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La Certosa di Bologna | Dalle origini a Napoleone

1334 | 1796

Schede

Nell’estate del 1796 il rettore del convento di S. Girolamo della Certosa ricevette il seguente plico: "Armée d’Italie. Bologne le seize Méssidor An. 4. Les Commissaires du Gouvernement à la recherche des Objets de Sciences & Arts. Au Superieur du Couvent du Chartreuse. Nous vous faisons passer ci joint l’extrait du procés verbal des tableaux enlevés dans votre Eglise. Nous avons cru cette mesure necessaire. Salut. Liberté Egalité. Place de Bologne Extrait du procés verbal d’enlevement des tableaux de l’Eglise de la Chartreuse. 1. Un tableau representant la Communion de Saint Gerome, par Augustin Carrache. 2. Un tableau representant St. Bruno invoquant la Vierge, par le Guerchin. Nous Commissaires du Gouvernement français à la recherche des objets de Science et Arts en Pays conquis, Certiffions que les tableaux ci dessus enoncés ont été enlevés du susdit établissement, en vertu des pouvoirs qui nous ont été confiés par le Directoire Exécutif. Su foi de quoi nous avons signés le present pour service de Decharge à qui de droit. Bologne le seize Méssidor an 4 de la République Française."

Lo firmavano alcuni dei delegati del Direttorio parigino al seguito dell’armata napoleonica che il 23 giugno era entrata in Bologna, fra i quali erano anche i pittori Jean Simon Berthélemy e Jacques Pierre Tinet. Non era forse ancora chiaro a padre Ildefonso Iobbi, riponendolo nel suo faldone, che quel documento preannunciava la prossima fine. Fra il marzo e l’aprile dell’anno successivo, infatti – soppresso con gli altri anche quell’ordine monastico –, si stesero gli inventari di tutto quanto era contenuto nell’immenso convento fra dipinti, suppellettili e mobili. Nell’ottobre, altri due pittori (bolognesi, stavolta), gli accademici Clementini Domenico Pedrini ed Angelo Ferri, ne scelsero poco meno di duecento, anche se soltanto la metà di quelli furono poi materialmente trasferiti, in più riprese, nelle sale dell’Istituto delle Scienze per il costituendo Museo. Svuotato il convento, alla fine di quel 1797 rimaneva pressoché intatta la sola, grandiosa navata della chiesa che non aveva mai celato, dietro le vaste decorazioni, l’antico impianto gotico, ancora ricca del suo cinquecentesco coro ligneo e dei grandi teleri narranti le storie di Cristo. Mentre della sorte di quegli spazi straordinari non si intravvedeva ancora un futuro, per certo si concludeva una vicenda d’arte e di storia durata più di quattro secoli. “Ben degna del vostro incomodo, e della vostra ammirazione” l’aveva definita Carlo Cesare Malvasia, nel 1686, guidando il “passeggere” fino a qualche miglia lontano dal centro cittadino. Dopo quella prima pietra posta nel 1334, infatti, il potente ordine Certosino aveva ininterrottamente investito (senza trascurare le numerose proprietà terriere) sull’abbellimento ed ampliamento del cenobio.

La prima affermazione, di ricchezza e di cultura, possiamo porla a metà del Quattrocento quando sull’altar maggiore (del cui originario apparato, forse del 1347, nulla sappiamo) si collocò la straordinaria pala vivarinesca: la maggiore, anche per dimensioni, fra tutte quelle che ornavano allora le chiese della città. Era il frutto, anche, della predilezione per quell’ordine espressa da papa Nicolò V Parentucelli, antico segretario e consigliere del defunto cardinale Nicolò Albergati, già potente Priore dei Certosini dal 1410 al 1417, quando divenne Vescovo di Bologna. Non v’è dubbio, però, che al periodo aureo del convento bolognese dette l’avvio il priorato di Giovan Battista Capponi, che va dal 1587 alla sua morte, nel 1614. Il convento fu ingrandito, fra l’altro, col nuovo campanile, il grande chiostro e numerose cappelle.

Fu merito del Capponi il rinnovamento della decorazione interna della chiesa, a partire dall’abside dove trovarono posto i tre dipinti cristologici di Bartolomeo Cesi (Orazione nell’orto, Crocefissione, Deposizione), ciò che comportò la rimozione proprio del polittico vivarinesco, che trovò spazio in una delle cappelle laterali. Oltreché di Cesi – prescelto per le pitture dell’abside ma anche per numerosissime decorazioni degli spazi conventuali interni –, il Capponi fu il committente anche di Agostino e di Ludovico Carracci per le pale dei due primi altari a destra e a sinistra dell’ingresso (consacrati fin dal 1523), con l’Ultima comunione di san Girolamo e La predica del Battista, riservando al maggiore dei Carracci anche due altre raffigurazioni della passione di Cristo, la Flagellazione e l’Incoronazione di spine, destinate all’Atrio del Coro. In seguito, il Capponi si rivolse ad alcuni dei migliori scolari della bottega carraccesca: il suo ambizioso piano prevedeva infatti, oltreché il completamento della decorazione della chiesa principale, la costruzione di cinque nuove cappelle laterali (quattro preesistevano), ciascuna dotata di una pala d’altare. Lorenzo Garbieri dipinse la Lapidazione di santo Stefano, Alessandro Tiarini dette il San Bruno ritrovato da Ruggero e la Santa Caterina da Siena, Lucio Massari raffigurò la Vocazione dei santi Giacomo e Giovanni, Giacomo Cavedoni produsse il Miracolo di sant’Antelmo. Al Massari, infine – con un priore nuovo ma affine per cultura, il Baruffi –, toccarono due altre opere: quel Compianto su Cristo morto, dipinto nel 1620/22 per lo sperduto oratorio del Figatello (ma che sarà ricoverato in Certosa nel Settecento), e l’enorme Salita al Calvario per il Capitolo.

A quelle date, soltanto l’urbana chiesa della Pietà dei Mendicanti poteva contare altrettanti capolavori della scuola moderna bolognese; di poco prevalendo, forse, poiché vi era presente anche Guido Reni, l’unico grande pittore assente invece nella rassegna certosina. In realtà, neppure lui doveva mancare se, dovendosi mutare la dedicazione del primo altare (dal Battista al fondatore san Bruno), il priore Lorenzo Luchini volle affidarne a Guido Reni l’esecuzione della pala. Doveva rappresentare – come scriverà Carlo Cesare Malvasia nel 1678 – “il loro Santo Patriarca Brunone, con sotto il demonio, il mondo, e la carne, la quale rappresentata per una femina più del dovere scoperta nel petto, benché appunto per questo fosse bellissima, pure non incontrando tutta l’approvazione di quei religiosi costumati cotanto, e tanto gelosi di non porre su d’un Altare cosa, che meritasse qualche critica (benché fossevi stato il suo onesto e lodevol ripiego, prima di porvelo) sdegnossene per modo il Reni, troppo salvaticamente, e rozzamente riconvenuto, che più non volle finirlo, né più pensare a far loro anche il quadro dell’Altar maggiore; i quali duo’ quadri dato avrebbero certamente tutto il compimento alla per altro nobilissima galleria de’ quadri, che orna e nobilita quella chiesa”. Come spesso accade nell’epopea malvasiana, memorie confidategli, ricordi e giudizi confliggono fra loro anche a poche pagine di distanza, mentre il filtro del nostro storico sa omettere anche inconsapevolmente quanto metterebbe in discussione il suo assunto. Sappiamo che la commissione a Bartolomeo Cesi per l’altar maggiore risaliva all’ultimo lustro del Cinquecento ed apparteneva pienamente al gusto di un committente come il Capponi. La decisione di procedere all’ampliamento dell’iconoteca della chiesa è invece cosa di metà Seicento, di gusto più “moderno”, a procedere appunto dalla obbligata sostituzione della pala di Lodovico.

Anche Reni, quindi, dovette essere chiamato soltanto per questa seconda fase dei lavori in Certosa, e non certo – come afferma il Malvasia – per affidargli la pala dell’altar maggiore. Sta di fatto che, andato a vuoto il tentativo dei frati (col nuovo priore Bernardino Pelliccioni) di far modificare e completare al Guercino l’incompiuta tela reniana, il centese preferì dipingere ex novo un soggetto differente, consegnando nel 1646 il San Bruno in adorazione della Vergine che così prese il posto della pala di Ludovico, ricollocata in una appropriata cappella interna. Quanto all’abbozzo reniano, poi – ce lo racconta ancora il Malvasia –, i certosini lo cedettero a Giovanni Andrea Sirani “in diminuzione del prezzo avuto per la grande e la famosa Cena del Fariseo” e, venduto in Francia, se ne persero le tracce. Poiché la decorazione della chiesa non era tuttavia considerata compiuta, a metà del secolo i Certosini mobilitarono la dominante scuola del Reni, e al completo. Da Giovan Francesco Gessi si ottennero, fra 1645 e ’48, i due grandi “tavoloni laterali” con La pesca miracolosa e la Cacciata dei mercanti dal Tempio, immeritatamente disprezzati dal Malvasia. Chiesero poi a Giovanni Maria Galli detto Bibiena “la tavolona del Cristo ascendente il Cielo” (1651), da porre a lato del capolavoro guercinesco, che fu raggiunto qualche anno dopo (nel 1658) dal Giudizio finale del Canuti. Per le pareti laterali della cappella di San Girolamo, invece, a Giovanni Andrea Sirani ed alla figlia Elisabetta si commissionarono rispettivamente, la Cena in casa del Fariseo con i due santi laterali, e il Battesimo di Cristo, anche questo con due santine laterali (1658). Infine, al giovane ma già affermato Lorenzo Pasinelli furono chieste l’Apparizione di Cristo alla Madre con i Padri del Limbo e l’Entrata di Cristo in Gerusalemme (1657 e 1658). Alla fine di quel secolo, così, il cuore della Felsina Pittrice malvasiana vi si trovava rappresentato in una sequenza ineguagliabile altrove. Nel secolo che seguì – funestato anche da un’occupazione, fra ottobre 1742 e marzo del ’43, di soldataglie impegnate nella guerra di successione austriaca – non mancarono alcune, saltuarie, acquisizioni prestigiose, come quelle del piccolo dittico crespiano e soprattutto della pala di Ubaldo Gandolfi raffigurante La visione di san Francesco di Paola (fra 1778 e ’79), destinata al Capitolo, che parve suggellare così l’intero corso della vicenda pittorica cittadina.

Visitata nel 1656 dalla regina Cristina di Svezia, nel luglio del 1785 varcava il suo recente, monumentale ingresso un altro turista eccezionale, il duca Pietro di Curlandia, che in quel soggiorno bolognese vorrà anche concretamente manifestare la devozione alla grande tradizione artistica locale col ricco lascito all’Accademia Clementina. Negli anni successivi, di nuovo la Certosa sarà la meta privilegiata dei viaggiatori europei (da lord Byron a Giacomo Leopardi), ma ciò accadeva quando quel luogo aveva definitivamente mutato natura e significato, acquisendo una nuova, inattesa potenza di suggestione.

Gian Piero Cammarota

Testo tratto dal catalogo della mostra "Luce sulle tenebre - Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna", Bologna, 29 maggio - 11 luglio 2010. Bibliografia: A. Masini, Bologna Perlustrata, Bologna, 1666, I, pp. 139-140; C.C. Malvasia, Felsina Pittrice, Bologna, 1678, ed. 1841, I, pp. 246; 284-286, 392-393; II, pp. 41, 133, 196, 248, 293, 328, 394, 409; C.C. Malvasia, Le Pitture di Bologna, Bologna, 1686, pp. 341-344; Pitture, Scolture ed Architetture delle Chiese, luoghi pubblici, palazzi, e case della città di Bologna, e suoi sobborghi, Bologna, 1782, pp. 405-415; [J.A. Calvi e G. Lucchesini] La Certosa di Bologna descritta nelle sue pitture, Bologna, 1793; G. Pesci (a cura di), La Certosa di Bologna. Immortalità della memoria, Bologna, 1998, e in specie i saggi: C. Zaniboni, Storia ed architettura, pp. 23-31; M. Medica, Il Trecento e il Quattrocento, pp. 37-45; M.P. Marzocchi, Il Cinquecento e la decorazione di Bartolomeo Cesi, pp. 47-55; A. Brogi, Dall’età dei Carracci all’arrivo dei Francesi, pp. 57-71.