia Nazionale, ritenendo il generale Garibaldi «più degno» della carica: fu proprio lui – come detto – che si recò a Caprera per estendere l'invito al Nizzardo. Fatto ritorno a Londra, fu condannato in contumacia dal Consiglio di guerra. Nella capitale britannica aderì all'Internazionale, contribuendo a smascherare Luigi Wolff come spia della polizia francese in seno all'AIL. Rientrato in Italia nel 1873, morì a Roma il 17 gennaio 1901.

Come Tibaldi, anche Amilcare Cipriani e Gaetano Davoli furono protagonisti già nei mesi pre-insurrezionali. Seppur nato ad Anzio (Roma) nel 1844, Cipriani si può ben definire romagnolo a tutti gli effetti, poiché fin dai mesi successi alla sua nascita tutta la famiglia si trasferì a Rimini. Trascorse i primi anni della sua vita in un ambiente «fortemente segnato dalle cospirazioni e dall'ostilità al governo pontificio» (Sircana, p. 33), che certamente lo indirizzò su un percorso ben definito: difatti, già nel 1859, combatté nella Prima guerra d'Indipendenza. Partecipò poi alla spedizione dei Mille, seguì Garibaldi in Aspromonte, a Bezzecca senza mancare neanche all'appuntamento cretese, dove conobbe Gustave Flourens ed il reggiano Davoli. I due italiani, all'indomani della proclamazione della Repubblica francese, raggiunsero Flourens a Parigi, arruolandosi entrambi nel suo battaglione di franchi tiratori. Cipriani partecipò così all'insurrezione del 31 ottobre, venendo arrestato assieme al suo superiore al termine della giornata. Liberato, fu proprio Cipriani a condurre un assalto alla fortezza di Mazas riuscendo a far evadere Flourens ed altri rivoluzionari, poco tempo prima di marciare per la seconda volta, il 22 gennaio 1871, sull'Hôtel-de-Ville. Dopo la proclamazione della Comune, Cipriani assurse al grado di colonnello; catturato assieme Flourens agli inizi di aprile dai soldati versagliesi (che fucilarono il francese sul posto) l'anarchico italiano fu dapprima condannato a morte, quindi la sua pena fu commutata nella deportazione a vita in Nuova Caledonia. Amnistiato nel 1880, riprese la sua militanza anarchica (che lo avrebbe visto accorrere nuovamente in terra ellenica nel 1897).

Il già citato Gaetano Davoli (reggiano classe 1835) fin da giovane trasmetteva la corrispondenza politica (di stampo sia mazziniano che moderato) dal ducato di Parma a quello di Modena, sfruttando la sua posizione di conduttore di diligenze. Nel 1859 si arruolò nell'esercito sardo combattendo a San Martino, mentre l'anno successivo disertò dal Corpo dei Cacciatori a cavallo per unirsi alla spedizione di Giacomo Medici. Nel 1862 tentò senza successo di raggiungere Garibaldi nella sua spedizione verso Roma, poi fermata sull'Aspromonte. Quattro anni dopo fu dapprima a Bezzecca, quindi a Creta, dove conobbe Amilcare Cipriani, anch'egli accorso per lottare al fianco degli insorti candiotti. Ancora, pochi mesi dopo era a Roma per fomentare quell'insurrezione necessaria per il successo della campagna dell'Agro Romano: combatté presso casa Arquati, riuscendo fortunosamente a salvarsi dal piombo nemico, ricongiungendosi a Mentana – seppur gravemente malato – con le forze garibaldine. Espatriato a Lugano, si trasferì quindi a Londra, dove si riunì con Cipriani: fu da qui che i due partirono alla volta di Parigi, dove si arruolarono nel battaglione federato di Gustave Flourens, presente anch'egli a Candia quattro anni prima. Anche Davoli partecipò al tentativo insurrezionale del 31 ottobre 1870. Dopo l'armistizio del 28 gennaio, venuto a sapere che l'esercito dei Vosgi non vi rientrava, Davoli corse a Mâcon, dove sì unì all'Armata ormai in ritirata. Tornato a Parigi, fu catturato sulle barricate assieme agli ultimi difensori della Comune. Condannato alla deportazione in Nuova Caledonia, trascorse quindici mesi incarcerato su un pontone. Graziato e quindi espulso dalla Francia, tornò in Italia, precisamente nella sua Reggio Emilia, dove morì in povertà l'8 marzo 1911.

La Comune fu animata anche dagli artisti. Federico Ravà, pittore nato a Reggio Emilia nel 1842, dopo un primo tentativo (fallito) di arruolarsi assieme ai fratelli Enrico ed Eugenio per combattere nella Seconda guerra d'Indipendenza, poté finalmente indossare la camicia rossa nel 1866 in Trentino. Fu quindi a Creta. L'anno successivo – come Davoli – fu tra coloro che tentarono di far divampare un'insurrezione popolare in Roma per favorire il successo della campagna garibaldina. Quindi, nel 1870, si arruolò insieme al fratello Eugenio nella Legione Revelli (III Brigata) dell'Armata dei Vosgi. Solo Federico però riuscì a raggiungere poi Parigi nei giorni dell'insurrezione: questi si arruolò nelle truppe federate mantenendo il grado di Tenente che aveva acquisito nei mesi precedenti. Arrestato, fu condannato nel 1872 alla deportazione in fortezza: poté far ritorno dalla Nuova Caledonia solamente nel 1879, dopo essere stato amnistiato come molti altri ex-comunardi. Negli anni successivi si stabilì a Londra, dove riprese la sua attività artistica.

Molti furono i reduci dei Vosgi che – mediante l'esperienza parigina – scelsero di militare nel campo internazionalista. Giuseppe Berni, nato a Caorso nel 1838, era già stato volontario nella Legione Farini a Modena nel 1859-60, nonché durante la Terza guerra d'Indipendenza. Dopo aver indossato la camicia rossa nei Vosgi in qualità di Sottotenente di Stato Maggiore, accorse a Parigi dove assurse al rango di ufficiale delle milizie federate. Al suo ritorno in Italia fu tra i leader della sezione internazionalista romana, decapitata nella primavera del 1873. Arrestato in occasione dei moti insurrezionali dell'agosto 1874, tre anni dopo accorse in Bulgaria per combattere al fianco degli insorti contro i turchi, morendo in battaglia.

Secondo il Registro-Rubrica degli affiliati ai partiti sovversivi, redatto dalla Prefettura di Bologna nel 1894, anche i reduci di Francia Teobaldo Buggini e Alfonso Leonesi parteciparono più o meno attivamente alle vicende della Comune: il primo, persicetano, già veterano della campagna del '66, secondo le autorità emiliane ebbe un ruolo attivo nel corso dell'insurrezione. Il bolognese Alfonso Leonesi (veterano di Bezzecca e Mentana e futura camicia rossa a Domokos) «Rimas[e] a Parigi durante la Comune», “convertendosi” – è la parola – proprio alla luce di questo episodio ai principî internazionalisti, costituendo, assieme al primo e a molti altri, il Fascio Operaio felsineo nel novembre 1871. Entrambi, tre anni dopo, furono protagonisti della tentata insurrezione di marca anarco-internazionalista dell'8 agosto 1874. Per la loro esperienza pregressa, fu affidato ad ambedue un ruolo di carattere militare. Fallito il moto, Buggini fu arrestato e processato assieme ad Andrea Costa e ad un'altra cinquantina di imputati nel marzo-giugno 1876, venendo infine assolto; Leonesi riuscì invece a riparare in Svizzera assieme alla sua compagna.

Affermò di essere stato un comunardo anche l'anarchico faentino Bartolomeo Morini (classe 1836), che durante un interrogatorio subìto nel 1894 affermò di «aver partecipato agli avvenimenti della Comune di Parigi nel 1871 e di essersi guadagnato in quella circostanza i gradi di ufficiale» (Gianni, p. 555).

Veniamo infine ad Angelo Umiltà, nato a Montecchio Emilia nel 1831, che già nel 1848 aveva tentato di arruolarsi in un corpo volontario per combattere nella Prima guerra d'Indipendenza, non venendo però accettato perché troppo giovane. Aderente alla Giovine Italia, nel 1859 combatté a Sesia, Magenta e S. Martino nelle file del 6° Reggimento Fanteria (Brigata Aosta); l'anno successivo però, per via delle sue condizioni di salute, non poté imbarcarsi con i Mille. Dopo aver contrastato il banditismo in Romagna in qualità di commissario di Pubblica Sicurezza, nel 1866 si arruolò volontario combattendo – come già sette anni prima – in veste di soldato semplice, stavolta però nelle file dei bersaglieri. Repubblicano, nel 1867 si dimise dal corpo di polizia dopo che il Ministero dell'Interno gli aveva intimato di sospendere la sua collaborazione con i giornali d'area milanesi. Dopo un breve esilio a Lugano, nella primavera del 1870 militò nella Banda Nathan, il cui scopo era quello di abbattere la monarchia per instaurare la repubblica «Una e Indivisibile». Rifugiatosi a Ginevra per scampare alla cattura, non sarebbe più tornato in Italia. Nell'autunno di quell'anno si arruolò col grado di Tenente nell'Armata dei Vosgi, coadiuvando il servizio sanitario. Probabilmente, nella primavera del 1871 partecipò alle prime fasi della Comune di Parigi, spostandosi in seguito a Lione da dove inviò diverse corrispondenze al periodico lodigiano “La Plebe”, allora schierato ancora su posizioni repubblicane. Nonostante questi non «divid[esse] tutte le idee della Comune, tal qual è organizzata attualmente, e nemmeno ne approvi gli eccessi, inevitabili in un subito rivolgimento di cose», «tra l'Assemblea che provoca la guerra civile e la Comune che si difende, non esito a schierarmi dalla parte del diritto popolare, così malmenato e malinteso...». Difatti, per Umiltà, «Parigi combatte non tanto per la propria autonomia amministrativa, quanto per salvare la repubblica minacciata dall'Assemblea. Dall'esito di questa lotta inaudita dipende l'avvenire della Francia e delle istituzioni democratiche». All'indomani della “settimana di sangue”, così descrisse nel suo articolo La gran jattura! il macabro e desolante spettacolo offerto dalla città: «Parigi è un vulcano in eruzione, un campo stivato di morti, un ammasso di rovine. Una caligine densa di fumo, di piombo infuocato e di sangue umano avvolge la grande metropoli, come lenzuolo funereo steso sopra una nazione subissata dal terremoto della guerra civile. Thiers ha superato Nerone, troncando d'un colpo la testa della sua Roma!» in quella che era stata nient'altro che «Guerra di distruzione, macello umano, ecatombe orribile, che fa dell'Atene moderna un cimitero!». Tornato successivamente in Svizzera, fu segretario della Lega Internazionale della Pace e della Libertà. Morì a Neuchâtel nel 1893.

Dopo la Comune
Al termine dell'esperienza comunarda, violentemente repressa dalle armi versagliesi durante la cosiddetta semaine sanglante (21-28 maggio), si contarono circa 200 italiani fra coloro che furono imprigionati e processati per aver partecipato all'insurrezione: 80 di questi furono condannati, di cui 20 in contumacia.

Dato per assodato che ogni tendenza politica avrebbe avuto nella Comune il suo faro nonché un ricordo stimolante per l'avvenire, essa fu certamente il primo abbozzo di una rivoluzione socialista, poiché – seppur nata su posizioni genericamente repubblicane e municipaliste – si trovò ad affrontare e cercare di risolvere problemi concreti della classe lavoratrice e del mondo del lavoro in generale: «La grande misura sociale della Comune è stata la sua stessa esistenza operante» sentenziò Karl Marx ne La guerra civile in Francia, mentre Friedrich Engels vide in essa la dittatura del proletariato in azione. Questo primo autogoverno del popolo ebbe il merito di diffondere potentemente in Europa l'idea socialista tanto che a Bologna, proprio attorno ad alcuni garibaldini reduci dai Vosgi e dalla stessa Comune, il 27 novembre 1871 venne fondato il Fascio Operaio (futura sezione dell'Internazionale), il primo del suo genere in tutta la regione, aprendo di fatto un nuovo capitolo nella storia del movimento operaio italiano. La militanza d'ora in poi sarebbe stati infatti più impegnata e consapevole, anche alla luce della veemente polemica che Mazzini portò avanti fin da subito sulle colonne de “La Roma del Popolo”. Per molti, così, quell'anno segnò il transito da un generico repubblicanesimo (in tutto e per tutto figlio della democrazia risorgimentale) a nuovi lidi, quali l'internazionalismo, l'anarchismo e il socialismo. Il mirandolese Arturo Ceretti (fratello di Celso, come lui garibaldino nei Vosgi) ricordò nel 1876 che «Dove maggiormente l'opinione socialista prese un indirizzo serio e importante fu quando, reduci noi dalla Francia caduta in mano alla reazione francese, si pensò al modo di organizzazione e propaganda». Lo stesso Garibaldi d'altronde aveva affermato sulle colonne de “Il Romagnolo” del 28 agosto 1871 che «L'Internazionale è quella parte più numerosa della società che soffre al cospetto dei pochi privilegiati. Noi quindi dobbiamo essere coll'Internazionale e se vi sono dei difetti nelle sue istituzioni correggerli» (Sircana, pp. 87 e 90).

L'“esempio” del 18 marzo negli anni a venire sarebbe stato commemorato, ripensato e riletto – non solo come momento «distruttivo ed eroico» di abbattimento di un governo reazionario, ma anche come elemento «positivo» e «costruttivo». In particolare, oltre all'elemento bakuniniano che caratterizzò l'istituzione della Federazione Italiana dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori e il moto dell'8 agosto 1874, in regione attecchì anche una visione «municipalista-autonomista del socialismo», efficacemente tratteggiata da Andrea Costa nel suo opuscolo “Un sogno” (1881) e proprio da lui propugnata: una prospettiva – quella del socialismo municipale – che avrebbe ruotato attorno all'istituto del Comune, un istituto da conquistare in quanto simbolo di autogoverno non solo amministrativo, ma che «in prospettiva avrebbe potuto condurre alla trasformazione dello stesso stato italiano in stato federativo-socialista» (Giovannini, p. 36).

Andrea Spicciarelli

FONTI e BIBLIOGRAFIA: S. Aprile, La Commune et ses étrangers in Le Paris de la Commune 1871, sous la direction de J.-L. Robert, Paris, Belin 2015, pp. 123-134; L. Basso, La Comune di Parigi, Bologna, Comune di Bologna 1972; A. Bassoli, Paolo Tibaldi: un emiliano e la Comune di Parigi in “Bollettino storico piacentino”, n. 1 (1974), pp. 39-54 M. Bernabei, Il pensiero e l'opera di Angelo Umiltà (Montecchio Emilia 1831 – Neuchâtel 1893), “Bollettino storico reggiano”, n. 84 (ottobre 1994); A. Bressan, Garibaldi. La Francia. La Comune in “Il Comunardo”, n. 1 (1973), pp. 17-44; A. Bressan, Reggiano garibaldino federato della Comune in “Il Comunardo”, n. 3 (1973), pp. 18-28; G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, vol. II, Marxismo e anarchismo. 1850-1890, Roma-Bari, Editori Laterza 1967, pp. 152-196; E. Civolani, La partecipazione di emigrati italiani alla Comune di Parigi in “Movimento Operaio e Socialista”, nn. 2-3 (1979), pp. 155-183; E. Gianni, L'Internazionale italiana fra libertari ed evoluzionisti. I congressi della Federazione Italiana e della Federazione Alta Italia dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (1872-1880), Milano, Edizioni Pantarei 2008, ad nomen; C. Giovannini, La cultura della “Plebe”. Miti, ideologie e linguaggio della sinistra in un giornale d'opposizione dell'Italia liberale (1868-1883), Milano, Franco Angeli 1984, pp. 11-40; A. Leonetti, Gli italiani nella Comune di Parigi in “Il Ponte”, n. 12 (1971), pp. 1456-1468; L. Musini, Per un'Italia di liberi, di felici, di uguali. Le memorie (1859-1885), a cura di R. Spocci, Fidenza, Mattioli 1885 2007, p. 123 (11 marzo 1871); G. Pomelli, Gaetano Davoli in “Garibaldi e i Garibaldini. Raccolta trimestrale di scritti e documenti inediti o rari”, a. I, n. 4 (27 maggio 1911), pp. 392-396; G. Sircana, A Parigi! A Parigi! Italiani alla Comune, Milano, Biblion 2021; A. Tamborra, Garibaldi e l'Europa. Impegno politico e prospettive politiche, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito – Ufficio Storico 1983, p. 129; Recentissime in “La Plebe. Giornale repubblicano” (8 aprile 1871), p. 3; A. Umiltà, Lettere di Francia in “La Plebe” (2 maggio 1871), p. 2; A. Umiltà, La gran jattura! in “La Plebe” (3 giugno 1871), p. 1; Archivio di Stato di Bologna, Gabinetto di Prefettura, Registri Vari, Registro-Rubrica degli affiliati ai partiti sovversivi, (copia depositata presso la Biblioteca del MRBo), ad nomen; https://maitron.fr/spip.php?article69324, notice RAVA Federico [et non Frédéric] par Pierre-Henri Zaidman, versione caricata il 26 luglio 2009, ultima modifica risalente al 2 settembre 2019 (consultato il 23 aprile 2021); https://maitron.fr/spip.php?article168979, notice TIBALDI Paolo par Pierre-Henri Zaidman, versione caricata il 24 dicembre 2014, ultima modifica risalente al 5 febbraio 2020 (consultato il 27 aprile 2021). Scheda redatta il 27 aprile 2021.